I.

La questione italiana fu falsata in Italia e fuori da quando il conte Cavour la ridusse, davanti ai rappresentanti i governi stranieri, nei termini: O riforma o rivoluzione. Quanto d'allora in poi s'attraversò al libero, logico, razionale sviluppo del nostro moto, scese dalla formola malaugurata: quel tanto che sulla direzione dell'intento s'è conquistato, è dovuto ai buoni istinti del nostro popolo.

L'Italia non s'agita da mezzo secolo per ottenere riforme. Se una certa somma di miglioramenti amministrativi, giudiziari, civili, po­tesse acquetarlo, essa l'avrebbe già conquistata. L'Italia vuol essere. Essa tende a costituirsi in Nazione, Una e libera da ogni tirannide straniera o domestica, religiosa o politica. Riformerà poi sè stessa da sè, interrogando la propria tradizione, i propri bisogni, le proprie tendenze. La questione italiana è, prima d'ogni altra cosa, questione di Nazionalità. Ora la questione di Nazionalità non può sciogliersi se non rovesciando, da un lato, il papa e i re che la smembrano, lacerando, dall'altro, i trattati del 1815, disfacendo l'impero d'Austria e rimutando la Carta d'Europa.

La questione Italiana è dunque questione di Rivoluzione. E bisogna trattarla siccome tale.

Se la politica del conte Cavour fosse stata, non politica sarda, ma — comunque monarchica — veramente Italiana, egli avrebbe detto ai diplomatici stranieri: «Signori, non v'illudete; la rivoluzione Italiana è un fatto oggimai inevitabile. Sta in voi far sì ch'essa prorompa più o meno violenta, più o meno funesta a tutti i governi d'Europa. Ostinandovi a perpetuare per l'Italia un sistema del quale non è esempio in Europa — abbandonandola alla tirannide dell'intervento straniero — contendendole ogni espressione di vita propria. — voi la costringete ad allearsi con quanti malcontenti ha l'Europa, a cercare nel sommovimento universale una più spedita probabilità di salute. Noi, uomini d'ordine e di monarchia, non provocheremo la rivoluzione che antivediamo; ma siamo noi pure Italiani, e per l'amore che portiamo alla Patria, comune come per la necessità di salvare la monarchia, noi dovremo, quando s'inizii, secondarla e tentar di dirigerla. Voi potete tentar d'isolarla. Il filo elettrico che la lega all'Europa è l'intervento. Sopprimetelo. Fate che s'adempiano le solenni promesse di dieci anni addietro e cessi l'occupazione francese in Roma. Imponete all'Austria di non oltrepassare, checchè avvenga, nel rimanente d'Italia, i confini lombardo-veneti. Restituite l'Italia al Diritto delle Nazioni: lasciatela a fronte non d'una Europa collegata a' suoi danni, ma soltanto de' suoi padroni. E dove no, pesino su voi le conseguenze dell'antica ingiustizia. Non avrete pace mai dall'Italia. Avrete in essa un incitamento perenne all'insurrezione d'Europa e un perenne pretesto ai disegni ambiziosi di chi promettendole aiuto, vorrà farne campo di guerra ad una o ad altra potenza.»

Linguaggio siffatto avrebbe provveduto all'onore e alla salute d'Italia e ad un tempo agli interessi della monarchia piemontese. La monarchia avrebbe raccolto intorno a sè i voti e le speranze, non della poco energica turba dei creduli e della turba dannosa dei faccendieri, ma del popolo vero, volente, onnipotente, d'Italia. Gli uomini di pressochè tutti i partiti d'Europa avrebbero senz'altro appoggiato una dottrina di non-intervento che ha il doppio merito agli occhi loro di congiungere giustizia e poca probabilità di contese armate. I sospetti covati dai governi d'Inghilterra, di Prussia e Germania contro l'influenza usurpatrice di Luigi Napoleone, avrebbero accolto quel linguaggio e promosso una politica deliberatamente avversa ad ogni ingerenza bonapartista nelle cose nostre. Il piccolo Piemonte avrebbe potuto esser l'anima d'una coalizione più o meno caldamente sostenitrice del grido che già dirigeva le agitazioni popolari: l'Italia per gl'Italiani.

E allora, bastava al Piemonte, lasciato con una Italia fremente a fronte dell'Austria, far correre una voce alle popolazioni vogliose: aiutatevi, v'aiuterò: gli bastava ordinarsi quietamente, senza inutili minaccie, alla riscossa: e intanto, affratellandosi segretamente cogli uomini della Rivoluzione e riconcedendo alle più che modeste esigenze degli uomini liberi il programma, accettato, poi tradito con sua e nostra rovina da Carlo Alberto nel 1848, della Sovranità del paese, confondere in uno tutte le frazioni del Partito Nazionale, creare la fiducia, confortar gli animi al fare. Il paese avrebbe fatto. Il paese avrebbe colto alla sprovveduta e sperperato coll'insurrezione il nemico. Rifatto il 1848, non rimaneva al Piemonte che sottentrare, con migliori uomini e migliori disegni di guerra, all'iniziativa popolare e compirne i trionfi. L'Austria non era, prima delle minacce mosse da Parigi e Torino, più forte in Italia, che non fosse undici anni addietro, quando l'insurrezione distrusse in cinque giorni la potenza austriaca da Milano a Venezia. E non vive un sol uomo di guerra tra noi, il quale non abbia scritto o detto che la vittoria fu nel 1848 un mero problema di Direzione. L'ultima vittoria, in ogni guerra di Nazione, spetta all'elemento regolarmente ordinato; ma la prima — ed è quella che racchiude in germe tutte le vittorie future — spetta all'insurrezione, all' iniziativa del popolo. L'insurrezione assale il nemico non preparato, con modi e su punti non preveduti: ne smembra le forze e le separa dalla loro base d'operazione: infonde in essa quel terrore d'altrui e quello sconforto di sè che sono in ogni guerra, i più potenti ausiliari contro un esercito; e fa d'un paese intero riserva inesauribile alle forze ordinate.

Il conte Cavour sapea quanto noi queste cose; ma egli abborriva la rivoluzione; abborriva l'idea d'una iniziativa di popolo e la coscienza di forza che ne deriva; abborriva ogni concessione, anche menoma, a chi non si dichiarasse anzi tratto fautore cieco della monarchia piemontese. Uomo d'arti tattiche e non di principii, e capace di giovare ai propri disegni ingannando, ei non credeva nell'altrui lealtà. D'indole ambiziosa e dispotica, ei non potea tollerare ch'altri entrasse con animo libero a parte de' suoi disegni. Pertinace più che ardito, incapace, per mancanza d'alto core, d'alta mente e di fede, di salire a vasti concetti, s'era aggiogato a un interesse, l'interesse dinastico di Casa Savoia. Spodestare il Papa, tentare Unità di Nazione, non entrava nella sua mente, parlarne a chi gli s'aggirava ( ) intorno gli pareva artificio buono a conquistare l'altrui servile credulità, e ne usava. Ma il suo vero disegno non oltrepassò mai i termini del programma fallito nel 1848, il Regno del Nord. L'Italia era per lui mezzo non fine: l'agitazione di tutto quanto il paese, un'arme buona a dargli potenza per raggiungere quel misero intento, da spezzarsi poiché lo avesse raggiunto.

Con questi propositi era immorale, ma logica la via ch'ei tenne. Il Piemonte non poteva allora nè potrà mai da per sè conquistare intero il Lombardo-Veneto. Bisognava dunque cercare un alleato. Fermo in non volere l'alleanza del popolo, ei dovea cercarlo dove fossero interessi tali da rendere l'alleanza possibile e dove l'alleanza ottenuta una volta, fosse arme potente ad un tempo contro l'Austria e contro la Rivoluzione. Quindi l'alleanza col Bonaparte: alleanza che ha costato già vergogna e delusione e costerà nuovo sangue all'Italia. Intanto, e quando quell'alleanza fatale non era ancora fatto compito, ma solamente pericolo da scongiurarsi per ogni via, l'attitudine della monarchia piemontese e il linguaggio tenuto da Cavour nelle Conferenze facevano tumultuar di speranze la povera Italia, malata di dolori insopportabili, d'ignoranza forzata, di materialismo tradizionale e d'ire impotenti, perchè non santificate da fede nella propria missione e nelle proprie forze. Gl'Italiani non s'avvedevano che la formola o riforme, o rivoluzione rivelava un antagonismo radicale fra le intenzioni governative e il sommo intento del moto, e poneva la rivoluzione come segno non di speranza, ma di terrore: non s'avvedevano che la parola riforme accennava fin d'allora alla federazione dei principi e rinnegava l'Unità popolare: non s'avvedevano che quella formola parlava ai governi d'Europa quali essi fossero, sagrificava il Diritto Italiano e la nostra spontaneità, e cacciava l'Italia in sembianza di mendica ad aspettare i suoi fati dal beneplacito dello straniero. Travedevano nell'insidioso dilemma una disfida ai padroni d'Italia e ingigantivano, travolti dal desiderio, quelle parole sino alle dimensioni d'una promessa. Sentivano le riforme impossibili e ne de­ducevano che il Piemonte regio, dichiarando inevitabile senza quelle la rivoluzione, intendeva assumersi di capitanarla. Nè forse avrebbero così deliberatamente dimenticato la storia antica e recente dei governi monarchici; ma tra il governo sardo e sè stessi vedevano una moltitudine d'uomini, taluni venerandi davvero per un passato di sagrifici e d'opere generose, tutti ardenti vociferatori di patria, che stava mallevadrice per le intenzioni del governo emancipatore. Era sorta, traendo gli auspicii da alcune parole di un esule meritamente caro all'Italia, Daniele Manin, una Società che assumeva il titolo di Nazionale, composta in parte, come tutte le Società che si formano su terre oppresse, d'uomini buoni, ma fatta dai capi stromento della propaganda più funesta e immorale che mai si fosse. Aiutata moralmente dal prestigio della sede in Torino, aiutata più praticamente nella trasmissione delle sue stampe dalle agenzie politiche e consolari del Piemonte, abusò a illudere, ad affascinare le menti, della parola segreta e pubblica, come mal può idearsi. I suoi faccendieri promettevano su tutti i punti d'Italia, unità di patria, indipendenza da tutti stranieri, libertà: affermavano tali essere le intenzioni di Cavour e quelle del re: si rivelerebbero a tempo. A chi chiedeva qual fosse l'opinione dei vecchi amici d'Italia, di noi, rispondevano esser noi perfettamente intesi e concordi con essi: il dì dopo, ci calunniavano nei loro gazzettini, e il dì dopo sussurravano ai poveri illusi, nelle città venete segnatamente, che l'oltraggio era artificio, richiesto dai sospetti dei governi stranieri a mascherare l'accordo. A chi temeva non bastassero le forze all'impresa dicevano: abbiamo la Francia con noi; a chi si mostrava diffidente degli aiuti d'un despota dicevano; siate forti; concentratevi tutti intorno al trono del re galantuomo e potremo probabilmente fare da noi. E magnificavano al solito depositi d'armi che non esistevano, somme da versarsi nel sud, aiuti presti per le non bramate insurrezioni del Centro; tutto, purchè il Partito, allontanandosi da ogni altra direzione, facesse sommissione universale, assoluta alla monarchia di Piemonte. E dai più, fu fatta. Lo spettro del 1848 si dileguava davanti al fascino d'una lotta imminente.

Intanto, i nostri fati si maturavano in Parigi e Plombières, tra Luigi Napoleone e Cavour.

Luigi Napoleone ha fisso in mente l'impianto del sistema bonapartista sul continente d'Europa, siccome fine, la guerra coll'Inghilterra come necessità del disegno, una nuova Santa Alleanza tra l'impero, la Russia e l'Austria, siccome mezzo. Col terrore dell'alleanza inglese, colla guerra di Crimea e colla subita pace, egli aveva o credeva avere conquistato la Russia: con simili modi egli architettava di conquistare l'alleanza dell'Austria. D'altra parte, il prestigio esercitato dalla ferocia scemava rapidamente: i ripetuti attentati degli Italiani gli minacciavano la vita e minavano ad ogni modo nelle moltitudini l'idea della stabilità dell'Impero: l'agitazione perenne in Italia gli facea presentire inevitabile una insurrezione, che fatta in nome del popolo e della libertà, avrebbe potuto diventare Europea. E l'esercito, sola forza che gli avanzava, cominciava a lagnarsi di speranze deluse, di promesse inadempite, e ad aprir le file alle inspirazioni orleaniste e repubblicane. A tenersi vincolato l'esercito, a sviare le menti francesi da pensieri di libertà, a far rinascere il prestigio caduto, a costringere a patti l'Austria ritrosa, unica via era una guerra. E una guerra sulle nostre terre era guerra che accarezzava coi ricordi delle guerre passate la fantasia del soldato, preveniva e spegneva — ei lo credeva almeno — l'agitazione rivoluzionaria italiana, poneva fine ai pericoli individuali che lo tenevano irrequieto, impiantava per mezzo della monarchia di Piemonte il predominio francese sull'Italia e sul Mediterraneo, e schiudeva, nel mezzogiorno e nel centro della Penisola, un campo alla probabilità d'un impianto dinastico. La guerra fu statuita.

Ma le condizioni furono, quali furono, sono e sempre saranno — e gli allievi bastardi di Machiavelli dovrebbero ricordare le linee, che paiono scritte per questi giorni, del Principe — ogniqualvolta un piccolo Stato mendica l'alleanza d'uno stato potente: esigenze da un lato, concessioni dall'altro. Fu statuito che la guerra sarebbe condotta in modo da combattere l'Austria e la Rivoluzione ad un tempo: statuito che la Lombardia, conquistata al Piemonte, sarebbe dalla monarchia pagata colla cessione della Savoia e Nizza; statuito il matrimonio della figlia del re col principe Napoleone Bonaparte e che s'aiuterebbe l'impianto d'un regno toscano a pro di quest'ultimo: statuito che non si promoverebbero moti nel regno, se Murat non v'avesse probabilità di riescita: statuito che, se dopo la prima vittoria degli alleati, l'Austria riproponesse i patti che l'Hümmellauer affacciava nel 1848, verrebbero accettati e il Veneto s'abbandonerebbe a' suoi fati.

Parecchi di quei patti furono annullati dall'attitudine delle popo­lazioni italiane e da quella che assunsero parecchi fra i governi Europei; ma tutti furono allora accettati, non so se con animo di mantenerli, dal Ministro Cavour. Tendo a credere ch'egli accettasse, ingannando e fidando nell'avvenire, per le occasioni di romperli. Ma l'inganno, ridotto maestramente a sistema, è scienza di Stato in Luigi Napoleone, e presumere d'ingannare l'ingannatore potente era tanto stolto, quanto immorale concetto, e preparava inevitabilmente rovina.

Intanto — e pel caso in cui l'Austria si ostinasse di linea in linea nella contesa, e la Germania comunque non provocata, dacchè s'era stipulato che non si farebbero operazioni in Tirolo, nè sui punti protetti dai così detti diritti germanici, scendesse a parteciparvi — altri accordi si maneggiavano da Luigi Napoleone. Tentate inutilmente l'Inghilterra e la Prussia, tutta l'attività de' suoi raggiri s'era rivolta allo Tsar: principale agente fra gli altri il La Roncière. E fu, con maggiore avvedutezza da parte dello Tsar, il quale non si vincolò mai così formalmente, da non potere, pel menomo incidente, retro­cedere, statuito: che in caso di guerra ostinata e aiutata dalla Germania, la contesa allargandosi di necessità ad altri popoli, susciterebbero all'Austria nemici interni; s'utilizzerebbe il nome potente di Kossuth, si promoverebbe l'insurrezione Ungherese, e un esercito russo assalirebbe Germania ed Austria. Lo Tsar aveva stipulato per sè: che qualunque estensione prendesse la guerra, non si direbbe, nè si farebbe mai cosa alcuna che potesse risuscitar la Polonia; e la richiesta era stata, mentre appunto il principe Napoleone Bonaparte cospirava, promettendo libertà, coi principali tra gli esuli polacchi a Parigi, accettata senz'ombra di discussione: — che i patti introdotti nella pace di Crimea, a limitare la potenza russa nel mar Nero, sarebbero rescissi; e s'era, dopo discussione, accettato: — finalmente che l'Ungheria avrebbe scelto a re moderatore della sua indipendenza, il principe Costantino; e l'esosa condizione fu accettata, non solamente da Luigi Napoleone, ma — mi duole il dirlo — da parecchi fra gli agitatori ungaresi, forse con reticenze mentali pari a quelle del conte Cavour ed egualmente funeste.

E un terzo caso s'era preveduto da Luigi Napoleone: il caso in cui l'Inghilterra congiungesse le sue forze a quelle della Germania. A quel guanto di guerra dovea rispondere la conflagrazione e lo smembramento dell'impero d'Oriente. Quindi i preparativi d'un moto in Serbia, in Bosnia, nel Montenegro, maneggiati da emissari attivissimi russo-bonapartisti, facili a scernersi, anche da chi meno informato di noi abbia osservato attento l'insolito affaccendarsi, verso quel tempo, in viaggi da Parigi a Belgrado e Costantinopoli d'esuli e non esuli che apparvero poi pubblicamente frammisti alle crisi della collisione.

Sotto auspicii siffatti s'aprì la guerra.

Noi per vie, ch'or non possiamo svelare, ma che non lasciavano campo a dubbiezze, avevamo comunicazione minuta, avverata poi, d'ogni cosa.

Fra questi pericoli, fra i disegni russo-bonapartisti tendenti a imperializzare — era una delle voci che suonavano sacramentali in Parigi — l'Europa e il disviarsi dei più influenti fra gli uomini del Partito dietro all'ingannevole forma, che insegnava doversi sostituire la questione di territorio a quella di libertà; fra l'imminenza d'eventi maturati da imperatori e re, che nessuno poteva impedire, e la quasi universale inesplicabile credulità che s'ostinava a travedere negli imperatori e nei re i candidi, subiti verificatori del concetto delle aspirazioni dei popoli; quale doveva essere la parte degli uomini di fede repubblicana?

Taluni fra i nostri, forse più severi adoratori dell'ideale, ma di certo meno caldi di amore pel paese, anche traviato, che noi non siamo, avrebbero voluto che serbandoci puri d'ogni concessione all'errore e gittato anatema a ogni cosa che non fosse repubblica, ci fossimo ritratti, ravvolti nel manto della nostra fede, come Trasea Peto escì dal Senato, dall'arena dei fatti, isolandoci e aspettando giustizia dal tardo avvenire.

Era partito onesto ed anche generoso, ma per uomini contemplatori o disperati d'ogni salute possibile per la patria e stretti da una ineluttabile necessità a incarnarla incontaminata nel proprio individuo — e Trasea Peto era fra questi ultimi. Noi non eravamo contemplatori e paghi a vivere, piccola chiesa proscritta, segregati dal culto dell'avvenire o del sacro pensiero: c'intitolavamo uomini del Partito d'Azione, frammisti per tendenza suprema dell'animo e per istituto giurato alle congiure, alle lotte, alle sante ribellioni del nostro paese, rivolti d'antico a modificare il presente, più assai curanti del menomo palpito della nostra terra, che non di ciò che il presente o l'avvenire diranno di noi. E noi, comunque profondamente dolenti e attoniti del vedere rifarsi da capo una illusione che tutti avevano dichiarata spenta per sempre, e vergognosi del prostituirsi dell'Italia all'alleanza col Male, non disperavamo; né oggi pur disperiamo. Vive nei popoli, e segnatamente nel nostro popolo, una potenza vitale fatta per risuscitare le cose morte, che un menomo fatto, un detto generoso, una subita ispirazione scoccata, come corrente elettrica da contatto di nubi, dall'attrito degli eventi, possono richiamare in azione. E chi può aver davanti la madre agonizzante e disperare di richiamarne la sana vita e ritrarsi dicendo: è finita, scagli la pietra su noi. A noi non era possibile abbandonar la speranza, né quindi l'azione. Or, volendo frammetterci all'azione, ci bisognava subirne, rassegnati, le necessità, le condizioni indipendeti da noi.

Il paese era affascinato, travolto. I migliori nostri disertavano le file per cacciarsi là dove appariva imminenza d'opere. Insistere irremovibili sul nostro simbolo, frammettere in pochi alle grida riecheggiate dal 1848 il grido repubblicano, era un'indebolire la parte altrui, senza far forte la nostra, era un farci suscitatori di risse civili, tristi sempre, pessime quando s'iniziano senza speranza di procacciar trionfo a un grande principio. E d'altra parte, fra quel viluppo d'errori, d'illusioni, di deviazioni più o meno colpevoli, splendeva pur sempre, una norma che i repubblicani non possono, senza privar la loro fede di base, porre in obblio, l'idea della Sovranità Nazionale, da mutarsi coll'opera lenta e pacifica dell'apostolato, ma da non contradirsi violentemente con fatti; l'immensa maggioranza della nazione si mostrava innegabilmente disposta a concentrarsi intorno alla bandiera della monarchia di Savoia, a unificarsi sotto la formola regia. Non era fede; non era affetto; non era convinzione di mente: era speranza, adorazione d'un fantasma di Forza: lo sapevamo. Pur la tendenza era tale; e quando una tendenza è fatta universale nel popolo, i repubblicani possono intravvedere la delusione che ne uscirà, e devono, colla teorica, tranquilla predicazione cercare dì modificarla; ma intanto corre obbligo più ad essi che ad altri d'insegnare il rispetto al dogma della sovranità popolare e di sottomettervisi. Principii e necessità di fatto ci segnavano dunque ad un tempo la via da seguirsi; ed era: protestare continuamente prima contro il disegno, poi contro il fatto dell'alleanza col dispotismo, come contro quella che violava la moralità del paese e contradiceva inevitabilmente al fine da raggiungersi nell'impresa: — sagrificare a tempo, non la fede, ma la predicazione della fede repubblicana e seguire sull'arena il paese anche guidato da bandiera regia, purché non fosse imposta dalla forza e procedesse sorretta da mani italiane e conducesse lealmente, direttamente all'Unità Nazionale, senza la quale non può esistere Italia: — offrire a base comune d'accordo la Sovranità del Paese: — acquistare così diritto di proporre i modi più idonei per farci Nazione di liberi: — dire sempre al popolo, quand'anche fraintesi, i patti che potevano serbargli aperto l'adito al meglio nell'avvenire: — dire alla monarchia, quand'anche convinti che non vorrebbe e non potrebbe darci ascolto, i modi coi quali bisognava farsi unificatrice: — lottare insieme ai nostri fratelli per la libertà e per l'unità del paese e serbarci capaci, senza violazione di promesse, di lottare per altro, quando la delusione antiveduta da noi, compirebbe l'opera che a noi, nel generale turbamento degli animi, non era dato compire.

Via siffatta scegliemmo e la calcammo, al solito, leali, pazienti e senza lasciarci sviare da biasimo, tristi sospetti o persecuzioni. Se tutti l'avessero calcata con noi, l'Italia non sarebbe ora ridotta ad aspettare servilmente tremante ( ) da una congrega di potenti stranieri, avversi i più, la decisione dei propri fati.

Lasciando da banda ogni questione di repubblica e monarchia, parte della Società, così detta Nazionale, e di quanti pur credendo il re necessario all'Italia amassero nondimeno l'Italia sovra ogni altra cosa e volessero assicurarne i fati e tutelarne la dignità e assicurare ad un tempo vittoria e indipendenza dall'alleato al re, era quella di far sì che il popolo iniziasse la lotta, quando la guerra era inevitabile, e re e imperatore erano presti a scender sul campo e vincolati a farlo e nella impossibilità di retrocedere. L'iniziativa popolare promossa da essi e aiutata immediatamente dalle forze regolari non minacciava in alcun modo il loro concetto monarchico, ma tutelava l'onore e la libertà del paese, disfaceva probabilmente le forze e senz'altro i calcoli militari dell'Austria, impediva prestandogli una potenza incalcolabile, che il re comparisse davanti al più forte alleato in sembianza di vassallo, rendeva impossibile la pace di Villafranca, italianizzava col fermento universalmente diffuso il moto, e dava quasi di certo base o riserva, a seconda dei casi, alla guerra nel Sud.

Fin dal 1856, quando il fervore dell'agitazione monarchica era già potentemente diffuso e vaticinava inevitabile la lotta, noi smettendo ogni propaganda repubblicana, ci collocammo su quel terreno. Proponemmo un accordo comune intorno alla Bandiera Nazionale: proponemmo che tutti, repubblicani e monarchici, s'adoprassero, senza intolleranza, senza esclusivismo di parte, ad agevolare, a promuovere l'insurrezione del paese: proponemmo che monarca e popolo congiungessero fraternamente pel bene d'Italia le forze loro; che il re consentisse a non imporsi come padrone su schiavi, ma facesse il debito suo e fidasse nella riconoscenza del popolo; che il popolo libero d'acclamare chi gli piacesse, cercasse intanto nelle proprie forze salute e non la facesse dipendere da un individuo. E mentre quelle proposte escivano pubbliche sull'Italia e Popolo in Genova e altrove, le facevamo privatamente ai capi di parte monarchica. “Vi manca l'opportunità? sussurate ai vostri che non ci attraversino le vie; e la creeremo per voi, pel vostro esercito, dove vorrete: temete la nostra bandiera? noi non leveremo se non una bandiera nazionale, e, sebbene traditi una volta da voi, torneremo ad aspettare riverenti che le volontà della Nazione si manifestino” ( ) .

Queste cose dicevamo, sperando che l'iniziativa popolare, sviluppando forze tali da bastare per l'impresa al Piemonte, ci avrebbe almeno salvati dal disonore e dal pericolo, grave oltre ogni altro, della lega col Bonaparte.

Ma invano. Da taluno fra gli uomini che allora reggevano ebbimo incerte, mal definite speranze d'accordo, che non miravano ad altro se non a renderci inerti e sfumarono quando da noi si scese sul terreno pratico. Dai capi agitatori ci venne recisamente risposto: noi respingiamo la bandiera neutra, giudicando la conciliazione impossibile. (Dichiarazione di Giorgio Pallavicino, 15 ott. 1856). I primi avevano già pattuito col despota; i secondi erano inebbriati dal tristo prestigio che le loro promesse cominciavano a esercitar sull'Italia. Volevano allettare, ed all'uopo, dicevano, anche sforzare il monarca; (Dich. cit.) e non intendevano che una insurrezione di popolo allettava e sforzava ad un tempo, ma vincolando a non arrestarsi a mezzo la via.

E allora cominciava per noi la parte tristissima di Cassandra; quella serie di rivelazioni e d'ammonimenti dati, per la seconda volta, agli illusi, e che dovevano più dopo verificarsi appuntino.

Noi dicevamo agli agitatori — e non increscano a chi legge le citazioni: a noi importa registrare previsioni che provano la logica del partito, e documentano la tradizione della sua condotta —:

“Da un re sforzato voi avreste, presto o tardi, il 15 maggio. Da un a re alleato avrete promesse splendide in sulle prime; poi, per forza di cose, titubanza come di chi procede, non per impulso proprio, ma per altrui — scelta di capi avversi o ineguali all'impresa — limitazione dei disegni di guerra fin dove imporrebbero le monarchie sperate amiche o non nemiche — sospetto d'ogni elemento non interamente dipendente dall'ispirazione monarchica — rifiuto di tutti gli aiuti che tendono a dar coll'azione coscienza al popolo della propria forza e dei proprii diritti — prostrazione d'ogni entusiasmo nelle moltitudini che sole assicurano vittoria ad ogni guerra nazionale — isolamento dell'elemento regolare — indietreg giamento e tendenza ad accogliere patti disonorevoli e contrarii al primo programma — malcontento del popolo rieccitato — inganni a sopirlo ……

“La parola Unità è bandita, nei conciliaboli governativi, come sovvertitrice dell'ordine europeo, derisa come utopia d'uomini insani e pericolosi. Avversarla, è patto giurato di gabinetto, a prezzo d'una promessa di protezione straniera ……

“Però, i vostri che non osano, né sanno, né possono combattere senza quell'aiuto, rifiutano …… l'una Italia.... Essi, da alcuni individui in fuori, parlano d'Alta Italia, non d'altro. E quel regno sognato non abbraccia neppure tutto il Lombardo-Veneto.... ( ) .”

Ma il linguaggio del vero tornava increscioso ai maneggiatori: com'essi si davano ciecamente, servilmente, a Cavour, al re, alla lega col Bonaparte, a ogni cosa che fosse regia o imperiale, avevano bisogno ch'altri si desse ciecamente ad essi.

Bisognava loro silenzio d'ogni libera voce. Quindi l'idea della dittatura e della sospensione d'ogni potere che rappresentasse legalmente il paese: idea ridicola in sé dove ogni uomo plaudiva ai disegni di guerra e inneggiava al re, ma prestabilita a Plombières e architettata a toglierci ogni via d'aprir gli occhi al popolo degli illusi. E quell'idea che si verificò nell'aprile 1859 era stata, fin dal 15 dicembre 1858, annunziata da noi: “Non assemblea dunque, non Circoli, non associazione né stampa, né alcuno di quelli eccitamenti collettivi che illuminando, spronando, affratellando il popolo gli danno coscienza di sé, della propria vita, della propria potenza, dei proprii fati ….. Muto, fra un popolo muto, non invigilato, non consigliato, padrone assoluto, co' suoi battaglioni disciplinati, il dittatore moverà irresponsabile all'esecuzione di disegni celati, per vie scelte esclusivamente da lui, con mezzi versati a' suoi piedi dalla nazione, che consunti una volta, mal si rifanno. Se lo Statuto e il Parlamento gli parranno frammettere inciampi o indugi all'impresa, ei sciorrà il Parlamento e sospenderà l'azione dello Statuto ( ) .”

E mentre s'architettavano modi perchè tutti forzatamente tacessero, la chiamata ai volontari di tutte provincie d'Italia provvedeva a impedire le insurrezioni, che avrebbero potuto dare iniziativa al popolo e scompigliare i disegni dei liberatori. Quei giovani che, con impeto da parte loro sublime, sfidarono ogni rischio per rispondere alla chiamata, mal potevano, da poche migliaia infuori, essere ordinati e ammaestrati militarmente in tempo sì breve da poter riescire elemento importante nella guerra imminente; ma sottraevano all'elemento popolare delle città i capi naturali dell'insurrezione, e si toglievano alla sfera nella quale avrebbero potuto, prendendo norma dai casi. operare liberamente per accentrarsi in un sol punto e aggiogarsi sotto disciplina dittatoriale. Notammo allora il pericolo. Ma la nostra stampa, trattata dal governo sardo e dal francese peggio assai della stampa austriaca e confiscata per ogni dove, non giungeva ai giovani. Intanto anche ai più noti da parte nostra in Piemonte e nella Liguria s'affacciavano, accompagnate da larghe promesse di guerra Italiana, d'Indipendenza da tutti stranieri e d'Unità Nazionale, proposte ch'essi, trascinati da una voce idoleggiata e dal desiderio di fare, accettavano.

Ad essi, noi dicevamo, senza speranza e per debito di coscienza: “Le proposte non hanno se non uno scopo: neutralizzare, rendere inerte l'elemento rivoluzionario; sviarlo dal profittare, come dovrebbe, dell'attuale fermento per impadronirsene:..., mettersi in grado di poter dire al paese: vedete che anch'essi sono con noi: e comprometterne la condotta futura: poi passare quelli elementi a rassegna, agglomerarli, perchè non sostituiscano altrettanti nuclei d'agitazione nazionale iniziata che sia la guerra, dirigerli, tenerli sotto la mano.... Davvero gl'incauti che accettano corrivi quelle proposte, mostrano d'amare, consapevoli o no, più che l'Italia, la guerra.... Non ci daremo alla cieca, voi dite: io v'affermo che vi darete alla cieca. Voi vi date ad una guerra nella quale la monarchia piemontese è esecutrice; l'impero di Francia ha l'ispirazione, il disegno. E vi date ad una guerra, che sarà governata dispoticamente, senza intervento possibile d'opinione vostra o del popolo. Non udite i profondi politici della guerra Franco-Russo-Sarda annunziarvi che il primo passo da moversi verso l'impresa è la dittatura? Non li udite, dimentichi che senza l'indipendenza dell'anima ch'è la libertà, l'indipendenza della nazione è un vuoto nome, a dichiararvi che, la sollevazione Italiana non implicando alcuna que stione di libertà..,.. Luigi Napoleone non può impaurirsene? Voi non avrete stampa, né associazioni, né libertà di parola pubblica, né voto: lo avete dato, vi diranno, sui muti registri del 1848. Avrete capi devoti all'ispirazione imperiale-monarchica per vegliarvi e ferrea disciplina per punirvi. Sarete al campo in qualche angolo di Lombardia, probabilmente tra francesi e sabaudi regii, quando la pace che tradirà Venezia sarà a insaputa vostra segnata ( ) .

E parlando a tutti e sempre insistendo perchè non si stringesse la fatale alleanza, o perchè almeno se ne scemassero coll'iniziativa popolare i pericoli, noi rivelavamo, prima della guerra, ciò che pochi mesi avverarono:

“Per l'Italia, una subita pace rovinosa, fatale agli insorti, a mezzo la guerra, un Campoformio.... Non appena Luigi Napoleone avrà conquistato l'intento,... accetterà la prima proposta dell'Austria.... costringerà il monarca sardo a desistere, concedendogli, una zona di territorio.... abbandonerà tradite le provincie venete e parte delle lombarde. ( ) .”

“Una impresa ispirata, appoggiata da Luigi Napoleone non può avere per mira un'Italia: non può estendersi al di là del rimaneggiamento d'un rimpasto territoriale, non può prefiggersi a intento fuorché l'emancipazione dall'Austria, per certi fini, d'una piccola zona di territorio. Ed essi lo sanno. Perchè mentono? Perchè ciarlano d' Italia alle popolazioni corrive a credere? Perchè sommovono colle loro agitazioni la povera Venezia, già freddamente deliberatamente abbandonata al nemico? ( ) .”

“La Monarchia sarda non s'accinge a combattere che per un limitato ingrandimento territoriale. Il matrimonio della principessa Clotilde e di Napoleone Bonaparte è il pegno dell'accettazione. Gli Austriaci non ripasseranno le Alpi. Venezia è statuita fin d'ora pegno di pace coll'Austria. L' Italia non è contemplata nella quistione ( ) .”

“Importa chiamar l'attenzione sui germi d'un dissidio preparato probabilmente ad arte tra Francia e Piemonte, da un lato per poter dire al paese insorto: non possiamo mantenere il nostro programma: la Francia s'oppone; dall'altro per poter dire: io non intendeva trascorrere fin dove la vostra ambizione vorrebbe sospingermi ( ) .“

Noi potremmo moltiplicare le citazioni; ma son queste, per gli uomini spassionati, più che sufficienti a mostrare, da un lato, quali fossero le cagioni del nostro dissenso; dall'altro, come l'aver, soli, tra biasimo e credulità universali, antiveduti esattamente i fatti che accaddero, provi l'infallibilità del principio che rappresentiamo e ci dia diritto di trovar fede — discussione severa almeno — nelle previsioni che potremmo esprimere in avvenire.

L'alleanza francese intanto diventava fatto compiuto. Le parole dall'Alpi all'Adriatico suonavano applaudite, credute sul labbro di Napoleone. La guerra iniziata con ardito concetto, tradito nell'esecuzione dall'Austria, si continuava, tra gl'inni ai magnanimi liberatori dagli alleati.

Allora, noi protestammo. Gl'Italiani lessero la nostra protesta e sanno, che fedeli al programma adottato, noi vi dichiarammo ad un tempo che la coscienza e la conoscenza certa dell'intento prefisso alla guerra ci vietavano di combattere sotto le bandiere dell'oppressore di Roma e che saremmo presti sempre a farlo, anche sotto la bandiera monarchica, ogniqualvolta quella bandiera, sorretta da mani Italiane, accennasse apertamente all'Unità della Patria. E tacemmo, spiando ansiosi il momento.

Quando, il 1 Luglio 1859, ricominciammo le nostre pubblicazioni, parte delle nostre previsioni s'era avverata, il resto stava per avverarsi. Il silenzio creato dalla Dittatura, l'emigrazione di quanti giovani avrebbero potuto dar moto all'insurrezione popolare delle città, la propaganda instancabile degli agitatori monarchici che intimavano lasciate fare, le calunnie sparse ad arte contro i pochi che dicevano fate, il rifiuto formale dato a Milano che proponeva levarsi e documentato dal primo bando d'Emilio Visconti-Venosta regio Commissario a Varese ( ) e l'istinto che cominciava, inconscio, a lasciar gli animi incerti sulle intenzioni, avevano sopito il concitamento delle moltitudini. Non combattevano; plaudivano alle vittorie dei combattenti. La guerra non era guerra di nazione ridesta ma serie di fazioni d'eserciti regolari. Il re era subalterno nel campo, i volontari erano intenti ad addestrarsi nei depositi, o accampati intorno al vietato Tirolo. Luigi Napoleone era arbitro onnipotente della guerra Italiana. Ei doveva prevalersene e se ne prevalse. Nel Pensiero ed Azione del 10 Luglio noi dicevamo che la pace al Mincio, alla quale l'armistizio allora segnato accennava, conchiuderebbe subitamente la crisi. Il 20 Luglio i nostri articoli commentavano la pace di Villafranca. Luigi Napoleone aveva raggiunto l'intento. L'alleanza dell'Austria era conquistata alla Francia Imperiale.

Sul campo della logica e delle previsioni, la vittoria era nostra: nostra innegabilmente. E nondimeno come ne usammo? La nostra prima parola fu una parola di conforto alle attonite moltitudini, una parola di conciliazione agli illusi che ci avevano versato addosso l'oltraggio. E ci si conceda un'ultima ( ) citazione. Essa rivela tutto l'animo nostro e segna agli Italiani la via d'un dovere identico anch'oggi e che noi non potremmo predicare se non con parole consimili:

“La condotta degli Italiani — noi dicemmo nel numero del 20 luglio — deve mostrare in oggi all'Europa, se l'Italia ha coscienza di vita propria o aspetta vita esclusivamente dallo straniero... Liberta' ed Unita' Nazionale : questo grido prorompa unico da tutte le manifestazioni, frema sulle labbra di quanti non accettano che l'Italia sia schiava e disonorata: ricordi dai proclami, dalle bandiere, dai muri alle milizie italiane, ai volontarii, agli uomini — e sono i più — che s'illusero di buona fede, gli obblighi assunti, lo scopo pel quale s'illusero. Che volevano essi quei che si separarono da noi e opposero alla nostra logica il fascino dell'opportunità, alla ventenne parola d'ordine del partito, la parola di Cavour? Volevano, come noi, libera ed una l'Italia: volevano la Nazione: volevano l'indipendenza da tutti stranieri. Differivano sui mezzi: convinti che l'iniziativa della monarchia avrebbe dato salute all'Italia, accettarono, molti fra loro deplorando tacitamente, l'alleanza funesta alla quale la monarchia s'aggiogava: convinti della necessità d'unire gli sforzi, rimproveravano noi perchè ci tenevamo separati, come noi convinti alla volta nostra che per quella via non poteva conquistarsi l'intento, dovevamo a rischio di tutte accuse, salvare la bandiera dell'avvenire. Oggi i casi additano a tutti noi lo stesso terreno: oggi non sopravvive speranza fuorché nel popolo. Cessino le gare! in nome dell'onore d'Italia, stringiamoci in uno. Sia maledetto fra noi chi non cancella la memoria dei rimproveri, delle accuse reciproche, nel grande principio che oggi, uniti dobbiamo e possiamo salvare il paese.”

“Dovunque sono uomini che sentono l'importanza del momento, che intendono come si decida in questi giorni della vita o della morte d'un popolo per un quarto di secolo, sorga.... la chiamata alle moltitudini perchè decretino d'infamia la pace, la vendita di Villafranca.... Dovunque l'energia delle moltitudini accenna potenza di fatti, si formoli in poche, brevi, uniformi parole il programma della Nazione: vogliamo Unità, Libertà: guerra per ambe finche guerra è possibile.... Dovunque sono, in Italia o in esilio, uomini che si sanno influenti nelle terre ove nacquero, partano e cerchino penetrarvi: ogni uomo s'affretti al suo posto. Dovunque sono Italiani che possiedono al di là del necessario alla vita, dovunque sono stranieri ai quali l'Italia è patria d'affetto, diano quel che possono, quanto possono, ad aiutare la grande impresa Italiana. Sottoscrissero per le famiglie dei contingenti: oggi la famiglia dei contingenti è l'Italia....

Al centro, al centro, mirando al Sud!....”

Con queste tendenze, con questi propositi, pieno l'animo d'affetto e di speranza, partimmo per l'Italia. Chi scrive era sui primi dell'agosto in Firenze. E in Italia erano pochi dì prima o dopo, Aurelio Saffi, Alberto Mario, Mattia Montecchi, De Boni, Quadrio, altri molti di tutte provincie. L'alleato s'era ritratto dalla guerra: gl'Italiani erano soli: era il momento per noi di sciogliere la nostra promessa, e ci affrettammo. Ci affrettammo colle parole: armi, guerra, unità nazionale, protesta Italiana, Venezia, Perugia sul labbro senza pensare a chi guiderebbe, smessa ogni idea di Partito, coll'unico desiderio che si salvasse, resistendo ai patti nefandi, l'onore. Nessuno di noi fiatò di repubblica o di guerra al re Vittorio Emanuele. Chi scrisse, anonimo, sulle gazzette di perturbazioni, di disegni repubblicani, chi fece serpeggiar quei sospetti nel popolo, mentiva impudentemente. E noi sfidiamo altamente i tristi calunniatori a recare innanzi, tra le molte lettere sequestrate a quel tempo — dacché il delitto visitato da pena infamante nei codici, s'era fatto pratica dei governucci e segnatamente in Toscana — una sola nostra linea che dia colore all'accusa. Pur troppo, noi speravamo ancora che il re, ricordevole delle promesse, della dignità, dell'onore e del sangue italiano che gli scorre nelle vene, non accettasse l'insulto gittatogli in viso dal Brenno straniero, non accettasse l'impronta di vassallaggio stampatagli in fronte dal dono insolente della Lombardia e da una dedizione di Venezia statuita senza neppur consultarlo. Alberto Mario era, colla benemerita moglie, cacciato in carcere dal Cipriani, poco dopo ch'egli aveva scritto sul nostro giornale un articolo, nel quale, ispirandosi a quella illu sione onorevole ei conchiudeva: corriamo all'armi francamente e leal mente, duce Vittorio Emanuele.

Trovammo, invece dell'accoglimento fraterno, al quale avevamo diritto, birri, spie, imprigionamenti, perquisizioni, calunnie, intimazioni di nuovo esilio: tutto un piccolo terrorismo di moderati trepidi d'un biasimo di Pietri o d'un cipiglio del padrone. Né reciterò qui quella tristissima pagina di storia contemporanea — tristissima, dico, non per le persecuzioni in sé delle quali siamo usi a sorridere, ma perchè scritta da mani italiane contro italiani — che dura anch'oggi: stia sui persecutori la vergogna dell'ingiustizia e della inefficacia. Ben dirò a complemento di questo compendio del nostro passato, come tra quella tempesta pigmea, noi rimanessimo fermi al programma e senza cedere all'ira e persistendo nella nostra abnegazione, tentassimo coi governucci l'unica via di salute che rimaneva — e rimane — alla povera Italia.

Al centro, al centro, mirando al sud! Era l'ultima linea che avevamo scritta sulla terra d'esiglio; e fu il nostro grido, il nostro Delenda ( ) Carthago in patria.

Bisognava, per amor di tattica, come di principio, di fronte al ritrarsi di Luigi Napoleone, affrettarsi a italianizzare il moto. Il paese era fremente: il Piemonte incerto, il re oltraggiato e scontento; i volontari ardenti, tumultuanti quasi per andar oltre: l'Europa scossa da un profondo senso di biasimo pel subito mutamento dell'imperatore: la Germania e la Prussia sull'armi: l'Inghilterra apertamente avversa alla supremazia che la Francia s'arrogava sul Continente: l'Austria affranta dalle disfatte. Essa non poteva innoltrarsi nuovamente prima d'essersi rifatta nelle forze e negli ordini: e Luigi Napoleone non poteva combattere le battaglie dell'Austria contro l'alleato del giorno innanzi. Tra la Cattolica e la frontiera Abruzzese, non erano allora altre forze che quella mano di Svizzeri dalla quale s'erano insanguinate le vie di Perugia. Non erano negli Abruzzi truppe raccolte; e il Regno era agitato, e la Sicilia presta ad insorgere. Bisognava varcar rapidamente, inaspettatamente il confine fittizio, riconquistare Perugia, e attraverso la certa insurrezione dell'Umbria e delle Marche, innoltrare a marce forzate sul Regno. Tra l'insurrezione delle provincie e quella di Sicilia, il Regno dove, comunque scorati, disordinati, sviati, gli elementi di mutamento abbondavano e il malcontento era universale, era nostro. Col regno avevamo soldati, vapori, materiali da guerra: eravamo potenza. Inoltre, l'energia della mossa avrebbe rivelato tale una forza di volontà nella rivoluzione incuorante i più tiepidi da convertire l'incerto desiderio in furore.

Dieci mila uomini e Garibaldi bastavano a questo. Ma era necessario operare senza chiedere assenso ad anima nata, senz'aspettare il placet del re o degli agenti bonapartisti che siedevano — e taluni siedono ancora — in Bologna. Gli agenti bonapartisti dovevano naturalmente opporsi a tutto potere. Il re non era da tanto d'ordinare la mossa; ma, se è vero ciò che i faccendieri ne dicono, avrebbe trasalito di gioia in udirla e avrebbe seguito il paese: egli e il suo esercito fronteggiavano e impedivano a ogni modo e per necessità le forze dell'Austria.

Queste cose proponemmo, mentre i governucci ci dichiaravano macchinatori di moti contro il magnanimo re, ai capi militari e ad altri. Rosolino Pilo ed altri scontarono con mesi di prigionia il delitto d'essere stati portatori, consapevoli o no, di proposte siffatte e d'aver desiderato che, senza calcolo di bandiera, si salvasse il paese. Noi, proponendo, offrivamo, a scemare i pericoli dell'impresa e i terrori dell'estero, di rimanere in disparte, di non mostrarci se non chiamati.

E il 22 agosto, da Firenze, chi scrive riproponeva il disegno ad uomini di governo, e tra gli altri al Ricasoli. Cito quella lettera, perchè fatta pubblica, non so per opera di chi, non ha molto, sui giornali inglesi, senza data e travisata nella traduzione ( ) , fu creduta da molti scritta recentemente da me, mentr'io di certo non riproporrei ora arditi concetti nazionali al Ricasoli, ineguale visibilmente alla sua missione e al forte linguaggio ch'ei talora si compiacea d'adoprare.

Ma se la giustezza e l'opportunità della proposta balzavano agli occhi e alla mente d'ognuno sicché tutti, amici o avversi, teorica mente l' accolsero, nessuno ebbe genio d'insurrezione o affetto non vincolato di patria, o ardire che intende il momento tanto da farsi iniziatore dell'esecuzione. Gli uni opponevano la disciplina, gli altri le Conferenze, altri volevano l'assenso del re; il Governo Toscano, in una nota che mi fu trasmessa, opponeva perfino, or ricordo, il malcontento probabile della Russia! Cercammo, come Diogene colla lanterna, un uomo, e non lo trovammo. L'unico, il quale avrebbe forse finito per intendere che sorgono momenti supremi nei quali un core e un braccio potenti non hanno consigli da chiedere fuorché a sé stessi, fu per arti subdole e volpine allontanato dal campo d'azione.

E corse il tempo. E d'ambage, in ambage, di fiacchezza in fiacchezza, di paura in paura, fu preferito lo svolgersi lento della tristissima ignobil commedia inflitta per questi mesi al paese da' suoi reggitori — la celebrazione solenne con illuminazioni e salve d'artiglieria d'una annessione che non esisteva — la disquisizione degna dei sofisti greci intorno all'accogliere e all' accettare — la persistenza in un regime arbitrario e tirannico non giustificato più da guerra, né da circostanze anormali — l'inganno sistematico al popolo sulla realtà delle condizioni d'Italia mercè un monopolio indecoroso di stampa — il versare danaro pubblico in monumenti agli autori del tradimento di Villafranca e in edizioni di Machiavelli, mentre si tratta d'esser liberi o servi — il disfare con apparato d'assemblee e convegni governativi un'agenzia bonapartista in Bologna per adottare il concetto bonapartista del centro transappenino e cisappenino —il reggersi in nome d'un Governo che ricusa o differisce indefinitamente e a beneplacito di stranieri il dominio — il proclamar la reggenza, poi rinunziarvi perchè non talenta a Luigi Napoleone — il ricevere — perchè non un re travicello o, imitando Carlo XII, gli stivali del re? — invece del re, invece del reggente pel re, un reggente pel reggente pel re, Boncompagni! Ah, verrà giorno in cui gli Italiani rileggendo gli indirizzi, i decreti, i memoriali fatti in nome d'un popolo per cui s'agita una questione di vita o di morte, non sapranno se arrossire, piangere o ridere di riso amaro.

E son questi gli elementi dell'oggi.

Abbiamo un popolo sviato ancora, ma buono, d'istinti forti e generosi e che comincia a rinsavire e destarsi dal sonno in cui una funesta propaganda lo travolgeva: Governi moderati, collettivamente inetti e inferiori all'impresa: taluno fra gli uomini che li compongono migliore degli altri, conscio del vero, ma titubante e trattenuto sulla via dal terrore fatale d'una agitazione popolare ch'è l'unica via di salute all'Italia: un nucleo d'esercito prode, voglioso, capace d'ogni alta cosa, al Centro, con capi buoni e devoti i più, ma mancanti di virtù iniziatrice: una monarchia tentennante per istinto e per tradizione, aggiogata pur troppo per timore non per amore, alla volontà dell'Impero, ma cupida di potenza e d'ingrandimento e compromessa davanti alle popolazioni e costretta a seguire il moto se altri lo spinga con vigore, o cadere: un dispotismo al Sud minato da un malcontento universale, ma sorretto dal terrore, da un sistema tremendo di spionaggio e di corruttela, dalla poca fiducia che i buoni s'hanno nell'energia del rimanente d'Italia e dall'inerzia codarda d'una setta di moderati guasta di municipalismo, di servilità ai governi stranieri e d'aristocrazia diffidente del popolo: l'Austria avversa e vogliosa di vendetta, ma impotente ad ogni grande operazione offensiva e minacciata ogni tratto da insurrezioni interne e fino nella sua capitale: Luigi Napoleone avverso, ma vegliato e abborrito dall'Inghilterra, dalla Prussia, dalla Germania, e nell'impossibilità d'operare contro il Sud o di combattere contro l'Italia a fianco dell'Austria senza soggiacere ai pericoli d'una guerra europea: l'Inghilterra propizia alla nostra emancipazione e al nostro diritto, ma poco disposta ad avventurarsi a gravi contese per chi non si mostri forte e deliberato: pochi raggiratori bonapartisti, pochi fautori di restaurazioni, non molti partigiani d'autonomie e circoscrizioni locali, ma potenti dell'inerzia altrui e del silenzio imposto al popolo, ch'è, nella vasta maggioranza, unitario: finalmente, un Congresso imminente, avverso nella maggioranza dei suoi membri alla nostra Unità Nazionale e alla nostra Indipendenza assoluta, vincolato dalla natura d'ogni congresso a non decidere che su fatti esistenti, chiamato quindi inevitabilmente a restringere i diritti conquistati dalle provincie emancipate e a proclamare per l'altre lo statu-quo.

In condizione siffatta di cose, non esiste per sottrarsi all'altrui oppressione o alla lenta agonia di sconforto che genera l'egoismo e la indifferenza, se non una via: è quella che da ormai otto mesi andiamo predicando:

Bisogna italianizzare il moto: allargarne la base per crescergli forza: cangiar la linea d'operazione: agir arditamente nel Centro mirando al Sud.

Agire, osando, prima del finir del Congresso per costituire il fatto Nazionale davanti ad esso ed evitare un accordo de' suoi membri, inevitabile davanti all'inerzia comune: agire, se prima non è possibile, immediatamente dopo; vincolarsi e prepararsi a resistere alle sue decisioni avverse; protestare contr'esse coll'armi e coll'insurrezione. Manca al nostro moto un'iniziativa; bisogna ad ogni costo crearla. E quest'iniziativa dev'esser di libertà e d'Unità Nazionale. I moderati che reggono, tendono a localizzare il moto perchè, dicono, siamo deboli. Bisogna dunque estendere il moto per essere forti.

Sopprimendo la libertà, i moderati che reggono, non tolgono una sola arme al nemico; spengono nel silenzio e nell'isolamento l'entusiasmo d'un popolo, che sente con noi e ch'è la sola, vera forza sulla quale possiamo far calcolo. Bisogna rieccitare colla stampa e colle associazioni quell'entusiasmo sopito, e far della libertà mezzo all'indipendenza.

Bisogna, rinfervorando di virtù iniziatrice gli animi intormentiti e il semi-spento moto d'Italia — affermando arditamente il Diritto Italiano — dando con fatti all'Italia e all'Europa manifestazione di ciò che vogliamo e prova che siam decisi a combattere sino agli estremi per ottenerlo — dar core ai tiepidi, azione all'esercito, nuovo impulso di speranze e di fede alla gioventù, appoggio all'insurrezione delle terre romane, oggi serve, opportunità di sorgere al Sud, motivo, necessità anzi, d'agir nuovamente al Piemonte, certezza di forza in noi a quei tra Governi Europei che diffidano di Luigi Napoleone e intendono afferrare ogni pretesto per limitarne l'azione, animo ai popoli che fermentano sotto il giogo dell'Austria.

Predicare, far prevalere queste norme è lo scopo che ci prefiggiamo. Né più, nè meno.

Noi non veniamo ora a porre in campo questioni di forme governative, di monarchia o di repubblica, d'antagonismo o di devozione a Vittorio Emanuele. Franchi e leali, come sempre fummo, il giorno in cui crederemo debito nostro di lavorare esclusivamente al trionfo immediato dell'idea che addittammo, or sono quasi trent'anni, come sola via di salute all'Italia, faremo come gli Italiani in Sicilia nel 1848; lo dichiareremo anzi tratto. Fino a quel giorno, qualunque parlerà, accennando a noi, di complotti, di disegni immediati, d'emissari repubblicani, sarà, deliberatamente o no, mentitore.

Noi veniamo a dire all'Italia che il suo moto iniziato con un concetto d'unità nazionale, more tradito, localizzato, dato, — con intenzione o no poco monta — per sommissione abitualmente servile ai raggiri, ai disegni ostili del dispotismo straniero. Veniamo a dirle che i capi attuali del moto, mancano d'iniziativa, che bisogna o trovar modo d'infonderla in essi con una imponente, universale manifestazione nell'opinione popolare o mutarli; che si tratta di salute e d'onore per la patria comune; che abbiamo noi tutti diritto e debito d'occuparcene; e che bisogna unirci tutti in un lavoro attivo e ordinato, perchè il moto torni rapidamente al primo concetto — Italia, libertà, unità nazionale. Veniamo a dirle ch'essa non deve riporre speranza alcuna nel futuro Congresso; che i fati della Romagna e della Toscana sono già irrevocabilmente determinati nella mente di Luigi Napoleone, in modo contrario ai desiderii delle popolazioni; e che bisogna quindi prepararsi a resistere. Veniamo a dirle che, anche serbata l'emancipazione d'alcune provincie è nulla se non guida all'emancipazione di tutto quanto il paese; che l'indipendenza è menzogna se non è da tutti stranieri; che la libertà è suo diritto e che essa deve conquistarsela e tutelarla con armi proprie. Veniamo a dire che parola d'ordine d'ogni italiano deve essere in oggi, non Bologna, Firenze o Milano, ma Perugia, Napoli, Palermo, Roma, Venezia.

Combatteremo senza tregua, rivelandone siccome traditori del paese i fautori, ogni progetto d'impianto in Italia di principato straniero. Combatteremo, come piaga mortale d'Italia, l'esistenza dell'autocrazia papale.

Combatteremo ogni disegno di nuovi riparti, di nuovi smembramenti e d'autonomie locali da qualunque parte traggano origine. Promuoveremo, da qualunque parte muova, ogni virile proposta, ogni concetto che guidi a unità, all'estensione, all'italianizzamento del moto.

E quanto a Vittorio Emanuele, noi non gli siamo nemici, né servi. L'immedesimare anzi tratto il suo nome coll'unità nazionale, è un rinnegare la coscienza e la potenza della nazione; il rifiutarlo anzi tratto, sarebbe ingiustizia e follia. Ogniqualvolta ei compia il debito suo d'italiano, faremo con lui: cercheremo, s'ei lo trascuri, far senza lui; e far contro lui s'egli mai lo tradisse ponendosi apertamente ostile all'intento.

Verso lui, verso gli uomini che lo prefiggono a bandiera esclusiva del moto, tentammo ogni via, ogni concessione possibile, perchè dall'accordo escisse più secura e sollecita l'unità del paese. Oggi liberi, indipendenti, sciolti da ogni obbligo morale, fuorché verso il paese, trarremo, né sistematicamente ostili, né ciechi, le ispirazioni della nostra condotta dalle circostanze e dalle necessità della patria italiana vivente di vita propria e suprema su tutti gli individui.

(Dal Pensiero e Azione, N. 24, 24 dicembre 1859).

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