Piovoso per il periodo più freddo dell’anno. Frimaio per il più piovoso. I rivoluzionari avevano preso un abbaglio, pensò Léo.
La pioggia annegava tigli e aiuole. Dietro la colonna di Palazzo Egualità, Léo osservava avventori stringersi sotto il porticato, mentre i vialetti si mutavano in torrentelli fangosi.
Altro che abbaglio. I rivoluzionari non si erano limitati a porre etichette diverse sotto gli oggetti e i fatti di un tempo. Avevano chiamato Basso l’Alto e Uguale il Diverso. Che rivoluzione sarebbe stata, altrimenti?
Si, altro che abbaglio. Invertire molti più nomi bisognava, compresi i propri. Se fai una cosa, chiosò, falla bene. Alla Gengis Khan, alla Tamerlano, che non lasciavano dietro di sé spazio possibile a vendette. Loro l’avevano avuto, il fegato di lasciarsi alle spalle montagne di teschi, nessun nemico vivo.
Perché infatti eccoli, i muschiatini. Persi in gozzoviglie, sotto il porticato, fuori del solito ritrovo, le vesti sempre più sgargianti, arroganti, acconciature a orecchie di cane, cravatte a nascondere il mento tirate su fin sotto la bocca, bicorni amplissimi, randelli come bastoni da passeggio. Le voci suonavano alte, ghigne e accenti artefatti foravano l’atmosfera diaccia e giungevano a ferirgli le orecchie.
Brindarono alle baldracche delle madri loro, poi, infine, due gecchi si accomiatarono dal resto della ghenga.
Léo attese il rituale dei saluti. I fecciosi amavano scambiarsi strani inchini: un colpo secco del collo, il mento che si abbatte sul petto, come se la ghigliottina li avesse appena fulminati. Geniale ironia, grasse risate. I due si mossero verso l’uscita sul retro.
Léo li precedette nell’ombra, una corsa leggera, un balzo in strada, sotto l’acqua fitta. A destra tutto tranquillo, a sinistra pure. Raggiunse l’angolo del palazzo e strinse la mano sul manico del badile. Pensò al muratore a cui l’aveva sgraffignato: se avesse potuto spiegargli l’uso che intendeva farne, di certo quello glielo avrebbe prestato volentieri e gli avrebbe augurato buon lavoro e piena soddisfazione. Invece gli aveva tirato dietro solo cancheri e bestemmie.
Calò la maschera, attento che il rostro calzasse bene sul naso.
Non per un pubblico, non più.
La vecchia stagione del Nuovo Teatro era finita, chiusa a doppia mandata, epoca abbandonata alla polvere e ai fantasmi. Spettri di attori falliti, rintanati in mille cunicoli. Signori delle botole. Fantasmi in vedetta, in agguato dietro vecchie scenografie. Uomini ombra, come Scaramouche.
Fradicio ma incurante della pioggia, Léo vide uscire i due muschiatini. Solo uno era armato di randello. Lo utilizzava proprio come un bastone da passeggio, aiutando affettata–. mente, ogni qualche passo, un’andatura artefatta, sussiegosa. L’altro si riparava sotto un parapioggia all’inglese. Li lasciò sfilare, nascosto dietro un angolo, poi assestò un colpo violentissimo sulle gambe di uno dei due. Il secondo si volse, un’imprecazione sulle labbra, ma venne raggiunto da un cazzotto in piena faccia, tra naso e bocca, e si portò le mani al viso. Il parapioggia cadde e girò sul perno offerto dal puntale, la pancia verso l’alto, a raccogliere il diluvio.
Quello colpito alle gambe faticava a rialzarsi. Il suo bastone era rotolato via, distante qualche passo. Léo sferrò un calcio con la punta dello stivale sul mento. Senti il rumore dei denti che gemevano un’arcata sull’altra. Quello del parapioggia provava, intanto, a estrarre qualcosa da sotto la giacca. Una pistola, di quelle con una lama di coltello saldata sulla canna. Fa’ola mia, ebbe appena il tempo di dire prima che il manico di badile si abbattesse tra capo e collo con un tonfo smorzato. Tramortito, l’avversario scivolò a terra come un sacco vuoto.
La pistola cadde. Benché il cane fosse armato, non sparò. Polveri bagnate. Léo ringraziò il diluvio, estrasse dal tascapane una corda da barcaiolo e si girò verso l’altro, che era riuscito a mettersi in ginocchio e tendeva la mano verso il suo randello, ahilui troppo fuori portata. Léo lasciò un braccio di corda tra le mani e strinse con quella il collo del muschiatino. Fu solo allora che il bicorno, calzato a fondo sul capo, cadde a terra, dondolando sulla tesa come una barchetta sul mare agitato. Il muschiatino intanto implorava con lo sguardo, il volto ormai cianotico. Léo allentò la presa con un ghigno di disprezzo. Il merveglioso si portò le mani alla gola, tossi. Poi cadde, tramortito da una bastonata secca.
Léo guardò i suoi nemici. Respirò forte, allargando le froge come uno stallone. Niente pubblico, no, ma certo un trionfo.
Legò i corpi in modo che sedessero, le schiene appoggiate, le gambe lunghe distese sulla pavimentazione fradicia. Meditò se fosse il caso di spogliarli, ma pensò che non occorreva strafare. Era andata sin troppo bene. L’occhio gli cadde sul bastone di uno dei muschiatini, poi sulla pistola, ma ad attrarlo era il bastone. La forma della testa ricordava un volto umano. L’altra estremità sembrava quella di un osso, di una tibia. Pensò che quell’oggetto doveva essere suo. Più efficiente di un manico di badile, e il legno era stato trattato con resina, in modo che non prendesse umido e non si deformasse. Lo raccolse, lo rigirò tra le mani. La consistenza e il peso intimidivano, ma si trattava di un attrezzo estremamente maneggevole. Scaramouche aveva trovato un’arma adatta, pensò. Ironia della sorte, l’arma di elezione dei suoi avversari. Bottino di guerra.
DA UN RAPPRESENTANTE
DELL’ARMATA DEI PIRENEI ORIENTALI
AL COMITATO DI SALUTE PUBBLICA
Montpellier, 24 brumaio, anno III (14 novembre 1794)
Ho ricevuto l’altroieri una lettera, la cui prima busta era al mio indirizzo e la seconda ai rappresentanti del popolo presso l’armata dei Pirenei Orientali; l’ho aperta e ho visto che la lettera era di Simonin, riscattatore dei prigionieri di guerra francesi in Spagna.
Voi, cittadini colleghi, non potrete leggere senza la più grande indignazione i tre seguenti articoli, racchiusi nella lettera di Simonin, che vi allego in copia.
«La Spagna, – si dice, – riconoscerà il sistema o la forma di governo che la Francia ha adottato o vorrà adottare». Oh, quanta bontà!
«La Francia, metterà a disposizione della Spagna i due figli del fu Luigi XVI». È buffo vedere un nemico sconfitto usare un simile linguaggio. Spetta al solo popolo francese decidere la sorte dei due figli del Capeto. E senza dubbio, dal momento che si trova nella posizione di dettar legge ai suoi nemici, non accetterà ordini da nessuno, tantomeno da una nazione orgogliosa, vigliacca e perfida.
«La Francia, – continua, – renderà al figlio di Luigi XVI le province limitrofe alla Spagna, nelle quali egli regnerà e governerà come unico re». Ammetto che ci vuole molta flemma per leggere questo articolo mantenendo il sangue freddo. Ma come? Dacché il popolo francese si è liberato per sempre delle catene della schiavitù e ha proclamato la Repubblica, gli si propone di rendere al figlio di Capeto le province limitrofe alla Spagna? Si pensa dunque che gli abitanti di tali province, amanti gelosi della libertà, che hanno giurato di vivere liberi o morire, chinerebbero di nuovo il capo sotto il giogo di un despota?
Si può pensare che la Francia vittoriosa, le cui armate occupano il territorio nemico, consentirebbe mai che la minima parte del suo venga deturpata dalla presenza di un tiranno?
Nella vostra saggezza, voi soppeserete il partito che è meglio prendere; ma, nell’attesa, persisto nel credere che ogni corrispondenza tra uomini liberi e schiavi debba cessare, dal momento che costoro osano proporre leggi, quando invece sono fatti per subirle.
L’unica corrispondenza che vi può essere è quella del cannone e della baionetta.
Saluti e fraternità,
Vidal