DALLE DIECI GIORNATE DI BRESCIA ALLA BATTAGLIA DI SAN MARTINO

CONFERENZA

DI

POMPEO MOLMENTI.

[77]

No, signore e signori; questa volta i poeti non esagerano. Brescia, con meraviglioso esempio di virtù guerresca, dimostrò come non bugiardamente Vincenzo Monti l'avesse chiamata

Ricca d'onor, di ferro e di coraggio.

E, dopo un'alta e suprema prova di bresciano valore, la poesia rispondeva ancora esattamente all'austero giudizio della storia, quando l'Aleardi cantava:

Brescia dai monti fertili di spade

Niobe guerriera de le mie contrade

Lïonessa d'Italia,

e il Carducci, allora che, volgendosi alla statua della Vittoria, tra le rovine del tempio di Vespasiano, esclamava:

Lieta del fato Brescia raccolsemi,

Brescia la forte, Brescia la ferrea,

Brescia leonessa d'Italia

Beverata nel sangue nemico.

[78]

V'è infatti tanta grandezza nella lotta di Brescia contro lo straniero, breve lotta di soli dieci giorni, ma atroce, disperata, sostenuta con impavida fortezza, da poter dire, senza eccesso di lode, essere questa la più eroica pagina di quella sfortunata, ma non inutile rivoluzione, la quale, or è mezzo secolo, iniziava il risorgimento politico d'Italia. Ricordiamo quei tempi e quelle prove, perchè la patria, nei dì del dolore fortemente sofferto, più santa appare che in quelli dell'esultanza.

In quella impetuosa carica alla baionetta contro lo straniero, che fu la rivoluzione del 1848, Brescia si trovò subito in prima linea; e cacciata la guarnigione austriaca dello Schwarzenberg, fece sventolare la bandiera nazionale sul colle Cidneo.

La fioritura italica d'illusioni e di speranze appassì in breve, e la tirannide straniera calò ancora tenebrosa sulla libertà nazionale. Alla sconfitta di Custoza seguiva l'armistizio Salasco, e il 16 agosto i soldati stranieri rientravano in Brescia.

Tra inique persecuzioni e frequenti speranze s'apriva il 1849. Alle fucilazioni, alle verghe, alle prigionie, agli oltraggi, rispondeva torbido e cupo il fremito, non pure di Brescia, ma delle campagne e delle vallate vicine, fatte contro a segreti convegni di patriotti. Gli animi trepidavano ancora di speranza, guardando al vessillo tricolore, tuttora sventolante [79] su due città gloriose, Roma e Venezia, e al Piemonte, il quale si cimentava di nuovo a difendere conculcati diritti.

Denunziato l'armistizio Salasco, Carlo Alberto lasciava Torino e si avviava verso la Lombardia. A Brescia, ove metteva capo la cospirazione lombarda, un comitato di cittadini animosi preparava l'insurrezione.

Il giorno 19 marzo, sui colli che incoronano la bella città, apparve, con una squadra d'armati, araldo di libertà, il prete Boifava, anima di apostolo e di soldato, tutta accesa del divino entusiasmo di combattere per la patria.

La fiamma vendicatrice divampa il giorno 23 marzo. Una nuova prepotenza delle soldataglie straniere fa insorgere il popolo, il quale fuga la guarnigione austriaca, appena in tempo di chiudersi nel Castello dominante, entro le mura la città. E dal Castello, a mezzanotte, incomincia furioso il bombardamento. Il fragor del cannone si diffonde lontano pei campi: d'eco in eco se lo rimandano i monti circostanti, augusto segnale alle milizie del popolo, preparato a disperate difese.

Si ricorre a tutte le armi somministrate dal furore, e il selciato, scomposto da uomini, da donne, da fanciulli serve ad erigere barricate; con ostinazione invincibile i combattenti cacciandosi a qualunque rischio, non ricusano qualsivoglia miseria [80] estrema, stanno pertinaci a distrugger sè stessi, piuttosto di venire ad accordi con lo straniero.

Intanto, da Mantova, i battaglioni austriaci del generale Nugent correvano su Brescia, ma, giunti alle porte della città, trovarono animosi drappelli guidati dal Boifava e dallo Speri, pronti a mostrare che Brescia non era preda esposta nè facile, e non le mancavano e petti e braccia e ostinata virtù di resistere. Con impeto di prodezza eroica, i nostri ributtarono i croati e volevano inseguirli, se quell'ardore imprudente non fosse stato trattenuto da Tito Speri, capo improvvisato di gente raccogliticcia, ma che aveva occhio di capitano esperimentato e non ignorava le industrie e le precauzioni guerresche.

Poco più di cento prodi tennero fermo tre ore contro i battaglioni del Nugent, il quale rivolto ai parlamentari:

«Entrerò in Brescia per amore o per forza.»

A cui lo Speri:

«Per forza, forse: per amore mai.»

Disse e ritornò fra i suoi il soldato della patria.

Con che dignità antica questa nobile figura di patriota e di guerriero traversa i campi della morte! Nella meravigliosa decade bresciana, Tito Speri s'alza splendido tra una schiera di prodi. Tutto in lui era sincero: lo sdegno e il perdono, l'ira e l'amore, il sentimento e il pensiero.

Alle superbe parole del Nugent, il popolo rispose [81] gridando: «Guerra e morte» e al terribile grido s'unirono in breve il rombo del cannone tedesco e il martellare delle campane bresciane.

Gli assalti degli austriaci erano sempre respinti, ma alle cruenti perdite dei bresciani non furono compenso quelle, benchè maggiori, del nemico, ch'ebbe lo stesso generale Nugent, mortalmente ferito.

Solo, il giorno 29, si apprese che la fortuna italica s'era infranta a Novara. L'immane sventura parve rinvigorire il coraggio.

Le palle percotendo sulle barricate le dirompeano con alto fracasso, e i bresciani, privi di ripari, si mostravano egualmente terribili ai nemici, giurando ai loro morti onore di funerali di sangue.

Haynau, il terribile Haynau, il quale stava a campo sotto Venezia assediata, fremeva di sdegno apprendendo che, dopo sette giorni di lotta, le bene agguerrite milizie imperiali non erano state ancor capaci di aver ragione di una folla incomposta di popolani male armati. Il feroce soldato prese un subito divisamento: abbandonato il blocco di Venezia corse a Brescia, e col favore della notte penetrò nel Castello, insieme con molte milizie.

Quando, in sull'alba del giorno seguente, il maresciallo austriaco, dallo sterrato del castello, guardò dinanzi a sè, Brescia appariva superbamente bella, quantunque il dì fosse grigio. Dalle vie, entro le [82] mura, un remore di grida liete e gagliarde saliva, quasi voce della città, palpitante di prodigiosa vita e accesa da virtù indomabile.

I bresciani, cuori forti, sani, generosi, stavano vigilanti alla custodia della patria. Tra un velo nebbioso si vedevano appena le popolose borgate, i colli fertili e incastellati, i ronchi sparsi di ville. Sotto il giro delle oscure piante, che incoronano i monti, si scorgevano distinti appena i verdi seni delle floride pendici, e si estendeva misteriosa e indefinita la pianura lombarda, sfumante via via nei cinerei vapori dell'orizzonte. E lì sotto, Brescia, torreggiante d'ogni intorno di palagi e di chiese, illuminata, anche sotto il grigio cielo, dal sole della libertà.

Quali pensieri si saranno in quell'ora agitati nel bieco animo dello straniero? Ah! è solo nel pensiero dei buoni che la bellezza e la giovinezza della natura diventano belle e dolci del pari.

Non altro che feroci cupidigie di stragi o di dominio animavano quel micidiale, il quale spediva tosto un messaggio al Municipio, chiedendo senza dimora la resa della città, minacciando saccheggi e devastazione.

Le minacce raddoppiarono l'ardimento. Cresceva col pericolo la fermezza del proposito generoso e feroce. Divampanti d'ira, tutti corsero a brandire le armi,

[83]

No, Italia non vide mai un coraggio così determinato.

Quante compagne ebbe a Brescia la donna greca che rispose: «l'ho partorito per questo» a chi le annunziava morto in battaglia suo figlio: quante bresciane, dalle barricate, guardarono i loro congiunti combattere e ne sentirono orgoglio!

Le campane tutte cominciarono a suonare a stormo, e quando il cannone diede il segno, le soldatesche si precipitarono fuori del Castello, e la città fu investita da tutte le cinque porte.

La procella del ferro e del fuoco imperversava furiosa, la morte mieteva a Brescia il fiore de' suoi prodi, dalle ruine fumanti s'alzava verso il popolo una voce che diceva: «tutto è perduto, arrenditi, ti salva!» e il popolo con ostinato eroismo rifiutava ogni proposta di resa.

Haynau, pensando sforzare altro passo, scagliò alcuni battaglioni verso una piazza della città chiamata dell'Albera «Termopili bresciana.» Qui la resistenza fu più che umana. «Trentamila di questi indemoniati bresciani per conquistar Parigi!» esclamò Haynau, guardando dal Castello l'epica zuffa.

Le schiere austriache cadevano a' piedi dei serragli.

Non un colpo andava in fallo.

Quei magnanimi bresciani, cacciando fuori altissime grida di vittoria, furiosi, accecati, deliranti. [84] apparivano, neri di polvere e stravolti, sull'alto dei ripari. Stringendo con mani potenti le daghe e le coltella, digrignando i denti, con le vene turgide, con gli occhi dilatati, iniettati di sangue, nei quali scintillavano trucemente le pupille, correvano a furia sui nemici, volendo, come dicevano, odorarne il fiato.

E tale fu l'impeto, così pauroso l'aspetto di quei terribili combattenti, che molti nemici, spersi, scoraggiati, confusi, cercarono scampo nella fuga, altri conquisi da un invincibile timor pànico, da una paura misteriosa, da un terror pazzo, immobili, muti, col fiato sospeso, erano uccisi o feriti, prima di riaversi dallo stupore.

Che scorno per le armi imperiali! Ma quel giorno sulla piazza dell'Albera non strisciò la sciabola tedesca.

Questa è vera gloria!

Il maresciallo feroce, disperando piegare con le armi l'invitta costanza dei bresciani, ordinò che con acqua ragia e pece, si appiccasse il fuoco alle case, così che in breve le tenebre furono lugubremente illuminate dagli incendî.

S'adunarono allora a consiglio i reggitori del Comune e il Comitato di difesa. Il rovinìo delle case, il crepitìo degli incendî, il tuonar dei moschetti, il rombo del cannone, dicevano con lugubre voce ch'era follia prolungar le difese, che la rabbia tedesca si sarebbe voltata più feroce contro la città, [85] che l'arrendersi avrebbe risparmiato un nuovo spreco di vite, uno sperpero lagrimabile di sangue, e il popolo divinamente lacero, sanguinoso, straziato, rispondeva di voler combattere ancora.

Brescia accoglieva degnamente sul suo capo il fato della moribonda libertà italiana!

Alla violenza eroica, con cui il dì primo di aprile si rinnovò il combattimento, parve che Brescia non fosse esausta da nove giorni di titanica lotta.

Al furore dei bresciani, nel cui animo ruggiva lo spirito della battaglia, anco una volta balenarono le vecchie milizie del dispotismo. Se non che nuove artiglierie e nuovi battaglioni, giunti dal Ticino e dal Mincio, oppressero con un turbine di fuoco, schiacciarono con la potenza delle armi, non vinsero i difensori di Brescia.

Alcune parti della città presentarono allora uno spettacolo da agghiacciare le vene. I soldati saccheggiarono, incendiarono, uccisero donne, vecchi, bambini. Correvano rigagnoli di sangue, i muri eran chiazzati di sangue, i cortili allagati di sangue. Ingombravano le vie mucchi di cadaveri scorticati, sbranati, sfracellati, masse informi di carni lacerate. Alcune volte (è uno scrittore sereno che racconta, il Correnti) quei crudi si sforzavano di far inghiottire ai malvivi le sbranate viscere dei loro diletti, altre volte scaraventarono teste di teneri bambini tra le schiere bresciane. [86] Con altissimo scroscio cadevano le barricate, passava la processione lugubre dei compagni portati sulle barelle, con la fronte spaccata, il petto lacerato; le schiere erano spazzate via dalla mitraglia, e il popolo con le armi alla gola, all'intimazione di cedere, di sottoporsi, fieramente resisteva.

Già la bandiera bianca sventolava sulla Loggia, e tra le fiamme degli incendi si combatteva ancora, con un valore più forte della barbarie nemica.

A un frate, che tra il grandinar dello palle s'era recato al Castello, per ispetrare il duro cuore di Haynau, il generale austriaco, implacabilmente imperioso, con lugubre ironia rispondeva che nulla d'ostile avrebbero sofferto i pacifici cittadini.

Ma qual cittadino pacifico si sarebbe ancora trovato fra i superstiti? Fra i superstiti, che molti e molti indomati eroi avevano bagnato del loro sangue le zolle della patria, che parevano palpitar di ribrezzo.

La storia ne ricorda i fatti più che i nomi. Che importano i nomi? Tutti erano pronti a morire com'essi dicevano, alla bresciana.

Ecco uno che squarciato il petto da una palla cade dicendo: «Me fortunato, ho l'onore di morire per primo sul campo di battaglia.» - «Ed io secondo» - rispondeva un altro, cui la mitraglia dirompeva gl'intestini. Un terzo, gravemente ferito, rifiutava l'aiuto dei commilitoni, perchè non abbandonassero il posto. - I ricordi son molti. [87] Sacri ricordi, o signori, che la patria unisce nei suoi fasti alle sfortunate, ma eroiche prove di valore, date dalla vecchia aristocrazia piemontese pochi giorni prima, sugli infausti campi di Novara. L'oscuro popolano bresciano, che, col cappello forato da tre palle, si scaglia contro quattro austriaci, ne uccide uno, manda in fuga gli altri e torna a' suoi dicendo: «Ben mi pagai del mio cappello»; e l'altro ignoto plebeo, a cui una bomba porta via il braccio sinistro, e dopo aver scaricato col braccio destro il fucile cade gridando: «Viva! mi resta un braccio per la spada!» non sono forse pari nella virtù e nella gloria a quel vecchio patrizio Perrone di San Martino, che, alla Bicocca, colpito a morte, stramazza di cavallo, dicendo a Carlo Alberto: «Ora il mio dovere è compiuto,» e al conte di Robilant, che levando il moncherino sanguinoso grida: «Viva il Re»? È in tutti questi prodi un comune lignaggio, che ha per motto di famiglia: patria e valore. Haynau, passato alla storia col marchio del sangue sopra la fronte, impose a Brescia duri patti, che dovettero essere accettati dai reggitori della città. Ma non da tutti i bresciani, nati con l'istinto della l'esistenza disperata nel sangue.

Le mura poteano vincersi, i petti no, e si volle resistere tino all'estremo spirito. Pretesto agli oppositori per incrudelire dovunque e per iniquamente violare i patti della resa. [88] Testimonianze irrefragabili parlano degli orrori della soldataglia, d'incendi, di fucilazioni, di violenze: narrano di cittadini inermi bastonati, martoriati, d'alcuni arsi vivi, impeciati ed abbrustoliti, d'altri ammazzati nel letto, nei nascondigli: affermano come nè l'età, nè il sesso imponesser pietà, essendosi trovati donne e vecchi laceri di ferite, bambini o infranti alle muraglie, o calpestati sul suolo, trapassati dalle baionette e lasciati là, fra orrendi contorcimenti, sotto gli occhi materni. Quelle belve umane entrate in un collegio di fanciulli, ne sgozzarono cinque; altri, ebbri per avere aspirato il fumo del sangue, entrarono in una casa e sotto gli occhi della madre massacrarono un giovane epilettico. Un prete, uscito di città, per cercar notizie della madre, fu fucilato: asperso di resina e arso vivo un altro prete, dopo aver veduto due sue nipoti giovanette stuprate e scannato un nipote: un vecchio venerando, trapassato dalle baionette, per non aver voluto giurare sulla bandiera imperiale: un popolano, Carlo Zima, vendicò sè, morendo arso con uno de' suoi carnefici. Oh! esecrazione! Non resiste più l'animo a queste scelleraggini nefande, il cui solo ricordo ci oscura la ragione e ci fa palpitare il cuore con fremiti di sangue.

Così, per le mani di un soldato carnefice, finiva strangolata la libertà bresciana, e, fra la tirannia militaresca e la violenza ladra dei barbari, la scettica [89] e vile Europa guardava indifferente. Ma quei morti tennero viva l'Italia, e da quelle stragi uscì voce di resurrezione.

Brescia, che in quei memorabili giorni irradiava l'Italia della sua eroica virtù, aveva raccolto dalla propria storia e al sangue de' suoi martiri aveva confidato il diritto che dentro alla sacra cerchia delle Alpi e del mare, la patria non dovea essere contaminata da straniero dominio.

Seguirono tempi di cupa tirannide. L'Austria, con impudenza soldatesca, pensò assicurare la obbedienza col terrore, col sospetto, con l'arbitrio, e la Lombardia e la Venezia, oppresse peggio che altro paese dell'infelice Italia, precipitarono da una troppo grande altezza d'illusioni e speranze in orrende calamità. La baldanza soldatesca del Radetzky non obbediva neppure ai ministri di Vienna, i quali avrebbero voluto porre un freno all'imperio della spada. Ma non erano smarriti gli animi e gli intelletti degli italiani, non tutte spente le speranze, e la nazione imparava dal dolore l'arcano della risurrezione, e, ammaestrata dalla esperienza, si preparava con tenacia a ritentare la prova, ad affermare la libertà e la patria con la meditazione, con l'opera, con la parola, con il sangue.

Il cielo d'Italia è ancora solcato da fuochi di patriottismo, e le società segrete, prendendo inspirazione dal comitato nazionale, istituito a Londra [90] dal Mazzini, ordivano congiure, pronte a scoppiare in aperta rivolta. A Mantova, dove più inferociva l'ira soldatesca dello straniero, ordinavasi un comitato di patriotti, di cui era anima Enrico Tazzoli, sacerdote di santa vita. L'austriaca ferocia soffocava le riottose speranze i con supplizi, con le carcerazioni con le bastonature, con le confische dei patrimoni, con le multe, con gli esigli, con la violazione della legge comune e dei trattati. Le persecuzioni accendevano l'ira, e il sangue versato fecondava il seme di libertà.

La nuova serie dei martiri è iniziata dall'eroico popolano Sciesa, milanese, fucilato il 2 agosto 1851. Lo seguono nella morte gloriosa il comasco Dottesio strozzato a Venezia, il sacerdote Grioli fucilato a Mantova. E a Mantova furono poi tratti al supplizio, sugli spalti di Belfiore, Enrico Tazzoli, lo Scarsellini, lo Zambelli, il Canal, il Poma, il Grazioli, il Montanari. Molti, a cui fu risparmiato il patibolo, furono prima sepolti nelle orrende mude della Mainolda, poi mandati a scontare il delitto d'amare la patria nelle prigioni boeme.

Allora che l'anima si ritrae nell'asilo del passato, ove le burrasche mondane romoreggiano, come il fiotto procelloso dell'Oceano sulla riva sicura, ci appare, tra i crocei vapori vespertini, nobile e santa fra tutte, la figura di Tito Speri, l'eroe delle dieci giornate di Brescia, penzolante dalla forca, di Belfiore. [91] Quel pallido fantasma non è accompagnato da alcun sentimento di rancore o di vendetta. La notte precedente al supplizio, l'eroico giovane, il quale abbandonava la vita a ventotto anni, scriveva una lettera ad Alberto Cavalletto, che non si può leggere senza profonda commozione, «Nella mia vita - così egli scrive - ho qualche volta gustato delle gioie, ma te lo assicuro, in confronto a quelle che provo in questi momenti, esse non furono che miserabile fango. La mia gioia al pensiero che fra poco andrò a morire per la patria, è così viva, così intensa, che se gl'Italiani potessero averne un'idea, si farebbero tutti ammazzare.» Con lo stesso ardente entusiasmo, i martiri della Chiesa primitiva andavano a morire per la religione. Oggi, dopo tanto breve corso di tempo, quei generosi che ci diedero una patria, sembrano così distanti da noi, quelle audacie magnanime sembrano così lontane da questi giorni, in cui ogni senso di patria poesia è distrutto dalla cosa pubblica fatta bottega di vanità, dalla pratica operosità, che converte l'anima in denaro. Ma allora la patria era veramente una religione, la quale insegnava la nobiltà del morire per un'alta idea e apprendeva la forte efficacia della virtù, che a quei santi dell'età moderna proveniva dal cuore: virtù di religione, esercitata per amore all'invincibile sentimento dell'eterno bello, dell'eterno giusto, dell'eterno vero; virtù d'affetto, che, [92] pur vibrando alle speranze, non fuggiva il dolore e lo sentiva, e lo misurava, e lo sopportava; virtù di sacrifizio, che facea serenamente rifiutare la vita per la patria adorata.

Allora nessuna persecuzione, per quanto feroce, poteva domare gli animi, anelanti a libertà.

Il Piemonte, il nobile asilo d'Italia, accoglieva i profughi delle provincie oppresse e li adoperava come cittadini. Le lettere nella Lombardia e nella Venezia, pur lasciando le forme rivoluzionarie, che aveano preparato il 48, ma sempre informate all'odio contro lo straniero, continuavano ad armare le menti al conquisto della libertà.

Camillo di Cavour, nel quale l'animo del cittadino era anche più grande della mente acuta del ministro, faceva suo, con penetrazione sicura, il concetto mazziniano dell'unità italiana e lo incarnava nella monarchia di Savoia, compiendo una delle più belle rivoluzioni della storia.

Ormai s'era creato in Europa il convincimento che l'Austria avrebbe comandato in Italia ancora per poco, e che l'Italia, dopo tanta virtù di sacrifizi, di lotte, di opere, di studi, avea bene il diritto di costituirsi in nazione indipendente.

L'Austria allora, cui più che la vergogna delle sue inique oppressioni cuoceva la riprovazione di tutte le nazioni civili per le sue forme di governo, pensò adoperare, dopo i patiboli e le carceri, un'arme [93] più insidiosa, le lusinghe, e simulò di farsi più umana. «No, noi non domandiamo all'Austria - esclamava Daniele Manin, l'esule magnanimo - che sia umana e liberale in Italia, ma le domandiamo che se ne vada; noi non sappiamo che farci della sua umanità e del suo liberalismo, e solo vogliamo esser padroni in casa nostra!»

Che l'Austria non fosse mutata e sotto le blandizie celasse l'antica ferocia, provò la nuova forca rizzata nel 1855 a Mantova, e a cui fu appeso, inclito martire, Pietro Fortunato Calvi, l'eroe del Cadore.

* * *

Un dì, la bandiera italiana apparve sui baluardi di Sebastopoli, unita ai vessilli dei più forti popoli dell'Occidente. Dopo la guerra di Russia, nel Congresso di Parigi, la causa italiana fu dichiarata solennemente d'interesse europeo, raccomandata al tribunale supremo della civiltà cristiana, e il conte di Cavour arditamente proclamava che l'Austria in Italia era stata sempre attendata.

Ormai l'Italia non si sentiva più sola, abbandonata, e precorreva, con l'ansia del desiderio, gli eventi.

E che giubilo irrefrenato, da un capo all'altro della penisola, commosse, non molto dopo, i popoli, all'annunzio che la Francia, la gloriosa sorella latina, dava la mano all'Italia per rialzarsi e per iscuotere i danni e le onte del servaggio!

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Nei primi giorni del maggio 1859, Vittorio Emanuele e Napoleone III si mettono a capo dei loro eserciti, mentre Garibaldi conduce i suoi Cacciatori delle Alpi. Il 20 maggio, gli austriaci toccano dalle armi franco-piemontesi la prima sconfitta in Lombardia, a Montebello; il 30 sono fugati a Palestro. Fra la prima e la seconda vittoria, Garibaldi, il 23 maggio, entra trionfante a Varese, il 27 a Como.

Il 4 giugno, gli eserciti alleati passano il Ticino, e i francesi vincono il nemico a Magenta; l'8 a Melegnano. In questo stesso giorno Vittorio e Napoleone entrano in Milano, tra l'entusiasmo frenetico delle popolazioni redente.

Gli alleati, con rapida marcia, avanzano verso il Mincio, dove, ritirandosi sulla sinistra sponda, s'è concentrato l'esercito austriaco, riordinato, rafforzato da fresche e numerose milizie, sotto il comando supremo dello stesso imperatore Francesco Giuseppe. Il 16 giugno, Vittorio Emanuele entra in Brescia, seguìto, dopo due giorni, da Napoleone. Il nemico è vicino: al di là del Mincio, il quadrilatero formidabile: protetto dal quadrilatero uno degli eserciti più agguerriti e disciplinati del mondo. E' ardua la partita. All'austriaco, vinto nelle precedenti battaglie, ma sempre superiore di numero, parevano sorridere probabilità di vittoria.

Il 24 giugno, per le strade di Brescia, è un affollarsi [95] di gente, un richiedersi ansioso fra i cittadini, un'agitazione piena di speranze e di trepidazioni. Distinto, incessante, tremendo giunge il rombo del cannone. A poche miglia da Brescia si decide delle sorti d'Italia.

Il 23 giugno, l'imperatore Francesco Giuseppe, riprendendo l'offensiva, aveva fatto ripassare il Mincio al suo esercito. Nè i franco-piemontesi, nè gli austriaci credevano incontrarsi così presto, e nessuno pensava si sarebbe subito impegnata battaglia.

I due eserciti procedevano, senza saperlo, l'uno contro l'altro, su quel terreno, che sta fra il Chiese e il Mincio, e da una parte ha per confine il Lago di Garda, dall'altra finisce nell'ampia pianura mantovana.

Erano centosessantatre mila gli austriaci, con 688 pezzi di cannone, e si spiegavano su circa trenta chilometri, con la destra appoggiata al Lago di Garda, il centro nel gruppo di colline, fra cui s'ergono Solferino e Cavriana, e la sinistra verso la pianura di Mantova.

Erano centocinquantacinque mila, con 552 pezzi d'artiglieria, gli alleati.

I piemontesi, alla, sinistra, dovevano occupare le forti posizioni montagnose, che dal Lago di Garda vanno digradando alla pianura, mentre da Lonato e Castiglione, nei campi in cui vivono le memorie [96] di altre guerre napoleoniche, si distendevano fino alla pianura di Mantova i corpi d'esercito francese, comandati dal Baraguay d'Hilliers, dal Mac-Mahon, dal Niel e dal Canrobert. Fu primo il Niel a urtare con grandissimo impeto gli austriaci, che l'assalto sostennero con uguale tenacia.

Presto la pugna s'accese dovunque; più terribile nel centro, a Solferino, dove Napoleone III, con prontezza di concetto degna del grande zio, comandò di concentrare lo sforzo maggiore. Là veramente stava la vittoria. Fu la lotta lunga, ostinata, atroce, e vano per molte ore l'evento, superando gli austriaci di numero e di costanza, i francesi d'impeto e di ardire. Dopo una resistenza ostinata, l'austriaco si ritirava rotto e sanguinoso, e le armi di Francia vincevano ovunque.

Molto diverse procedevano le cose sull'ala sinistra, dove i Piemontesi s'erano trovati di fronte ad uno dei corpi austriaci più formidabili, sotto la condotta di un generale valentissimo, il Benedeck.

Il combattimento era cominciato alle sette del mattino, e i nostri si avanzavano verso Pozzolengo. Avevano potuto conquistare le importantissime posizioni di San Martino e della Madonna della Scoperta, ma assaliti dal nemico numeroso, furono, dopo breve ma aspra lotta, cacciati. Si rinnovò l'attacco dai nostri, ma slegato, senz'ordine, mandando alla spicciolata i soldati, i quali, con mirabile valore, [97] parecchie volte s'impadronirono delle alture e parecchie volte ne furono respinti. Gli austriaci occupavano fortemente San Martino e Madonna della Scoperta. Il generale Durando invano assaliva questo secondo colle, mentre il generale Mollard, più valoroso soldato che abile condottiero, attaccava San Martino e vinceva. Ma un vigoroso contrattacco non tardava a respingerlo fino al piede dell'altura. Non era però lo scompiglio della fuga: Mollard riordinava i suoi e restava di contro alle posizioni nemiche aspettando nuove e fresche milizie, mostrando di esser pronto a ritentare la prova, mentre il Benedeck raccoglieva il suo esercito sull'altura di San Martino, non osando scendere a soccorrere Solferino, dove la fortuna inclinava a favore di Francia.

Quando il Baraguay d'Hilliers e il Mac-Mahon riuscirono ad occupare Solferino, gli austriaci dovettero abbandonare la Madonna della Scoperta, presto occupata dal generale Durando.

Vittorio Emanuele, che correva or qua or là, dove più terribile era il pericolo, con l'angoscia nel cuore vedea che il Benedeck, respingendo con buon successo parecchi assalti vigorosi dei nostri, mantenevasi saldo sulle cime di San Martino e dei prossimi poggi. Al valore delle armi italiane non voleva sorridere la fortuna. Più che il destino premeva al Re magnanimo l'onore d'Italia. Ordinava [98] egli allora al La Marmora di mettersi a capo di due divisioni, le univa a quelle del Mollard, e stava per tentare un generale furibondo assalto, quando scoppiò uno spaventevole uragano. La battaglia rimase tronca, essendo impossibile ai soldati, per la furia del vento, accompagnato da violenta grandine, non che di avanzare di reggersi in piedi. Quando, dalle rotte nuvole, riapparve il sole, tornarono gli uomini alle offese. I piemontesi sorsero risoluti e pronti. Invano le artiglierie nemiche fulminavano quelle schiere di valorosi, che procedevano serrati, terribili all'aspetto. Scoppiò un grido: Savoia, da migliaia di petti; rullarono i tamburi, suonarono le musiche, e i soldati d'Italia piombarono terribili all'assalto. Ma non meno terribili le difese. È un combattere asprissimo e mortalissimo. Si pugna con le baionette, con le sciabole, con le daghe, con i calci del fucile, con i sassi, co' pugni, con le unghie, co' denti. Piega finalmente la fortuna in favore d'Italia. Gli austriaci cominciano a balenare, i nostri acquistano vigore, la Contraccannia, la casa, dove più ostinata era stata la resistenza del Benedeck, è presa. Gli austriaci sono cacciati giù dalla china, e un gran grido s'inalza: «Viva l'Italia! Viva il Re!»

Il giorno finiva e le artiglierie franco-italiane salutavano la vittoria, su quei campi dove giacevano uccisi mille seicento ventidue francesi, seicento [99] novantuno italiani, duemila trecento ottantasei austriaci; feriti 8530, e prigionieri e scomparsi 1518, tra i francesi, tra i piemontesi feriti 3572 e scomparsi 1258; tra gli austriaci 10,634 e 9290 scomparsi e dispersi.

L'unico e santo intento di tanto sangue versato era vicino a raggiungersi. Ancora una battaglia sotto Verona e l'opera era compiuta, la giustizia era fatta.

A un tratto, fra quelle speranze, scoppia, come folgore, la pace di Villafranca.

Non indagheremo quanto sulla repentina deliberazione abbian potuto le notizie di Germania, la quale nelle vittorie francesi vedeva un pericolo e una minaccia. La pace sul Mincio evitava forse la guerra sul Reno.

Parve per un momento dovesse l'Italia cedere per sempre al destino avverso. Sulle fulgide glorie di Palestro e di Varese, di Montebello e San Martino, di Magenta e Solferino si stendeva come un velo funereo. Angoscie e lagrime scoppiarono irrefrenate nel Veneto, condannato ancora al servaggio abominato, mentre si alzavano rinnovellati alle prime aure di libertà i più felici fratelli della Lombardia, della Toscana, dell'Emilia.

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Quando Napoleone lesse a Vittorio Emanuele i capitoli della pace di Villafranca, questi non si potè trattenere dall'esclamare: «Povera Italia!» Ed avendo l'Imperatore soggiunto: «Ora vedremo quello che sapranno fare gl'Italiani da soli» - «Spero» rispose Vittorio Emanuele «che tutti faremo il nostro dovere.» E lo fecero.

Il conte di Cavour, il quale in un memorando colloquio con Vittorio Emanuele, voleva che il Re respingesse sdegnosamente la pace, si dimise da ministro e al Farini, che annunziava da Modena la sua risolutezza di resistere anche a costo della vita, al ritorno del Duca, egli scriveva: «Il ministro è morto, l'amico applaude alla risoluzione che avete presa.»

Ma sbollita l'ira e calmato il dolore fu lo stesso conte di Cavour, che al principe Girolamo Bonaparte scriveva: «Bénie soit la paix de Villafranca.»

Sacra antiveggenza del genio!

Una nuova vittoria ottenuta con l'aiuto di Francia, avrebbe bensì resa libera Venezia e costituito un forte regno nell'alta Italia, ma avrebbe resa onnipotente nella penisola la supremazia francese, la quale avrebbe rimessi sul trono principi invisi, cacciati per virtù di popolo.

Le mutate contingenze politiche mutavano l'avviamento delle menti italiane, e il concetto dell'unità italiana era rinnovato dagli avvenimenti.

Senza Villafranca non sarebbe stato possibile il [101] magnanimo ardimento del Re guerriero, il quale, invece d'essere la coscienza e il braccio della rivoluzione, avrebbe dovuto rispettare i patti imposti dalla Francia. Senza Villafranca non avrebbe, no, potuto Garibaldi, l'epico cavaliere, rovesciare, con l'aiuto del Piemonte, con il concorso dell'Inghilterra, il governo nefasto dei Borboni, negazione di Dio. Senza la pace di Villafranca non sarebbe stato concesso al Cavour di far parlare l'anima sua entusiasta di cittadino più alto dello spirito prudente e chiuso del diplomatico. Senza la pace di Villafranca finalmente, non avrebbero potuto gli uomini migliori della penisola far risuonare insieme al grido augusto di libertà il tuo santo nome, o Italia!

Roma era ancora schiava, Venezia si dibatteva fra le ribadite catene, Napoli e Sicilia fremevano sotto un giogo abominato, ma restava sempre una grande idea: - l'Italia - un gran sentimento: - l'amor della patria, - reso più tenace, più forte dal dolore delle infrante illusioni. Sì, l'amor della patria, sfavillante più puro nella luce del sacrificio, si ergeva ancora fidente, con tutte le sue forze, sino all'ultimo suo fine, in tutti i suoi modi.

Ora s'era ridestata più risoluta la volontà, s'erano maggiormente accesi lo spirito di sacrificio e l'energia del bene, s'era fatta più stretta quella santa unione d'avvenire, di speranza, di lotte che dovea condurre l'Italia in trionfo «Sovra l'intatto scudo di Savoia.»

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Italia e Vittorio Emanuele fu il grido, che risuonò in ogni parte della penisola, unendo i fratelli, chiamando gli avversari alla pugna, facendo dimenticare in quel santo grido tradizioni e interessi regionali, orgogli municipali, secolari nimistà. E le zolle d'Italia rosseggiarono di sangue italiano, a preparare il trionfo del Re. I plebisciti confermarono le brame dei popoli, e il 18 febbraio 1860 s'aperse il primo Parlamento italiano. Dopo un mese, Vittorio Emanuele II, fu, per legge, proclamato Re d'Italia.

Così, o signori, in questi grandi avvenimenti della storia gli uomini che credono dirigerli sono da essi trascinati, e nel fondo del quadro vi è l'eroe oscuro, ignorato, il quale decide di tutto e di tutti ed è la coscienza del popolo, che in certe ore si risveglia e s'impone. Gl'Italiani erano maturi pel grande riscatto nazionale.

Ben poteva l'imperatore di Francia, con i migliori e più alti intendimenti, divisare un'Italia distribuita in nuovi regni, ma omai la coscienza del popolo nostro era così sveglia e vigilante, gli uomini che la dirigevano o la esprimevano, il Re, Cavour, Garibaldi, Ricasoli, Farini, Minghetti ed altri spiriti magni di cotale grandezza, erano così degni d'interpretarla, che qualunque errore o qualunque tradimento della politica si sarebbe trovato il modo di torcerlo a favore della unità nazionale.

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Se Napoleone proseguiva la guerra, l'unità si Sarebbe fatta all'ora voluta dalla storia con lui, senza di lui, o contro di lui. Arrestatosi al Mincio, il dolore della delusione fece prorompere anche più impetuoso il bisogno della unità in un popolo come il nostro, rappresentato da statisti come i nostri, i quali in certi momenti accoppiarono le doti degli eroi con quelle dei più fini diplomatici. Il Cavour, nel suo aspro colloquio col Re dopo Villafranca, è un eroe che dimentica i doveri del ministro verso il suo Re. Il Garibaldi, che sulle balze del Tirolo sa fermarsi e obbedire, è un politico istantaneo, che lascia dimenticare per qualche momento l'eroe. E di tutti questi coraggi irreflessivi e di tutti questi accorgimenti santi aveva bisogno la patria per unirsi, anche quando pareva che il cielo e la terra, il papa e Napoleone III contrastassero alla sua unificazione. E pensando a quelle giornate del nostro riscatto, nelle quali nè la nazione, nè gli uomini che la dirigevano commisero errori, quando pareva che tutti i grandi della nostra storia si alzassero dai loro sepolcri per inspirare i vivi, dobbiamo anche essere più indulgenti verso le presenti miserie e meno pessimisti.

Ogni giorno non c'è una patria da creare, ma neppure i languori, gli errori, le colpe dei contemporanei ci tolgono la fede che nei giorni di supremo pericolo non si troverebbero le energie del '59 e [104] del '60. Poichè, o signori, è contrario alla legge della continuità storica, che un popolo il quale, quaranta anni or sono, era composto tutto di veggenti, di diplomatici, di eroi, dovesse oggi essere formato soltanto di queruli, di critici e di mediocri.

Vengano le ore dei grandi pericoli, troveremo l'antica grandezza.

Alziamo tutti gli ideali nostri, e troveremo gli antichi fervori.

La responsabilità maggiore di quest'ora opaca che si attraversa è nella piccolezza degli uomini politici, ma, fuori della vita politica, nelle industrie, nelle arti, nelle scienze, ritroviamo ancora l'Italia del '59 e del '60.

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