“SULTAN”

(Novella)

Se vi accadrà, un giorno, di conoscere il pittore Calogero Speranza (lo riconoscerete subito, dalla lunga chioma che, da dieci anni, pende indecisa tra il bianco, che sarebbe la sua vocazione naturale, il rosso, che gli è stato imposto da un parrucchiere di idee avanzate, e il bruno, che gli è stato sovrapposto da uno specialista in tinture, di idee clericali), evitate di fargli dei discorsi in cui possano cascare delle divagazioni psicologiche sui grandi delitti e sui grandi rimorsi. Calogero Speranza – cavaliere di svariati ordini equestri di paesi noti soltanto ai geografi più profondi e membro di istituti coloniali di regioni dove, per solito, dominano la peste gialla, il vaiuolo nero ed altri morbi colorati – ha la ferma convinzione di essere stato un delinquente, nella sua giovinezza; e tutte le decorazioni e le pergamene di questo mondo non valgono a rasserenargli l'animo, quando il passato gli torna alla memoria e, nelle notti insonni, vede la sua cameretta da scapolo popolata di vittime sanguinose che chiedono vendetta a Dio, levando in alto le braccia scarne, come è consuetudine di ogni vittima che si rispetti e che abbia ancora delle braccia a sua disposizione.

Non è già che Calogero sia stato un assassino che abbia scannato, come Tropmann, che abbia incendiato, come Erostrato, o che abbia fatto saltare in aria degli edifizi con la dinamite, come Ravachol, Henri o Vaillant; no. Ma il delitto del pittore è stato ben più raffinato, perchè consumato nell'ombra, e le sue conseguenze hanno potuto essere spaventose perchè, come si sa, le belve affamate non scherzano mai, neanche quando siano di natura gioviale. Soltanto, egli ha ignorato sempre quel che sia accaduto, dopo il suo delitto, perchè si è messo in salvo rapidamente, appena l'ha consumato, e per un anno non ha letto più giornali, ciò che ha giovato moltissimo alla sua salute.

I suoi tardivi rimorsi, quindi, sono originati dal più atroce ed impenetrabile dei misteri. Egli vede, nelle sue allucinazioni, un x formidabile, e questo x gronda sangue. E un nome gli torna alle labbra, un nome breve e terribile, che lo fa sussultare nel lettuccio, all'ora dei fantasmi: il nome di Sultan.

E intende, allora, nel silenzio notturno, un ruggito lontano che gli fa scrollare la criniera tricolore, come all'appello di un compagno del deserto...

* *

La «giovinezza» di Calogero Speranza è qualche cosa di cronologicamente imprecisato, che, a furia di induzioni e di deduzioni, può fissarsi, in una misura piuttosto larga, a un periodo di una quarantina d'anni indietro, al tempo, cioè, in cui la lotta fra Tre-Monti e Tre-Valli era nel suo periodo acuto.

Perchè questi due paesetti, di circa duemila anime ciascuno, e separati tra loro da una stradetta provinciale scabrosa come il bilancio di un fallito, fossero in lotta, non si sa: probabilmente per una questione di santi protettori o di possessi di terricciuole sassose e tignose poste ai confini; certo, i vespri delle domeniche erano quasi sempre consacrati a un reciproco scambio di sassi e qualche volta correva qualche coltellata, che metteva una nota porporina nel conflitto.

Naturalmente, i Tre-Montini non passavano per Tre-Valli per nessuna ragione al mondo e si contentavano di fare un giro immenso per boscaglie e dirupi piuttosto che mettere il piede nella piazza nemica, e i Tre-Vallesi si sarebbero fatti scannare piuttosto che far suonare sotto le loro scarpe ferrate il lastricato di Tre-Monti. Ciò spiega perchè, in quel lontano pomeriggio di autunno in cui un piccolo serraglio di bestie feroci piantò le sue tende all'ingresso di Tre-Monti, i Tre-Vallesi, raccolti innanzi al loro palazzo municipale, giurarono solennemente di morire ma non recarsi a vedere neppure da lontano le baracche del domatore, e di respingere anche con la forza costui e le sue bestie, se si fosse permesso di voler entrare in Tre-Valli dopo aver data la precedenza a Tre-Monti.

Il serraglio arrivò in un crepuscolo gravido di pioggia, che metteva una tonalità violacea sulle casette del paese e dava agli alberi rossicci una nota di rame che si andasse ossidando: e i primi curiosi che assistettero al piantarsi delle baracche, fremettero, ascoltando i ruggiti delle belve, e proclamarono, più tardi, nella farmacia di don Venanzio Boccia, che «il leone sentiva la pioggia».

— Come la rana! — sentenziò don Venanzio.

E questo riavvicinamento tra due bestie della creazione così poco conciliabili tra loro immerse la farmacia in un silenzio pieno di riflessioni profonde.

* *

La pioggia venne, infatti, con la notte, e fu raffica violenta e rabbiosa, una di quelle raffiche autunnali che sembrano delle crisi isteriche della natura e che hanno un po' di tutto, dal sibilo del vento al rombare del tuono, dallo scrosciare della pioggia al crepitare della grandine; ma non fu la variazione barometrica, che determinò i ruggiti serali della leonessa – perchè la bestia che urlava era di sesso femminile –; fu, invece, un avvenimento che i poeti chiamano sacro anche nelle leonesse, ma che i trattati di scienze naturali proclamano quasi impossibile, tra bestie in schiavitù: la maternità.

Quali strane rievocazioni del deserto lontano, quali nostalgie dei cieli africani, trapunti di stelle come manti regali, avevano sussurrata la parola d'amore a quella magra coppia di leoni spelati, che girava da sette od otto anni per tutte le fiere della Sicilia? Aveva, forse, la calda terra della Trinacria soffiato sulle loro schiene col suo alito bruciante, carico di tutte le vampe dell'Africa vicina? Chi può dirlo? Certo, quella sera d'autunno l'evento si era compiuto e, mentre la bufera infieriva sulle baracche e il vecchio leone, scrollando la criniera logora come una pelliccia rosa dalle tignole, assaporava l'orgoglio della paternità, la leonessa proclamava, ruggendo, la venuta al mondo di due piccoli esseri striscianti e trepidi, che il tuono salutava con le sue salve, come si salutano i figli dei re. E diciamo pure che mai nascita gemellare fu accolta da un malumore più profondo da parte di un padrone di casa. Mossiù Gervois (così si faceva chiamare, pomposamente, il domatore) comprese subito che quei due micini nudi e magri come vermi sarebbero morti di fame, per le cattive condizioni di salute della madre o che, ad alimentarli, avrebbe dovuto ricorrere alle più ingegnose complicazioni della lattazione artificiale.

A queste preoccupazioni, se ne aggiunsero due altre, e gravissime: la prima, perchè la leonessa, per parecchi giorni, sarebbe stata sofferente e non avrebbe potuto mostrarsi al «colto pubblico»; la seconda, perchè, verso l'alba, un colpo di vento più screanzato degli altri aveva portato via, di schianto, il bel cartellone a colori su cui era dipinto mossiù Gervois in giubba rossa e decorazioni, che faceva saltare sul suo capo quattro leoni del più bel giallo carico che abbia mai strillato sulla tavolozza di un pittore di scuola napoletana. E tutti sanno che un serraglio senza cartellone è come un soldato senza spada o una bella donna senza una velatura di cipria.

Ragione per cui, come il giorno mise una luce scialba e stanca sulle baracche inzuppate e sulle cime degli alberi, ancora sconvolte dalla burrasca della notte, mossiù Gervois mandò un suo garzone, che faceva da stalliere, da groom e da aiutante domatore, a cercare un pittore e un falegname in Tre-Monti.

* *

Un falegname, per solito, si trova più facilmente che un pittore; ma Tre-Monti aveva l'onore di ospitare nelle sue mura, dalla nascita, Calogero Speranza. Tre-Montino di sangue, il pittore aveva voluto rimaner tale anche di domicilio, affermando così, nella maniera più solenne che gli era possibile, il suo odio al paese di Tre-Valli che gli aveva fatto un affronto indicibile quando egli aveva vent'anni. Quale fosse quest'affronto non si sapeva con precisione, ma qualche mala lingua pretendeva che il pittore avesse offerto, tempo fa, il suo cuore e un ritratto ad olio alla figlia di un possidente dei dintorni, intravista un giorno in una passeggiata arcadica per i boschi, e che il genitore della fanciulla avesse riso così indegnamente del cuore e dell'olio che Calogero, da quel momento, si fosse ripromessa una vendetta contro colui che gli avrebbe portato via il suo sogno. E fu, per uno strano caso, proprio il sindaco di Tre-Valli. Più tardi, Calogero dimenticò la vendetta, ma restò egualmente a Tre-Monti, e fu così che, quella mattina, potette presentarsi, col falegname, sul luogo del piccolo disastro.

Mossiù Gervois accolse festosamente tutti e due, presentò loro madame Gervois sua moglie, il suo personale, composto di due uomini, e la sua ménagerie, compresi i piccoli nati, e mezz'ora dopo erano tutti e sei, escluse le bestie, nella Trattoria dell'Agave a bere un bicchier di vino.

Il falegname, pratico come un buon artefice, fissò il compenso dell'opera sua di rabberciamento; il pittore, gran signore come tutti gli artisti, si limitò a dire:

— Poi se ne parlerà..., che diamine!

E guardò la faccia rubiconda di madame Resedà, che ebbe un sorriso tra il sentimentale e il dignitoso, come può averlo una domatrice di leoni che legga i romanzi di Ottavio Feuillet.

Poi soggiunse:

— Se nel cartellone ritraessimo anche la signora? In un bel costume attillato, farebbe un effettone...

Mossiù Gervois approvò, arricciandosi i baffi: solo pretese che egli avesse tre leoni ai piedi e la moglie un leone soltanto sul capo, e a questa giusta pretesa, fatta in nome della superiorità maschile, Calogero Speranza non ebbe nulla da opporre. Si trattò solo di scegliere i colori degli abiti: mossiù volle una giubba all'ussara, azzurra con alamari d'oro: madame un corpetto di velluto verde, con un maglione d'un rosa fragola da fare ingelosire il musetto di un gatto giovine.

Dopo di che, si strinsero le mani con un cordiale arrivederci e gli artisti si misero all'opera, ciascuno per conto suo: il falegname andò a prendere dei chiodi e delle assicelle di legno, i domatori andarono a mettere un po' in ordine il «serraglio» e Calogero Speranza si richiuse nella sua stanzetta e brandì il carboncino per schizzare l'insieme della scena formidabile che doveva ritrarre il dominio dell'uomo sulle bestie più feroci della creazione.

* *

L'opera gli costò parecchi giorni di lavoro: ma in quei giorni i rapporti di cordialità tra il pittore e la coppia Gervois divennero sempre più intimi: un po' per la necessità di far posare il maestoso domatore e la solenne domatrice, un po' per un certo interessamento alla vita delle belve, Calogero Speranza finì col trasportare il suo cartellone e passare gran parte delle sue giornate tra le quattro gabbie in cui sonnecchiavano i due leoni, una scimmia tignosa, un orso malinconico come un poeta decadente e due cani di razza incrociata che il domatore si ostinava a chiamare lupi siberiani. Quanto ai due leoncelli, essi miagolavano in un cesto, in attesa della parca razione di latte che la leonessa poteva concedere, con un supplemento di latte di capra allungato con l'acqua, che madame Gervois si degnava di somministrare personalmente, di nascosto del marito. Più volte, anzi, accanto a quel cesto, il pittore e la domatrice si erano incontrati, curvandosi insieme sui piccoli affamati, e le loro mani, protese a carezzare le testine irrequiete, si erano toccate: e ciò aveva turbato immensamente il pittore, che sentiva ridestarsi in cuore le ceneri del suo primo amore, e si indugiava ad almanaccare l'inizio di un adulterio platonico, intessuto in un serraglio di bestie feroci, con una cornice di leoni ruggenti e la prospettiva di un domatore furioso che avrebbe potuto sbucare da un nascondiglio, improvvisamente, armato del suo scudiscio e della sua dignità maritale oltraggiata.

Senonchè mossiù Gervois era la miglior pasta di domatore di questo mondo, e, quando non era l'ora dello spettacolo, preferiva passare il tempo al caffè o fumando la pipa in piazza; ragione per cui il cartellone di Calogero Speranza si andava riempiendo di disegni e di colori assai lentamente, e le stazioni innanzi al cesto dei leoncini erano sempre più lunghe e più frequenti.

Il pittore, anzi, pretendeva che, ormai, le due bestiole lo riconoscessero, e s'inquietava per la salute di una di esse, che il regime assai misurato minacciava seriamente e dimagrava a vista d'occhio.

E fu proprio sul capo innocente del più malaticcio dei leoni poppanti che, una mattina, le grosse mani di madame Gervois rimasero per un momento prigioniere nelle mani sottili e sporche di un bell'azzurro oltremare dell'artista.

— Ah, signora!... — sospirò il pittore.

— Tacete, signore... — mormorò la domatrice.

Il grido sfuggito ai due cuori li turbò deliziosamente e la piccola baracca, con le sue quattro gabbie, parve trasformata in uno dei più idilliaci paesaggi di Chateaubriand, in cui le foreste si ostinano a rimanere vergini mentre gli uomini e gli animali cantano l'inno dell'amore eterno.

* *

Affrettiamoci a dire che la cosa non andò più in là: ma era già abbastanza perchè Calogero Speranza, a lavoro finito, non osasse più chiedere un compenso. E, poichè il cartellone fu inalberato proprio il giorno innanzi la partenza del serraglio da Tre-Monti, fu una specie di banchetto di gratitudine e di addio che raccolse, la domenica a sera, il pittore e i coniugi, nella stessa baracca in cui, mezz'ora prima, aveva avuto luogo un altro pasto, quello delle belve.

— Signor Speranza, noi porteremo con noi il ricordo della vostra grande cortesia «attraverso il mondo» – disse, alle frutta, mossiù Gervois, felice di non dovere sborsare dei quattrini, tanto più che a Tre-Monti ne aveva guadagnati pochini. – Ma vorremmo lasciarvi, almeno, un attestato della nostra gratitudine...

— Gratitudine infinita... — soggiunse madame Gervois, socchiudendo gli occhi.

Calogero Speranza inghiottì una mezza pera e mormorò:

— Ma no... vi assicuro... sono io, al contrario...

I due coniugi si scambiarono un'occhiata, poi mossiù Gervois mise una mano sul cuore, e disse, con energia:

— Ascoltate, signore. Voi non siete un uomo che si ricompensa con un dono volgare... Voi siete un artista e siete un uomo intrepido... Io non vi ho visto mai impallidire qui dentro...

Il pittore, con l'altra metà della pera tra le dita, arrossì.

— Voi non temete le belve, lo so... E so che, come Orfeo, quel pittore dell'antichità, sapreste domarle con la vostra arte... Io vi offro qualche cosa che è degna di voi...

Vi fu una pausa di silenzio, durante la quale salì, dal cesto, un miagolio sommesso di bimbo piangente.

— Signor pittore – proseguì mossiù Gervois – io vi dò più che del danaro: vi dò una fortuna. Da questo momento, Sultan è vostro!...

Sultan? — chiese l'artista, spalancando gli occhi.

— Sì. Sultan secondo – proclamò il domatore, levando le braccia. – L'erede.

Madame Gervois si asciugò l'angolo dell'occhio destro e sussurrò:

— Sappiate custodirlo. Egli è tutto suo padre...

E in quella commozione il buon Calogero lesse un'altra raccomandazione tacita: quella di vegliare all'esistenza del piccolo essere che era stato testimone della loro furtiva stretta; del leoncino galeotto.

* *

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E fu così che, partito il serraglio, Calogero Speranza si trovò legittimo proprietario di un leone di dieci o dodici giorni di età e di salute assai precaria.

Un leone, conveniamone, però, è sempre un leone, e sapersene padrone assoluto, vederselo strisciare ai piedi, doverlo adagiare pazientemente in una cuccia di vecchi stracci, dovergli versare in bocca, amorosamente, dei cucchiai di latte, finisce col dare un'aureola di eroismo.

Per quattro o cinque notti di fila Calogero Speranza sognò di vestire di azzurro, con gli alamari, e di vedersi saltare sul capo delle dozzine di leoni gialli; e per quattro o cinque mattine, levandosi dal letto, indugiò prima di mettere i piedi a terra, per paura di essere addentato da una belva nascosta sotto il letto. Poi, ci fece l'abitudine, e visse per un mese tappato in casa, facendo da nutrice a Sultan, nascondendo a tutti, gelosamente, il suo tesoro, che, neanche a farlo apposta, pareva deciso, ormai, a vivere, ed affermava questo suo diritto alla vita con una voracità sempre maggiore.

Quando la bestia cominciò a scorrazzare per la camera, come un giovane micio, Calogero Speranza pensò di fare la sua prima e solenne apparizione in pubblico, e una domenica, mentre i Tre-Montini uscivano dalla grande messa della parrocchia, Sultan si mostrò nella piazza del paese, legato con una cordellina, seguendo docilmente il padrone, che andò pomposamente ad occupare un posto innanzi al caffè dell'Alleanza.

Le discussioni fioccarono:

— È un gatto.

— Ma che! È un cane.

— Sbagli! È una piccola volpe.

— Un corno! È un lupicino.

Egli lasciò sfogare: poi disse solennemente:

— Asini! È un leone.

Si aspettava un effetto maggiore: vide, invece, dei volti increduli e delle bocche ridenti.

— Un leone? Quello? Va là... Burlone!

E fu un coro di sghignazzamenti:

— Toh, micino! Qua, Saltapicchio... Psss, psss... La vuoi una crosta di pane?

E piovvero dei tozzi risecchi, delle castagne, qualche lisca di pesce.

Egli pensò, trucemente:

— Se adesso sciogliessi il laccio!

Ma si rattenne: il cittadino prudente non versa impunemente il sangue fraterno.

E ritornò a casa verde dalla bile, brontolando a denti stretti:

— Idioti! Non sanno riconoscere un leone... E poi si parla di civiltà!

* *

Altro che micio! Sultan ormai cresceva a vista d'occhio. Il piccolo essere magro e deforme aveva preso le proporzioni di un cagnolino mops, e il latte, ahimè, non bastava più.

Quando Calogero Speranza ebbe fatta questa terribile constatazione cominciò a preoccuparsi.

— E che cosa gli darò da mangiare, adesso?

Fu, allora, una lenta educazione alimentare, che dovette impartire al leoncello; obbligarlo a cibarsi di un po' di tutto, dal risotto all'insalata, dai maccheroni al fritto di zucchini: avvenivano, ogni giorno, delle scene comicissime, delle fughe in giro per acchiappare la bestiola e farle inghiottire delle patate fritte, dei conflitti tremendi che finivano, qualche volta, a colpi di artigli, che lasciavano dei graffi allarmantissimi.

Calogero Speranza, per restare nella tradizione, si era fabbricato uno scudiscio; ma lo scudiscio, è bene notarlo, può essere efficace nello stretto recinto di una gabbia, ma non in una camera, in cui la bestia può sfuggirvi, appiattarsi sotto una seggiola e poi venire a tradimento a mordervi i polpacci.

Si aggiunga che Sultan, qualche volta, era riuscito a scappare in un cortiletto accanto, dove aveva massacrato dei pulcini e perfino un coniglio, e che, ogni volta che il pittore doveva uscire, era costretto a sostenere una vera lotta col leoncello, che voleva sgattaiolare dallo spiraglio dell'uscio, per seguirlo.

Il paese intero, che il primo giorno aveva schernito il minuscolo re del deserto, adesso era indignatissimo. Si mandava a dire al proprietario della belva che la custodisse bene, lo si diffidava di ogni possibile conseguenza di una fuga nefasta, lo si minacciava di ricorrere ai carabinieri, si finiva col chiamare responsabile il povero Sultan di ogni furto di galline che avvenisse in paese.

Infine, una mattina, un gruppo di tre persone, il sindaco, il farmacista e il parroco, si fermò sotto la finestra di Calogero Speranza e lo chiamò col fischio convenzionale dei Tre-Montini.

— Ebbene, amici? — chiese il pittore, cacciando il capo dalle imposte.

— Ebbene, Speranza: noi veniamo a portarvi l’ultimatum del Consiglio Comunale, riunito d'urgenza ieri sera. Un leone in paese è pericoloso. Vendetelo o ammazzatelo!

E il farmacista soggiunse:

— Vi darò io l'arsenico.

* *

Venderlo? E come? E a chi? Ammazzarlo? Disfarsi col veleno o con un colpo di pistola di una bestiola che, dopo tutto, facendo il leone, faceva il suo mestiere? Ed era così che avrebbe ricambiato il dono dei coniugi Gervois? E tutti i cari ricordi, che Sultan gli rievocava, di quella stretta, furtiva come la lacrima dell’Elixir d’amore?

Quel giorno Calogero Speranza stette col capo fra le mani, cercando una soluzione. Sultan ruzzava per la camera, giuocherellando con un tappo di bottiglia e, ogni tanto, con la coda ritta, veniva a stropicciarglisi contro i pantaloni. Poi, a un certo momento, divenne cattivo, si inarcò come un gatto, soffiò e si mise a lacerare con voluttà un paio di pantofole che non avevano davvero bisogno di quel trattamento per finire onoratamente una vita di stenti e di rammendature.

La strage delle pantofole decise Calogero ad agire. Egli aveva trovato.

Attese che l'ombra della sera fosse discesa, poi disse, tragicamente: — Andiamo.

Schiuse l'uscio, guardò la via deserta e si avviò.

Sultan, con la coda ritta, gli trotterellò dietro, fermandosi solo una volta, per ghermire un pollastro che aveva fatto tardi e non si era trovato in tempo a ritornare al suo pollaio, chiuso al tramonto come è regola di tutti i conventi.…. Non si è nati a Tre-Monti senza avere nel sangue l'odio contro Tre-Valli e un sogno di vendetta covato a lungo nell'anima; e il pittore, si ricordò, improvvisamente, di avere il suo. Un vecchio aforismo di guerra dice che per vincere il nemico tutte le armi sono buone. Ecco perchè, quella sera di febbraio, tutta piena di brividi nelle siepi e di stelle nel cielo, Calogero Speranza camminava, cautamente, per la via che menava a Tre-Valli.

All'ingresso del paese, egli si curvò e mise qualche cosa sotto il mantello; dall'altro lato sporgeva un grosso involto: il bagaglio completo del pittore. Riprese, così, la via, tra i due fardelli, uno dei quali si agitava furiosamente, e si arrestò innanzi a un cancello.

S'indovinava, dietro le sbarre, la macchia pretenziosa di un boschetto che voleva essere un parco, e che si allargava, poi, attraverso le terre coltivate, che scendevano a valle.

Era la villa del sindaco di Tre-Valli: la rocca nemica; al sommo del cancello, due leoni dorati si abbracciavano.

— La vendetta ritarda, ma arriva — mormorò con la voce sepolcrale di un giustiziere Calogero Speranza, schiudendo il mantello. Tese le braccia, fece passare tra le sbarre Sultan, lo lasciò cascare sull'erba, poi, dopo aver frugato in tasca, gli gettò un osso, lontano. Il leoncello corse a cercarlo e sparì nell'ombra.

— Addio – sussurrò con voce soffocata Calogero Speranza. – Che il mio delitto sia perdonato!

E proseguì il suo cammino a grandi passi, verso altri paesi, lasciandosi alle spalle il suo rimorso a quattro zampe.

* *

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Ecco il segreto che Calogero Speranza porta gelosamente nel cuore, ed ecco perchè, dopo tanto tempo, il vecchio pittore si sorprende, talora, a guardarsi le mani, come lady Macbeth, e a domandarsi quel che risponderà al Signore, il giorno del giudizio, quando gli sarà chiesto conto di una tragedia della quale egli conosce soltanto il prologo...

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