14. Su Luigi Carlo Capeto, delfino di Francia.

Da più di due secoli circolano voci, leggende e teorie del complotto sull’evasione del delfino di Francia e sulla sua sostituzione con un altro ragazzino. Queste storie, nate dalla fantasia popolare, non sono suffragate da nessuna prova, a parte le solite «strane coincidenze» che si citano in certi casi. Nel corso degli anni, schiere di storici hanno cercato di rintracciare indizi e testimonianze, mentre i romanzieri si divertivano a inventare complicità, minacce, nascondigli e magie.

Negli archivi non vi è traccia di quanto avvenne al Tempio nella notte tra il 21 e il 22 gennaio 1795. Se, come qui raccontiamo, il prigioniero fu liberato in quel frangente, per ovvie ragioni le autorità termidoriane ne tennero nascosta la fuga. E forse già l’indomani, nella Torre fu rinchiuso un sostituto.

Proprio il 22 gennaio 1795 (3 piovoso, anno III) il deputato Cambacérès fa rapporto alla Convenzione su «gli individui della famiglia Capeto, attualmente in Francia». Il rapporto – «sul modo di purgare il suolo della libertà dall’unica vestigia regale che vi resta» – è stato richiesto da Lequinio meno di un mese prima.

Finora – dichiara Cambacérès dalla tribuna – la prudenza aveva messo da parte tale questione. Oggi le circostanze sembrano esigere ch’essa venga esaminata, sia per confutare speranze criminali e sventare perfide manovre, sia per fissare definitivamente l’opinione del popolo, manifestando le diverse considerazioni che possono rischiararla.
Non vi sono che due partiti da prendere riguardo a tali individui: o bisogna espellerli dal territorio della Repubblica, oppure bisogna trattenerveli in cattività.
Trattenendoli, si può temere che essi siano una fonte inesauribile di disordini e agitazioni, che la loro presenza serva da pretesto ai malintenzionati per calunniare la Convenzione e dividere il popolo. Al contrario, se questi individui venissero banditi, non significherebbe mettere nelle mani dei nostri nemici un lascito funesto, che può divenire eterno motivo d’odio, di vendetta e di guerra? Non sarebbe offrire un centro e un punto di raccordo ai vigliacchi disertori della patria?
Se l’ultimo dei re fosse riuscito nei suoi disegni, se avesse potuto portare le sue speranze e la sua famiglia in terra nemica, e se il caso o il successo delle nostre armi avessero messo nelle vostre mani il suo erede, che avreste fatto di questo rampollo di una razza impura? Lo avreste restituito? Certo che no. Un nemico è meno pericoloso in nostro potere che nelle mani di coloro che ne sostengono la causa.
Supponiamo ancora che l’erede di Capeto si trovi in mezzo ai nostri nemici: presto verreste a sapere che egli è presente ovunque le nostre armate devono combattere; e anche quando la sua esistenza sarà terminata, lo si ritroverà ovunque, e questa chimera servirà per nutrire a lungo le speranze dei Francesi traditori.
Vi è dunque poco pericolo a tenere in cattività gli individui della famiglia Capeto, mentre ce n’è molto a espellerli. L’espulsione dei tiranni ha quasi sempre preparato il loro ristabilimento, e se Roma si fosse tenuta i Tarquini, poi non avrebbe dovuto combatterli.

Cinque mesi più tardi, il 9 giugno 1795 (21 pratile, anno III), i dottori Dumangin, Pelletan, Jeanroy e Lassus firmano la seguente dichiarazione:

Arrivati tutti e quattro alle undici del mattino alle mura esterne del Tempio, siamo stati ricevuti dai commissari che ci hanno introdotto nella torre. Giunti al secondo piano, siamo entrati in un appartamento, nella seconda stanza del quale abbiamo trovato sul letto il corpo di un infante che ci è sembrato di circa dieci anni e che i commissari ci hanno detto essere quello del figlio del defunto Luigi Capeto, e che due di noi hanno riconosciuto essere l’infante al quale indirizzavano le loro cure da qualche giorno. I suddetti commissari ci hanno dichiarato che quest’infante era morto la vigilia, verso le tre del pomeriggio.

I quattro dottori procedono dunque all’autopsia, durante la quale Pelletan – stando alle sue dichiarazioni del maggio 1814 – sottrae il cuore del piccolo cadavere. Quindi concludono il documento dichiarando che

tutti i disordini dei quali abbiamo fatto dettaglio sono evidentemente l’effetto di un vizio scrofoloso, che persiste da lungo tempo, e al quale si deve attribuire la morte dell’infante.

I due medici che «riconoscono» nel corpo del defunto quello del bambino che curavano «da qualche giorno», sono Pelletan e Dumangin. Quest’ultimo aveva ricevuto l’incarico soltanto il giorno prima del decesso. Il primo, invece, si occupava del prigioniero da circa una settimana, in seguito alla morte del dottor Pierre-Joseph Desault, avvenuta il I° giugno, dopo aver curato il bambino nel mese di maggio.

Lo stesso 9 giugno, il deputato Sevestre informa la Convenzione della morte del «figlio di Capeto, incomodato da qualche tempo da un gonfiore al ginocchio destro e al gomito sinistro».

II cadavere venne inumato il 10 dello stesso mese nel cimitero di Sainte–Marguerite, dopo un rito funebre molto discreto e senza alcuna lapide o stele di riconoscimento.

Da allora, le ipotesi di un’evasione del delfino e di una sua sostituzione si moltiplicarono e acquistarono sempre più credito.

Nel 1800, la pubblicazione del romanzo II cimitero della Maddalena, di Jean-Joseph Regnault-Warin, diede ulteriore diffusione e notorietà alla leggenda. L’autore, in questo caso, attribuisce l’azione e il complotto a François-Athanase Charette de La Contrie, capo indiscusso della rivolta di Vandea.

Il grande successo del libro aprí la strada a una serie di presunti delfini, che credettero di trovare nelle sue pagine una base verosimile per i loro racconti di fuga, clandestinità e intrigo. Il primo di questa lunga lista, che comprende almeno quaranta nomi, fu Jean-Marie Hervagault, un inveterato impostore, che riusci a radunare una discreta schiera di partigiani. Condannato il 17 febbraio 1802 per truffa, furto d’identità e vagabondaggio, venne imprigionato a Soissons, poi a Bicêtre, dove mori l’8 maggio all’età di trentuno anni.

Il più celebre e riconosciuto di questi pretendenti al trono di Francia è senz’altro Karl Wilhelm Naundorff, un orologiaio prussiano. Giunto a Parigi nel 1833, mentre si teneva il processo contro un altro sedicente delfino – il duca di Richemont – Naundorff si spinse fino a denunciare Maria Teresa per essersi impadronita di alcune sue proprietà. Per questo motivo venne arrestato ed espulso e terminò la sua vita nei Paesi Bassi. L’epitaffio sulla sua tomba recita: «Qui giace Luigi XVII, re di Francia», mentre nel certificato di morte è nominato come «Carlo Luigi di Borbone, duca di Normandia». Ancora oggi, i suoi discendenti si fregiano dell’appellativo «di Borbone» e gestiscono il sito dell’Istituto Luigi XVII.

Un altro caso da segnalare è quello di Éléazar Williams, missionario cristiano presso la nazione irochese degli Oneida, nello stato di New York, nonché traduttore in lingua mohawk del Libro delle preghiere comuni della chiesa episcopale americana. Williams era riuscito a convincere gli Oneida e altri gruppi di nativi a trasferirsi in Wisconsin, dove il governo degli Stati Uniti offriva loro le terre intorno alla Green Bay. Si dice che il missionario intendesse mettersi a capo di un «impero indiano», ma dopo una decina d’anni, nel 1832, gli Oneida lo respinsero, sostenendo che non si prendeva abbastanza cura dei loro interessi, spirituali e no. Nel 1842, infine, il vescovo degli episcopali gli proibì di rappresentare quella chiesa. A quanto pare, in quell’anno Williams aveva riportato un grave incidente – un albero gli era cascato in testa – e da quel momento aveva cominciato a farneticare, sostenendo, tra le altre cose, di aver incontrato su un traghetto a vapore, proprio l’anno prima, il principe di Joinville, terzo figlio di Luigi Filippo I, il re della cosiddetta «monarchia di luglio». In quell’occasione, il principe gli avrebbe rivelato che lui, Éléazar, altri non era che il delfino di Francia, liberato dalla prigione del Tempio e affidato ai Mohawk di Kahnawake. Williams infatti era cresciuto in quel villaggio, figlio di un capo meticcio, Tehorakwaneken detto Thomas, e di una donna irochese, Mary Ann Konantewanteta. Tuttavia, a causa della sua carnagione molto chiara e dei capelli biondi, si poteva pensare che fosse un figlio adottivo della coppia, secondo l’antica consuetudine irochese. Il reverendo sostenne anche che il principe cercò di fargli firmare un foglio che attestava la sua abdicazione, in cambio di una cifra ingente. L’incontro tra i due è storicamente accertato, ma non ne esistono verbali né testimonianze dirette.

Tornato a vivere tra i Mohawk di Akwesasne, Williams si fece costruire una fattoria-castello che ancora oggi porta il nome di Lost Dauphin Cottage, così come in Wisconsin esistono una Lost Dauphin Road, un Lost Dauphin State Park e un Lost Louie’s Restaurant.

Nel 1854, John Halloway Hanson pubblicò un libro dal titolo II principe perduto, fatti tendenti a provare l'identità di Luigi XVII di Francia e del reverendo Éléazar Williams, missionario tra gli indiani del Nordamerica. È probabile che il sedicente «Looy the Seventeen», figlio di «Looy the Sixteen and Marry Antonette» che compare nelle Avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain sia ispirato alla figura e alle pretese del reverendo Williams.

Tutte queste teorie sembrano aver ricevuto il colpo di grazia all’alba del terzo millennio, quando la scienza, grazie alla prova del Dna, ha dimostrato che il cuore dell’infante morto al Tempio, e sottratto dal dottor Pelletan durante l’autopsia, ha una grande compatibilità genetica con i discendenti di Maria Antonietta.

Resta tuttavia da dimostrare che il cuore analizzato sia effettivamente quello del prigioniero morto nella Gran Torre l’8 giugno 1795.

Quel cuore, infatti, è stato protagonista di incredibili peripezie. Rubato, ritrovato, saccheggiato, inseguito, raddoppiato, passato per la Spagna e l’Italia, soltanto nel 1975 è approdato alla cripta reale della basilica di Saint-Denis, alla periferia di Parigi.

Per di più, Luigi Carlo aveva un fratello, Luigi Giuseppe, morto di tubercolosi a otto anni, nel 1789. Anche il suo cuore venne conservato in un’urna, com’era tradizione per i re di Francia. Profanato durante la rivoluzione insieme ad altre reliquie, viaggiò per Parigi come un raffreddore.

Nel 1815 Luigi XVIII, nuovo monarca di Francia, progettava di riunire i due piccoli cuori nella basilica di Saint-Denis, ma rifiutò quello «di Pelletan» e fini per farsi scappare anche quello di Luigi Giuseppe, del quale si perdono le tracce nel 1817. Nessuna scienza può dimostrare che i due cuori non siano stati scambiati l’uno per l’altro. D’altra parte, nessuna prova di compatibilità genetica è stata operata tra il cuore «di Pelletan» e le ossa trovate nel cimitero di Sainte-Marguerite, esumate ormai in tre occasioni, senza che mai se ne trovassero di compatibili con l’età del delfino (dieci anni).

Dopo due secoli di bare scoperchiate, scavi di fosse comuni, romanzi, tricoscopie, processi, esami del Dna mitocondriale, cuori imbalsamati o sotto spirito, l’enigma del Tempio sembra tutt’altro che risolto, a dispetto della cerimonia funebre con la quale, l’8 giugno 2004, il cuore «di Pelletan» è stato sistemato nella cappella dei Borboni della basilica di Saint-Denis.

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