II.

Queste cose scrivevamo sul finire del 1859. E chi può dire — e recarne la menoma prova, — che tradimmo di un'ora sola, con un solo atto, il nostro programma e le nostre promesse?

Se v'è, si levi e segni del suo nome l'accusa documentata.

Ma il calunniare sistematicamente e deliberatamente un Partito che ha creato in Italia il culto dell'Unità, suscitato la simpatia dell'Europa a pro del nostro risorgere e tinta del sangue de' suoi martiri ogni zolla del nostro terreno — il dar lode nelle conversazioni private alla nostra potenza di sagrificio e commettere a un tempo ai poveri venduti anonimi della stampa governativa di negarla e vilipenderci cospiratori a dispetto delle nostre dichiarazioni firmate — il parlare a ogni tanto della necessità suprema per noi di concordia e dar moto intanto alle arti le più nefande per escludere i nostri dal campo, dagli uffici, dal Parlamento — e l'additarci al paese dove crescemmo e all'Europa in sembianza d'agitatori incorreggibili e pericolosi, di settari intolleranti e ambiziosi, di demagoghi presti a sagrifìcare la salute della Patria al fugace trionfo d'una idea preconcetta o d'una abbietta vanità personale, quando appunto si compia per noi senza posa il più alto possibile dei sagrifici — è infamia che disonora l'Italia e dovrebbe bastare alla condanna degli uomini che non s'arretrano davanti ad essa. E il credere cieco in accuse siffatte, il ripeterle papagallescamente senza darsi briga d'appurarle e rifiutare l'esame dei fatti e respingere, senza meditarli, i consigli degli uomini che segnarono, primi, la via, è cosa indegna d'uomini che intendono a farsi liberi; abitudine servile d'armento che s'accalca dove guida, qual ch'ei siasi, il capo. Senza moralità non si fonda nazione; e se avrete in ogni modo una patria, salvo a farla grande, onorata e potente poi, voi dovrete, o Italiani, ringraziare la Provvidenza i cui disegni vogliono che una Italia sia e i fatti generosi dei forti che crebbero tra le nostre file e l'abnegazione degli uomini che oggi voi abbeverate d'ingratitudine.

Luigi Napoleone avversava — i dispacci officiali fatti pubblici e le di lui stesse dichiarazioni, ci sdebitano oggi d'ogni obbligo di provarlo — l'annessione delle liberate provincie del Centro alla monarchia Piemontese. Ei voleva l'Italia forte abbastanza per potere, un dì o l'altro, dargli aiuto ai disegni da lui maturati di supremazia sull'Europa, non tanto da potersi sottrarre alla sua prepotente influenza. Quindi il sogno, rivelato pubblicamente e con insistenza, d'una confederazione di Stati, preside il papa ch'oggi è schiavo francese. E inoltre ei vagheggiava un trono nel Centro pel cugino marito della figlia del re. Partecipe, lietamente o no poco monta, di quei disegni era, da Plombières in poi, il conte Cavour; quindi le titubanze indecorose e le misere distinzioni tra l'accogliere e l'accettare e la brutta commedia dei reggenti di reggenti, a dar, non fosse altro, tempo all' alleato di maneggiarsi e corrompere. Non fu certamente per lui che non si avverò, come pur troppo doveva avverarsi il secondo, quel primo turpe mercato. Ma né egli, né l' alleato avevano, nei loro calcoli, fatto conto dei fati Italiani preordinati da Tale ben altramente potente che non tutti i cospiratori imperiali e regi, né degli istinti ridesti del nostro popolo, né della nostra tenacissima volontà. Il popolo che s'era pur troppo lasciato sedurre agli applausi e alle diffidenze servili, quando gli fu sussurrato che mallevadrice perpetua d'indipendenza dall'Austria e suoi duchi gli sarebbe la Francia, s'esso accettasse un Bonaparte a suo capo, si ravvide e rispose ostinatamente Unità. E gli uomini di parte nostra, per amore all'Unità, necessità di chiudere la via all'usurpazione straniera e speranza che, forti una volta, gli uomini della monarchia troverebbero in sé coraggio per emanciparsi ed osare, si fecero promotori attivissimi dell'annessione. Nostri furono gli uomini ( ) che scrissero i proclami ai popolani toscani e condussero in Firenze, in Prato ed altrove le consorterie degli operai a votare: nostri i capi-popolo che in Parma e in Bologna più s'agitarono a rendere universale, prepotente la manifestazione. Era ormai impossibile ai governativi non accettare, e accettarono. Il dì dopo ci calunniavano più che mai.

E il dì dopo, comechè forte del consenso e dell'entusiasmo di dodici milioni d'Italiani liberi, Cavour era più che mai servo dell' alleato. E mentre noi insistevamo perchè s'emancipassero, mirando a Napoli, l'Umbria e le Marche, ei pensava a tradire Nizza e Savoia alla dittatura imperiale, per ottenere perdono d'avere accettato il voto delle popolazioni del Centro. Nizza e Savoia erano state promesse a patto della liberazione del Veneto, e il Veneto era schiavo dell'Austria. Il Centro s'era emancipato senza l'aiuto d'un solo soldato francese, e s'era dato spontaneo. L'Europa biasimava altamente, minacciosamente il disegno. Napoleone non poteva conquistare quel terreno per forza d'armi senza correre il rischio d'una guerra Europea. Bastava una parola generosa di resistenza gettata al Parlamento, sussurrata alle moltitudini; bastava un grido di dolore del re chiesto d'alienare le sepolture de' suoi antenati, perchè l'Europa frapponesse il suo veto. E nondimeno, il sacrifìcio fu consumato. Il conte Cavour e i 229 satelliti di Cavour nella Camera segnarono dei loro nomi lo smembramento. E l'Europa imparò che l'Italia non osava liberare una zona del proprio terreno se non a patto di sagrifìcare la libertà d'un'altra al dispotismo straniero.

Moralmente, noi ci sentivamo da quel giorno sciolti d'ogni obbligo, d'ogni riguardo verso uomini siffatti. Se non che non guardavamo ad essi, ma solamente al paese. Il paese era guasto nell'intelletto da una infermità che non poteva guarirsi in un giorno, e che scendeva dal carattere dell' iniziativa. Al paese mancava la coscienza delle proprie forze. Aveva vedute l'armi regolari imperiali e regie vincere le battaglie lombarde: s'era emancipato spontaneo nel Centro, ma senza lotta e davanti a un nemico che si ritraeva senza aspettarla: non viveva ancora di vita propria, ma dell'altrui. Bisognava trasportare in esso l'iniziativa del moto a italianizzarlo e dargli coscienza di sè. Bisognava farlo combattere e vincere. E durammo, addolorati, irritati, fedeli al programma.

Avevamo, da quando una minaccia di Luigi Napoleone al re e un divieto del re a Garibaldi, impedivano ai nostri il passaggio, preparato e consentito, della Cattolica, rivolto l'animo ad aprire in Sicilia un campo agli uomini d'Azione e iniziarvi L'emancipazione del Sud. Crispi, trattato poi ingratamente e calunniato senza pudore dai cavouriani, aveva due volte, a rischio di vita, viaggiato nell'isola, a suscitarvi gli spiriti e combattervi i separatisti. Da Malta e da altri punti il nostro contatto correva coi migliori della Sicilia frequente e riusciva efficace. Offrimmo armi, che in parte andarono — e furono le sole — prima del moto, in parte dopo con Nicola Fabrizi, uno fra i più costanti, devoti e virtuosi patrioti che conti l'Italia. Facemmo insomma quanto era in noi. E intanto, perchè nessuno potesse temere che l'indipendenza delle nostre mosse covasse disegni ostili alla bandiera acclamata in Italia, io insisteva cogli influenti della setta dominatrice, con chi allora reggeva in Torino, e, come oggi ognuno sa, col re stesso, perchè s'aiutassero i generosi che abbondavano, presti a ogni cosa, nell'isola: indarno. Unico ostacolo al moto erano i messaggi e gli uomini del faccendiere Lafarina, che ciarlava sempre, e con tutti, d'azione e sempre la impediva, abbandonando di volta in volta agli imprigionamenti e alle fughe i migliori: egli e il di lui padrone aspettavano gli ordini di Parigi. Ispiratore precipuo di forti propositi fu, in quella lotta colle promesse ingannevoli e coi codardi indugi dell'aule municipali, fu l'amico mio Rosolino Pilo, anima santa di giovinezza e di fede ammaestrata, non infiacchita, dai dolori e dall'esperienza, e il cui sorriso d'infinita dolcezza coi buoni a lui cari e d'indomito tranquillo coraggio di fronte ai pericoli, non m'escirà mai, finch'io viva, dalla memoria: uomini tali non s'incontrano che fra noi. E riuscimmo. Per la seconda volta, la generosa isola si collocò iniziatrice del moto popolare in Italia. E uomini di nostra fede furono quei che capitanarono il moto e lo mantennero con costanza mirabile tanto da dar agio a Garibaldi d'accorrere a convertirlo in vittoria.

Si levò nel moto di Sicilia, anteriormente all'arrivo di Garibaldi, una sola voce che gridasse repubblica? E chi può dire, recandone prova, che i repubblicani tradirono, per un'ora sola, con un sol atto il programma accettato?

Non è mio intento di tessere qui la storia dei fatti mirabili compiti da Garibaldi e da' suoi. La storia li trasmetterà ai posteri, siccome corona di gloria che non morrà al nome del Capo, e nuova testimonianza di ciò che possano gli uomini, quando combattono con una fede di libertà e nazione nel core. Ma quale fu, davanti a quei fatti, il contegno della setta cavouriana ed il nostro?

I governativi cominciarono dal biasimar Garibaldi e la folle impresa: s'affrettarono a lavarsi come Pilato, coi governi stranieri, d'ogni complicità nell'ardua mossa: agli Italiani predicarono inerzia. Mutarono linguaggio, e ammirarono, senza soccorrere, quando intesero di Calafatimi. Si diedero a studiare i modi d'impossessarsi del moto, quando udirono di Palermo.

Io consiglio agli avversi di non tentare la confutazione di queste mie linee. Ho un documento ufficiale tra i pubblicati in Inghilterra ed altrove, a sostegno d'ogni mia affermazione. Spargano ingiurie, com'è loro uso, ma non discutano.

Noi — e una volta per sempre questo noi, suona non me e gli amici miei solamente, ma quanti credono che debba farsi l'Italia libera ed Una con forze proprie, con battaglia di tutti a ottenere vittoria per tutti — Noi ci diemmo, senza un momento d'indugio a operare, per afforzare Garibaldi ed i nostri. Senza aiuto governativo, indirizzandoci alla carità patria degli Italiani, uomini e donne, e agli amici stranieri, raccogliemmo tanto, da mandare rapidamente armi, vapori, oltre a ventimila volontari in Sicilia. I Comitati di Provvedimento scrissero, dopo quella scritta da Garibaldi e da' suoi, la più bella pagina della Storia Italiana di questi due ultimi anni. E i più tra quei Comitati erano composti d'uomini di nostra fede, ma riverenti anzi tutto all'unità nazionale, e accettanti lealmente dalla maggioranza del paese, il programma monarchico. E uomini di nostra fede, erano i più, tra i volontari che mossero festanti a raggiungere il campo di Garibaldi. E uomo di fede nostra — ei di certo non mi smentirà — è l'individuo che fu l'anima di quel moto, che malfermo in salute, spiegò una attività erculea a pro dell'impresa, e nuovo per vocazione diversa e abitudini alle facende amministrative, trovò in sé, per miracolo d'amore al paese, facoltà ch'io desidero invano ai nostri ministri di guerra e finanza. E fu, ed è tuttavia turpemente calunniato, da chi più dovrebbe, e non saprà mai imitarlo. Parlo di Agostino Bertani.

Così operammo. Se non che credenti, non nell'emancipazione della Sicilia soltanto, ma dell'Italia tutta quant'è, non nel dover sostare a ogni passo a beneplacito della diplomazia e dell'impero di Francia, ma in quello di non arrestarci mai, finché non sia raggiunto lo scopo, pensando a rafforzare Garibaldi nell'isola, pensavamo con eguale affetto all'Umbria, alle Marche, a Venezia, a Roma, ad ogni lembo di terra italiana. Sentivamo nell'anima sorto il momento. L'iniziativa era trapassata dal campo imperiale-regio, al campo del popolo, della nazione, e non poteva mantenervisi, se non coll'azione continua. Il prestigio della vittoria, accarezzava la bandiera di Garibaldi, e doveva esso pure coll'azione continua ingigantirsi fino all'onnipotenza. L'Italia poteva fondarsi d'un getto. Bisognava, mettere il Borbone fra due assalti, avviarci per terra agli Abruzzi, mentre Garibaldi scenderebbe nelle Calabrie e liberare passando, l'Umbria e le Marche: da quelle provincie, popolarmente sommosse e dalla moltitudine dei volontarii, ai quali le difficoltà del mare, degli accentramenti e dei trasporti, contendevano il moversi, e che si sarebbero precipitati attraverso il varco aperto per terra, trarre un altro piccolo esercito che si sarebbe, nelle provincie napoletane, ingrossato: tentare di tagliare, con rapide mosse, il ritiro nel covo di Gaeta ai borbonici; e congiungendo a ogni modo le nuove forze con quelle di Garibaldi, movere, compita appena l'emancipazione del sud, sia, com'io pensava, a una doppia operazione sul Veneto, sia, come Garibaldi volgeva in mente, su Roma, dove la fuga del papa, conseguenza certa dell'accostarsi dei nostri, avrebbe tolto ogni pretesto di lotta ai francesi, e dove la manifestazione del popolo sarebbe stata così gigantesca ed unanime, da rendere impossibile ogni battaglia. Queste idee erano quelle di Garibaldi, il quale, partendo il 5 maggio per la Sicilia, avea detto in un proclama, che le Marche, l'Umbria, la Sabina, Roma dovevano insorgere, per dividere le forze nemiche; erano quelle di Bertani; erano quelle dei Comitati di Provvedimento e di quanti in Italia volevano fare, non aspettare pazientemente ch'altri facesse. Ci diemmo tutti al lavoro e raccogliemmo speditamente dieci mila volontarii e materiali da guerra e mezzi di trasporto per essi. Seimila uomini dovevano, come tutti or sanno, scendere per mare, sulle terre pontifìcie, due mila sorprendere, dalla Toscana, Perugia, due mila operare dalle Romagne sul Montefeltrino.

I particolari di questa impresa, come s'era ideata e resa più che possibile, sono da vedersi in un libro pubblicato di recente, dall'amico mio colonnello Pianciani. E a me, in questo rapido cenno, non tocca ripeterli. Basta al mio disegno ricordare la parte nostra e quella che i governativi vi fecero.

I governativi possono oscurare per breve tempo la storia, non possono cancellarla. E penso che ogni uomo di buona fede in Italia, sia oggi convinto che da noi non s'intendeva rompere menomamente il programma accettato. Le più solenni guarentigie furono date dai capi civili e militari della spedizione ideata, non solamente agli influenti di parte regia, che per amore di concordia, cercavamo d'avere con noi, alla autorità di Genova e di Toscana, al ministro dell'interno, agli aiutanti del re, ma al re stesso, col quale un dei nostri capi militari, ebbe conversazione d'un'ora ( ) ; e il re, convinto, mandò, come al tempo del progettato passaggio della Cattolica, permesso che si facesse, poi, come allora, e dopo un intervallo di due ore, mandò lettera autografa, da mostrarsi, non da lasciarsi, che ritrattava ogni cosa; trista sorte dei principi, co' quali un cattivo ministro riesce sempre onnipotente a distruggere ciò che l'onesto istinto lasciato alla propria spontaneità suggerisce di bene. La spedizione fu, pel momento dell'eseguirsi, sviata con artificii indegni d'un ministro, per opera di Farini, dal primo scopo, e da Genova si ridusse in Sardegna, poi in Sicilia: in Toscana l'amico mio Nicotera, capo dei 2000 di Castel-Pucci, uomo in cui l'onesta virtù, è pari alla singolare fortezza dell'animo, fu da Bettino Ricasoli, cospiratore sin allora con noi, costretto egli pure con modi che non si concedono, non dirò al governatore, ma al gentiluomo, a condurre i volontarii, che dovevano vendicare Perugia, in Sicilia. In verità, è duro il dovere, per amore al paese, mantenere come facemmo e facciamo l'accordo con un programma rappresentato da gente siffatta.

E in verità l'acciecamento della monarchia in Italia è, parmi, uno fra i più singolari segni dei tempi. Da un lato, tutto un popolo infanatichito d'essa, come di vincolo d'unità; dall'altro, un uomo onnipotente di meritato prestigio, repubblicano di fede, ritenuto per indubitatamente onesto e leale, inteso a conquistare palmo a palmo l'Italia al re e trascinandosi dietro, sotto la bandiera regia, il fiore dei giovani repubblicani a combattere, morire o vincere — e noi tutti, pronti al sagrificio d'ogni più cara speranza e accettanti ogni patto, purché ci si conceda di far l'unità. Non credo che la storia offrisse mai momento egualmente favorevole alla monarchia, e facilità eguale d'impiantarsi a capo d'una grande nazione, senza fatica e senza pericoli. Lasciar fare e raccogliere i frutti dell'imprese altrui; a questo si riduceva e tuttavia si riduce — dacché manca ad esso la virtù dell'iniziativa — il compito del governo regio. Ma non sapere o non osare d'agire per sé, e non volere ch'altri faccia, e sostare tremante più di prima ad ogni conquista, e diffidare d'un popolo, la cui prima libera voce è un omaggio, e ostinarsi a mendicare salute al dispotismo straniero, con ventidue milioni d'uomini intorno, e capi come Garibaldi, e vittorie di volontarii, come quelle di Palermo e del Volturno, è spettacolo miserando davvero. E se possa giovare, spento una volta il breve entusiasmo, alle sorti della monarchia, lo dirà l'avvenire.

Intanto, emancipata la Sicilia, e senza badare alla preghiera, strappata al re da Cavour, di non scendere sulle terre napoletane, Garibaldi giungeva in Palermo.

In Napoli esisteva, più per trattenere il moto, che per suscitarlo, un Comitato Cavouriano dell'ordine; e diffondeva, al solito, promesse gigantesche di danaro e d'armi pel momento opportuno, e che non si videro mai: le sole poche armi che andassero nel regno, furono nostre; raccolte dai Comitati di Provvedimento e spedite da Bertani. Se non che, convinto che gli elementi per fare, abbondavano e non avevano bisogno se non d'una direzione, io avea proposto a Giuseppe Libertini, amicissimo, di fede nostra e di pronti arditi disegni, di recarsi in Napoli e impiantarvi, affratellandosi coi migliori delle Provincie, un Comitato d'Azione: missione ch'egli, con pochissimi mezzi e in brevi giorni, compiva. Le provincie s'affratellavano nel proposito d'iniziare il moto anche prima dello scendere di Garibaldi. Il tempo solo, vinto da Garibaldi, mancò: sola la provincia del Principato Citeriore potè insorgere, e vi condusse il moto Giovanni Mattina, repubblicano chiaro per prove d'audacia virile e per patimenti durati con dignità. Ma il fermento dell'altre e l'immensa manifestazione di Napoli diedero campo a Garibaldi di giungere e vincere un governo potente di terrore il dì prima, colla sola presenza.

Quando udirono Garibaldi in Calabria, gli ispiratori di Torino che avevano fino a quel giorno mandato consigli d'indugi illimitati e prudenza, mandarono a un tratto consiglio di fare, di fare immediatamente, prima dell'arrivo di Garibaldi, tanto che il merito della vittoria non si concentrasse su lui, e un governo provvisorio d'uomini devoti a Cavour rendesse inutile la di lui dittatura. S'indirizzavano al Comitato dell'Ordine, e non potevano quindi riuscir nell'intento. La dittatura di Garibaldi fu proclamata. Il Sud, da Capua, Gaeta e Messina in fuori, era libero. Uomini nostri, di provata energia, posti dal Dittatore a capi delle provincie, spaventavano i miseri avanzi d'una reazione che non s'attentò di mostrarsi, se non quando l'elemento cavouriano, prevalendo pur troppo nel ministero, li allontanò.

Anche una volta io domando: in Napoli, nell'insurrezione di provincie capitanate dai nostri, sorse un solo grido, un solo suggerimento repubblicano? Provocò la nostra condotta un solo fondato sospetto di secondi fini, d'ostilità al governo del re?

E nondimeno, a noi, ai nostri amici, agli amici di Garibaldi, a Garibaldi stesso fu mossa dagli uomini di Cavour tale una guerra da far parere la conquista di dieci milioni d'uomini alla libertà un fatto di sciagura e terrore: guerra d'insidie e calunnie, di minaccie e di bassi raggiri, che i cittadini di Napoli, ai quali era di giorno in giorno, d'ora in ora, visibile, attesterebbero tutti, e che i lontani non potevano, non che intendere, sospettare. A udire i governativi, la dittatura emancipatrice era la rovina d'Italia. E a conchiuderla, a torre di mano il potere di continuar l'impresa all'uomo che solo aveva potere di compierla e che s'accingeva a compirla per essi, si diedero a predicare furenti, essi che non avevano accettato l'annessione delle provincie centrali se non forzati, l'annessione immediata. E a persuadere le povere aggirate popolazioni che senza quella erano perdute, il sistema adottato fu questo: creare l'anarchia per attribuirla alla Dittatura. Prima, gli uomini del ministero Conforti, dai quali Garibaldi, incredulo per generosità d'animo ad arti siffatte, e sdegnoso di piccole guerre, non seppe emanciparsi; poi il Pallavicini, più aggirato, credo, e povero d'intelletto che aggiratore, s'adoprarono, senza un pensiero ai gravi mali che potevano seguirne, intorno al triste programma. Né io tesserò quella misera, vergognosissima storia degli uomini fiacchi ed inetti sostituiti ai scelti da Garibaldi nelle provincie — dell'indifferenza deliberatamente adottata verso i primi indizi di riazione — della bassa guerra mossa a Bertani, a Crispi, alla Segreteria, a quanti uomini indipendenti afforzavano la Dittatura — della sistematica inesecuzione d'ogni ordine di Garibaldi — del nessuno aiuto prestato ai volontari che stavano sotto Capua e peggio, dei materiali da guerra, e munizioni, e viveri lasciati mancare per disegno ai nostri, tanto che il popolo imparasse a credere impossibile a Garibaldi la presa di Capua — delle ridicole sommosse pagate a tentare d'impaurirci e allontanarci da Napoli — delle opposizioni continue mosse ad arte al soldato dittatore per mettergli noia, stanchezza e sconforto nell'anima. La dimentichino gl'Italiani fino all'emancipazione di Venezia e Roma; poi, quando dovranno svolgere il problema della libertà, la ricordino per impararvi ad essere meno creduli e a meglio conoscere gli uomini che cercheranno allora travolgerli come li travolsero in quel periodo.

Quell'armi non erano da noi e non le raccogliemmo dal fango. Tacemmo, sprezzammo; non pensando che a una sola cosa, andar oltre. E vi costringemmo il governo. È fatto reso ormai innegabile dai documenti officiali pubblicati recentemente in Inghilterra ed in Francia.

Il tentativo, fatto da noi e impedito dal governo, d'invadere l'Umbria e le Marche, appoggiato come s'era sull'interna organizzazione di quelle provincie, avea lasciato, nel fermento e nell'aspettanza degli animi, un addentellato a moti futuri e prossimi. S'era detto a quei poveri tormentati: verremo; ed essi aspettavano di giorno in giorno gli aiuti promessi, e presti a prorompere. A un tratto, Garibaldi an nunziò ad amici e nemici, a diplomatici e non diplomatici, ch'ei, lasciandosi dietro Gaeta, marcerebbe, dopo brevi giorni, difilato su Roma. Ed era non solamente opera santa e debito degli Italiani armati, ma ottima operazione militare, dacché troncava le comunicazioni di Gaeta colla sua base d'operazione ch'era, come lo fu per mesi, d'ogni tentativo o raggiro di riazione, Roma.

L'annuncio — e non altro — determinò il governo all'invasione, che gli valse fama d'ardito. Non fu che il coraggio della paura. Poco importa se gli Umbri e i Marchigiani scelgano oggi d'essere ingrati; essi devono a noi la loro liberazione. Senza Garibaldi, e i suoi volontari, essi sarebbero tuttavia schiavi di Lamoricière e del papa.

Se noi — diceva il conte Cavour, dopo aver preso gli ordini del re, al barone di Talleyrand — non siamo alla Cattolica prima di Gari baldi, noi siamo perduti: la rivoluzione invade l'Italia Centrale. Noi siamo costretti ad agire. Disp. del 10 settembre 1860. Collezione officiale parigina.

Il sig. Farini ... ha esposto all'imperatore, (in Chambéry).... la posizione molto imbarazzante e pericolosa, in cui il trionfo della rivoluzione, personificata in certo modo da Garibaldi, minacciava di porre il governo di S. M. Sarda.... Garibaldi stava per proseguire liberamente il suo cammino attraverso gli Stati Romani, sollevando le popolazioni, e, varcato questo confine , diventava affatto impossibile l' impedire un attacco contro Venezia. Al gabinetto di Torino non rimaneva più che un mezzo, col quale volere scongiurare tale eventualità: ed era d'entrare nelle Marche e nell'Umbria, appena l'arrivo di Garibaldi v'avesse suscitato dei torbidi, e di ristabilirvi l'ordine, senza toccare l'autorità del papa, di dare, se bisognava, una battaglia alla rivoluzione sul ter ritorio napolitano, e di chiedere immediatamente ad un Congresso la cura di stabilire le sorti d'Italia. Circol. Thouvenel, 18 ottobre 1860. Collezione idem.

La bella impresa, che dava dieci milioni d'Italiani liberi al re, chiamata con terrore Rivoluzione, l'identificazione di Garibaldi con essa, la determinazione di dargli battaglia s'ei persistesse, la condanna di Venezia, la servile dichiarazione che un congresso di re stranieri statuirebbe intorno alle sorti d'Italia; ipocrisia, abbiezione, aristocrazia di settari spinti dalla mala fortuna d'Italia al potere, e negazione del diritto italiano, e ingratitudine nera verso l'uomo, al quale la monarchia va debitrice de' suoi trionfi, tutto quanto può idearsi d'ostile alla libertà e alla nazione, è condensato in questi dispacci che sarebbero, se nei chiamati a rappresentare il paese vivesse coscienza di dovere e di popolo, base più che sufficiente a un atto d'accusa. E rimangano, perchè i posteri arrossiscano della nostra pazienza, e cancellino la macchia colla dignità degli atti e colla santità della fede.

Io sapeva queste cose; e ricordo d'aver scritto in quei giorni a Garibaldi, ch'era in Caserta, da Napoli: se tra una settimana voi non siete in piena mossa su Venezia e su Roma, fra, venti giorni la vostra iniziativa è perduta..

E lo fu. Contro tutta la turba dei raggiratori governativi, Garibaldi avrebbe saputo resistere: cesse all'insistenza del re. A me il sagrificio generoso parrebbe inconsciamente colpevole verso la patria, se non credessi il romito di Caprera tal uomo da ridestarsi come leone dopo il riposo e compire la propria interrotta missione.

III ( )

Da questo rapido sommario dei fatti passati, sommario che i governativi potranno assalire d'ingiurie, non confutare, gli Italiani d'onesta fede e di non corrotto intelletto dedurranno:

Che mancano ai reggitori officiali del moto nazionale italiano virtù, potenza, intenzione d'iniziativa:

Che l'annessione delle provincie centrali, l'emancipazione della Sicilia e quella delle terre napolitane, furono fatti compiti dai buoni istinti del paese, dall'azione degli uomini sciolti da ogni vincolo governativo, da Garibaldi che diede ad essi unità di moto, coscienza di sé, direzione, entusiasmo; e che l'invasione emancipatrice dell'Umbria e delle Marche fa comandata al governo dall'opere nostre e dalla minaccia di Garibaldi:

Che in tutte quelle conquiste, gli uomini di fede repubblicana o educati alle virtù patrie nelle nostre file, furono parte principale dell'azione e della vittoria:

Che i repubblicani mantennero intatta, attraverso calunnie, delusioni ed ingratitudini, la data promessa di servire lealmente al voto della maggioranza della nazione e per l'unità della patria, purché la monarchia non ne diserti la sacra bandiera:

Che il sagrificio delle individualità alla concordia, parola menzognera negli avversi, fu ed è tuttavia realtà di fatto per essi:

Che tattica perenne del governo fu di sostare a ogni passo, d'inceppare ogni passo ulteriore, poi di giovarsene quand'altri, suo malgrado, lo compia:

Che oltre all'altre ragioni — diffidenza innata del popolo: aborrimento dall'armi non regolari, gelosia meschina di qualunque non soggiaccia ciecamente devoto alla loro consorteria, inferiorità intellettuale all'impresa e ispirazione più dinastica che nazionale — causa precipua di quella tattica e piaga perenne d'Italia, finché quelli uomini durino, è il loro servile ossequio alla volontà dell'antico alleato convertito in padrone. Che Roma e Venezia non saranno emancipate e la grande opera dell'unità nazionale non sarà compita, se non per iniziativa di popolo che trascini, voglia o non voglia, sulla via dell'azione il governo.

Il governo, dicono, pensa a Venezia: lasciatelo fare. Il governo conquisterà il Quadrilatero dall'Ungheria. E sognano di gigantesche cospirazioni slavo-magiare capitanate da Cavour, di spedizioni consentite dal governo sulle spiaggie illiriche, di Garibaldi mandato a sollevare le popolazioni slave del sud, a dirigere l' insurrezione ungarese e, dissolvendo l'impero, troncare fuori d'Italia il nodo della Venezia.

Cavour, non v'ha dubbio, s'ei sapesse che Garibaldi e i suoi sono alla vigilia d'operare in Italia e non avesse altro modo per impedirli, suggerirebbe l'impresa ungarese. Garibaldi e i migliori tra gli ufficiali dei volontari fuori d'Italia, lascerebbero il paese sospeso, immoto, ad aspettare norma e salute dai bollettini della Transilvania. La loro vittoria darebbe il Veneto, senza pericoli e sagrifìcii, alla monarchia; e la loro disfatta sarebbe la disfatta della rivoluzione personificata in certo modo in Garibaldi e alla quale i governativi si preparavano, nel settembre ultimo, a dar battaglia.

Ma le piaggie orientali dell'Adriatico sono popolate d'elementi in parte naturalmente indifferenti e che rimarrebbero inerti, in parte favorevoli al moto, ma diffusi a piccoli nuclei su lunga e ristretta zona e incapaci di prestare aiuto efficace a chi deve rapidamente varcarla e andar oltre. E per sollevare popolazioni più importanti è mestieri trapassar la Croazia. E le vie ferrate concentrerebbero in Agram copia di forze imperiali, prima che i nostri potessero giungervi. Una spedizione debole, come quella di Marsala, sarebbe quindi follia; una spedizione imponente non potrebbe aver luogo, senza dar agio visibile al governo per impedirla — e sarebbe impedita. La tolleranza del fatto sarebbe una dichiarazione di guerra all'Austria, che il governo non può fare senza assalire di fronte.

Poi, l'insurrezione ungarese e i nostri si troverebbero probabilmente schiacciati — se il moto veneto non sorgesse simultaneo a smembrare le forze nemiche — tra il grosso dell'esercito austriaco e un esercito russo. E lontano Garibaldi, lontani i più arditi e i più noti fra i capi dei volontarii, la tendenza naturale a interpretare la lontananza come cenno di non agire, persuaderebbe facilmente i Veneti a star fermi e attender gli eventi.

Intanto l' Italia — e segnatamente l' Italia Meridionale — rimarrebbe campo schiuso alle meditate usurpazioni bonapartiste. E l'intervento diretto degli Italiani al di là delle loro frontiere porgerebbe il pretesto.

Voi avete oggi, o Italiani, una potente base d'operazione. È l'Italia. Non vi smarrite in cerca d'un'altra. Le insurrezioni che bramate, sorgeranno al primo vostro assalto sul Veneto. L'Ungheria seguirà il vostro moto, e avrete l'Austriaco smembrato fra due nemici. L'impresa attraverso l'Adriatico poteva compirsi, quando Garibaldi era padrone del Sud e il suo esercito non era disciolto: oggi, essa non può essere che operazione secondaria. Mirate a Venezia. Là stanno i fati delle popolazioni aggiogate sotto l'impero e di quelle che s'agitano sotto il Turco.

Il governo, ripetono gli uomini che tendono ad illudervi e ad esimersi dall'azione, tratta per Roma: l'avremo a patti.

Forse; ma sapete a quali?

Io lo dirò, come vi dissi, non creduto, i patti, verificati poi, di Plombières.

Colla cessione, negata al solito da Cavour e nondimeno già stipu lata della Sardegna e coll'obbligo di cooperare attivamente ai disegni dell'imperatore francese sul Reno e al buon esito della sua politica nel l'Oriente.

Son queste le basi sulle quali stanno trattando Luigi Napoleone e Cavour.

Se mai poteste accettarle, o Italiani — se appena sòrti a vita di popolo indipendente poteste far della patria vostra sgabello alle conquiste del dispotismo — se poteste contaminare il sacro nome di Roma e la bandiera della nazione, cacciando i vostri militi a combattere, come satelliti d'un padrone straniero, i compatrioti di Vincke o a spegnere a benefizio d'un Tsarismo Franco-Russo-Europeo i germi di vita spontanea, che stanno crescendo tra le popolazioni Slave, Rumane, Elleniche della Turchia — io v'augurerei di rimaner quali siete. Meglio non aver libertà, che averla e disonorarla ( ) .

No; Roma e Venezia non vi saranno date, per modo che voi possiate accettarle senza scadere, né da Luigi Napoleone, né dal vostro governo, né da congressi europei. Voi non le avrete, se non volendole e meritandole.

Italiani, voi siete ora un popolo di ventidue milioni. Voi siete liberi e forti. I vostri giovani hanno dimostrato d'essere prodi. Il vostro esercito ha combattuto e vinte battaglie d'indipendenza. Avete mezzi di difesa e d'offesa tra l'alpi e il mare, quanti bastano a fare rispettata la volontà vostra, purché voi cominciate dal rispettare voi stessi. I popoli d'Europa salutano in voi l'iniziativa ch'altri, per propria colpa, ha perduta e guardano con favore e speranza a ogni vostro passo, indipendente da chi è meritamente sospetto a tutti, sulla via del futuro. Non v'è più concesso dimostrarvi codardi. Non potete disonorare colle fiacchezze del servo, la terra ove Garibaldi nacque e avrà sepoltura.

In nome di Roma, e pensando ai miracoli di coraggio e di sagrificio che santificarono dodici anni addietro Venezia, siate uomini: escite d'infanzia.

E infanzia è aspettare servilmente la decisione dei vostri fati dall'alto, da un re, da un ministro, da un individuo qual ch'ei si sia, come se ventidue milioni d'uomini non fossero padroni di sé stessi e non potessero trascinarsi dietro re, ministri e individui, di qualunque nome si chiamino: infanzia l'affacendarsi dietro alle parole d'ogni ambasciatore o uomo di Stato straniero, come se i fatti non vi mostrassero aperto che voi siete già a quest'ora padroni di volgere la diplomazia sulla via del giusto, come più v'aggrada: infanzia il non intendere che a far sì, che il diritto nostro sia riconosciuto, importa ne riveliate coscienza coll'associarvi, coll'esprimere ciò che volete, coll'opporvi virilmente a qualunque violazione della vostra libertà, coll'eleggere a vostri rappresentanti, non gli uomini che il governo v'addita, ma quei che la mente e il core v'additano e che sono più indipendenti da esso: infanzia lo spendere l'obolo vostro in medaglie, spade d'onore e testimonianze a chi cerca ben altro da voi e non consacrarlo unicamente alla Cassa Emancipatrice di Roma e Venezia: infanzia il non intendere che voi non potete aver Roma, se non per forza d'armi o d'opinione universalmente manifestata, e quindi il non firmare a migliaia, a centinaia di migliaia gli indirizzi al parlamento vostro e all'Europa, per l'allontanamento delle truppe francesi: infanzia, o miei fratelli di fede, l'accettare dalla volontà popolare un programma e, invece d'esaurirlo rassegnatamente e logicamente, dolervene a ogni tanto e adirarvene, e irritare per nulla gli avversi: infanzia, o moderati, il sapere che noi abbiamo potenza non foss'altro di costringervi a movere innanzi e non farlo spontaneamente e resistere: infanzia e peggio, o Italiani quanti siete, il sapere che Napoleone è avverso alla nostra unità, e per non so quale macchiavellismo adulatore tacerlo; il sapere che Cavour gli è servo, e non dirlo; il sapere che sta in vostra mano assicurarvi contro il primo e costringere il secondo a mutare o ritrarsi, e non farlo.

A voi gli adulatori per fini proprii non mancano. Io non ho che un fine: l'Italia una, libera, grande. Canuto e stanco, perduti per la morte del corpo o per la morte dell'anima tutti i miei antichi amici, e sicuro dei pochi nuovi, io non temo né spero da cosa alcuna, da persona alcuna, nel mondo. Lasciate ch'io vi dica la verità.

Voi siete oggi da meno dei vostri padri: da meno dei vostri fati: da meno di quel che sarebbe ogni altro popolo, nelle circostanze vostre, colla vostra potenza.

Voi non rivelate ancora coscienza d'uomini liberi e d'Italiani. La vostra emancipazione si compie per forza di fati e per iniziativa di pochi fra voi, non per opera unanime, collettiva, per sagrifìcio di tutti, per quel moto spontaneo, irresistibile d'entusiasmo popolare, che consacra irrevocabili le conquiste rapidamente compite. Non vive finora in voi l'unità del pensiero e dell'azione.

Voi avete lasciato compire senza protesta l'ignobile transazione di Villafranca, quando l'alleato straniero ebbe, in premio della pace subitamente concessa, la Lombardia dal padrone straniero e la trasmise con piglio feudale al re che acclamate. E uditene le conseguenze possibili nel linguaggio insolentemente minaccioso del ministro straniero, consegnato in un dispaccio non avvertito, a quanto io mi so, dalla nostra stampa e grave di sinistre intenzioni: La Francia — rispondeva Thouvenel a chi gli notava, in nome dell'Inghilterra, l'imperatore avere assunto obbligo solenne di mantenere il Piemonte in possesso della Lombardia — la Francia non ha obblighi verso l'Italia se non quelli che scendono dal trattato di Zurigo. Con quel trattato l'Austria ha ceduto la Lombardia alla Francia, e la Francia la diede al re sardo. Ma l'Austria, avendo ceduto per trattato la Lombardia alla Francia , la mala condotta del Piemonte non può invalidare gli obblighi dell'Austria verso la Francia. Se quindi le sorti della guerra ricollocassero la Lombardia in possesso temporario dell'Austria, quest'ultima dovrebbe darne conto alla Francia e lo farebbe di certo con lealtà. La Francia e l'Austria considererebbero allora il da farsi della Lom bardia, e non posso dire qual decisione verrebbe presa. Disp. Cowley a lord J. Russell. Sett-12-1860. Collezione-officiale inglese.

Voi avete lasciato compire senza protesta il turpe mercato di Nizza e Savoia, lo smembramento della vostra terra. Però, siete minacciati di perdere quandoché sia la Sardegna: e si vendevano, dì sono, fatto moralmente gravissimo, per quattro milioni di franchi, parecchie migliaia d'Italiani in Mentone e Roccabruna.

Voi avete, per dodici anni, lasciato prolungarsi senza protesta il soggiorno dei soldati stranieri in Roma. Però, i senatori dell'impero parlano oggi della vostra Metropoli, come di terra o di merce francese.

Quanto si compie nella patria vostra è anch'oggi questione di fatto che altri fatti possono mutare domani. Voi non avete ancora potentemente, universalmente affermato il Diritto Italiano.

A questa affermazione, per quanto avete di più caro e sacro, o Italiani, io vi chiamo. I trenta, i cinquanta mila volontari non potevano che darne il programma. A voi tutti, milioni d'uomini liberi, spetta farlo vostro e suggellarlo inviolabile, irrevocabile.

L'Europa non aspetta che la vostra manifestazione per accettarlo.

E questa manifestazione dev'essere triplice: Voi dovete:

Protestare ora unanimi da un capo all'altro d'Italia contro l'occupazione di Roma e chiederne il termine:

Armarvi:

Assalire l'Austria nel Veneto.

Voi aspettate Garibaldi. Ma non vi disse Garibaldi ch'egli aspettava da voi 500,000 uomini in armi nella primavera? Son essi pronti? V'adoprate a raccoglierli? Io vedo l' opera dei Comitati di Provvedimento procedere languida e meno efficace d'assai e più incerta, che non nell'anno passato. Roma e Venezia son dunque nomi meno sacri di Palermo e Napoli? Non deve accrescersi la vostra vita della vita di dieci milioni d'uomini che vi sono oggi fratelli? Mancano i mezzi, voi dite: i mezzi a ventidue milioni d'uomini? No; manca il fermo volere; manca la coscienza del supremo dovere che v'incombe compire e che dovrebbe assorbire in sé per un anno ogni altro vostro pensiero; manca — e non ne intendo sulla nostra terra il perchè — quel senso pratico che nulla dimentica, che nulla trascura, che si giova d'ogni opportunità, che ordina e concentra tutte le forze, che divide il lavoro fra gli uomini che le rappresentano, che non concede a una idea generosa di sperdersi e svaporare in parole inutili, ma la traduce silenziosamente in azione. I mezzi? Chi tra voi, o Italiani, non vuole Venezia e Roma? Date ciascuno la meschina somma d'un franco, e avrete la Cassa Emancipatrice. Date ciascuno il nome a un indirizzo per l'allontanamento delle truppe straniere da Roma e solleverete l'opinione di tutta Europa a pro vostro. Appoggiate con una gigantesca manifestazione quei tra i vostri rappresentanti, i quali chiederanno al Governo l' armamento della nazione, secondo le norme svizzere, e l'otterrete. E intanto, armatevi, addestratevi da per voi. Chi vi vieta di raccogliere tanto danaro che basti per un locale, e due o tre carabine, e istituire un tiro in ogni città, in ogni grossa borgata? Chi vi vieta, o giovani, d'organizzarvi militarmente fra voi, tanto da poter dire a Garibaldi: voi avete qui cinquanta, cento, duecento uomini pronti a seguirvi? Tre commissioni speciali, una per raccogliere firme agli indirizzi del popolo, un'altra per raccogliere il denaro d'Italia, la terza per l' ordinamento militare e l'impianto dei tiri, istituite in ciascuna città importante e che consecrassero, colla carta della provincia sott'occhio, tutta la possibile attività esclusivamente all'intento prestabilito; e pochi viaggiatori di località in località, basterebbero all'uopo. Oggi, v'è confusione di lavoro. I comitati s'assumono troppo e troppo diverse faccende. Gli elementi delle associazioni sono affastellati. Il riparto del lavoro è negletto, e una vasta somma di forze è, per questo difetto, sprecata.

Io scrivo da una terra, dove la lentezza nel decidersi a fare, è abitudine e vizio dell'intelletto, ma dove quelle norme pratiche sono viscerate in ogni uomo e la coscienza che le cose del paese possono e devono spesso maneggiarsi dal paese stesso, predonima la mente dei cittadini. E lasciate ch'io ne raccolga un esempio per voi.

Io non citerò ciò che l'Inghilterra, l'Inghilterra-popolo, non governo, fece nel 1803, quando il primo Bonaparte le intimò guerra. Non dirò i 335,000 volontarii che accorsero a offrirsi, i capi dei Comuni scesi in piazza essi medesimi col tamburo a raccoglierli, le chiese, i teatri convertiti in caserme, i vecchi diventati costabili o ufficiali di polizia, per mantenere l'ordine nelle città, e dar campo ai giovani di movere ad affrontare il nemico, i 40,000 volontari dati dalla sola città di Londra, popolata allora d'un milione soltanto. E nondimeno, la dichiarazione di guerra è per noi oggi perenne dallo straniero: Roma e Venezia stanno nelle sue mani. Ma darò ad esempio l'ordinamento spontaneo dei volontarii nel 1859. Il solo timore che l'imperatore francese meditasse una guerra da iniziarsi a tempo incerto a danno dell'Inghilterra, lo suscitò. Il governo — non temendo, perchè arrendevole ai desideri del popolo, cosa alcuna dall'armarsi del paese — dichiarò solamente essere diritto d'ogni cittadino prepararsi a respingere una invasione. Il moto escì dal paese. Riunioni pubbliche ebbero luogo su molti punti: e vi fu decretato l'armarsi. Aperta l'iscrizione pei volontarii, quei che avevano mezzi si presentarono coll'armi e l'uniforme; i privi di mezzi, ma volonterosi, diedero il nome all'ordinamento, come pronti a combattere appena le associazioni o il governo darebbero l'armi; gli altri si affaccendarono a raccogliere sottoscrizioni. Le compagnie si formarono, ed elessero generalmente i loro ufficiali. Gli istruttori s'offrirono gratuiti o furono retribuiti dalle casse comuni. Gli operai entrarono a parte del moto, non chiedendo se non di ricevere armi e uniforme da pagarsi con una serie di versamenti settimanali. Cento cinquanta mila volontarii sono oggi ordinati ed armati; e quel numero va crescendo ogni giorno.

Ordinatevi e armatevi, o Italiani; il governo, quand'esso non miri a tradirvi e non lo riveli, non può ricusarvi assenso e favore,

E armati, assalite l'Austriaco sul Veneto. Potete voi ideare una guerra liberatrice, iniziata sul Veneto e capitanata da Garibaldi, senza che il governo e l'esercito regolare siano costretti a seguirne l'impulso?

Son questi i consigli che danno ai loro fratelli di patria i repubblicani. Io ho ricordato la parte ch'essi ebbero, nel primo e nel secondo periodo del moto, quasi pegno di quello ch'essi faranno nel terzo.

Come sul cominciamento del moto, essi accettano dalla maggioranza del popolo la formola: Italia e Vittorio Emanuele; purché l'Italia sia una, e Vittorio Emanuele non si separi dalla nazione. Roma e Venezia sono oggi il se no, no della loro adesione: Roma e Venezia, non a patti immorali e disonorevoli, ma in nome e in virtù del Diritto Italiano. La cessione d'un palmo di terra italiana, il tentativo di secondare guerre usurpatrici del despotismo sul Reno o altrove, l'opposizione aperta — e diciamo generosamente aperta, perchè l'opposizione celata, esiste pur troppo fin d'ora, ma superabile dagli Italiani — agli istinti e alle necessità che chiamano gli Italiani a Venezia e a Roma, romperebbero ogni alleanza, e ci richiamerebbero alla prima nostra bandiera.

Londra, 1 marzo 1861

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