IL RE GALANTUOMO (1849-1859)

CONFERENZA

DI

DOMENICO OLIVA.

[107]

Carlo Alberto aveva voluto ritentare la prova: sulla sua anima di re e di patriota, l'armistizio Salasco, l'ultima ed inutile difesa di Milano, le scene di violenza, d'ingratitudine e di follia, da cui eran state bruttate le vie della Metropoli lombarda, pesavano come ricordi d'oltraggi e di sangue.

Tutta Italia fremeva ancora: la Lombardia soggiogata, non doma, pareva pronta alla riscossa: Venezia si teneva libera e si difendeva dall'Austria, e, penetrata dal severo spirito di Daniele Manin, si accendeva alle visioni di guerra e all'estreme speranze: erano in tempesta Toscana, Romagna, Roma, dilaniate da fosche e basse discordie civili, ma non vinte ancora: il re di Napoli s'era disvelato, ma il popolo di quelle contrade favellava pure sempre di libertà e aspettava: la Sicilia, insorta in armi, sfidava il nemico. Era tramontata l'età poetica: non più idillii, non più liete crociate, furore invece: pareva [108] fosse promessa la vittoria alla disperazione, e, se non a vincere, si anelava a morire, a porre sulla strada della reazione trionfante un'Italia sanguinosa e lacera, ultima protesta, ultima vendetta, ultimo incitamento alle ire rinnovellate dei nepoti lontani.

Questa, in generale, la condizione morale e materiale della patria: volgiamo lo sguardo alle condizioni particolari del regno subalpino. Mai, io penso, un re e un popolo affrontarono tanto male un grande cimento, come Carlo Alberto ed il Piemonte, nella incipiente e tristissima primavera del 1849. Reazionari e rivoluzionari spargevano ogni sorta di veleni nella massa della nazione, e fra coloro che dovevano combattere, gli uni affermavano che il Re era tradito, gli altri che il Re era traditore: prezzo del tradimento, l'onore, la sicurezza, la libertà del popolo: predicavano la sfiducia, preparavano la sedizione! Nessuno credeva, la Camera urlava, i ministri non sapevano, il capo supremo dell'esercito era uno straniero ignoto, cui era ignoto persino il suono della nostra lingua; i soldati erano numerosi, ma o troppo vecchi, o troppo giovani, non esercitati o stanchi, non agguerriti, non ordinati: l'aristocrazia pronta al sagrificio, ma nauseata della demagogia o imperante o prossima ad imperare, il clero pauroso di novità, la folla ondeggiante, incerta, immiserita, dolorosa per le recenti sventure, [109] non parata ad affrontare e a sostenere le nuove. Tentavasi così di vincere il vecchio maresciallo Radetzky, chiaritosi l'anno innanzi strenuo e possente capitano, di ricacciarlo nei fortilizi già da lui animosamente difesi, di obbligarlo a darsi vinto, mentre si accampava, certo della vittoria, coi suoi veterani al confine piemontese. Breve sogno e fallace: Ramorino fu sorpreso o si lasciò sorprendere, la nostra destra fu assalita e battuta, ci ritraemmo sotto Novara, minacciati d'essere avvolti e separati dalla metropoli subalpina, come lo eravamo da Alessandria e da Genova.

E ci lasciammo trascinare all'ultimo sforzo, e parve che appunto in quelle ch'erano ore estreme di agonia, la nostra fortuna stranamente potesse risorgere: le schiere affrante, stanche, già percorse dalla indisciplina, male ordinate, peggio nudrite, sentirono che nei cuori e nelle braccia stava per risorgere la virtù antica: fanti, cavalieri, artiglieri, ufficiali, soldati, sotto gli sguardi del Re pallido e impassibile, guidati dal duca di Genova, erto sul cavallo, colla punta della spada rivolta al nemico, respinsero i formidabili assalti degli austriaci, li assalirono a loro volta, e ripetutamente li fugarono: lo inseguimento di quelli che parevano già vinti, chiesto, implorato, supplicato dal duca di Genova, avrebbe fatto forse di Novara una vittoria italiana e forse mutato (chi può dire in qual modo) la storia [110] del nostro paese. Non fu conceduto: tornò il nemico a combattere, tutte le forze imperiali, richiamate, giunsero sul campo: cadevano i nostri generali, gli artiglieri morivano sui pezzi, la pioggia fitta, minuta, incessante snervava i combattenti, l'aria era grigia e tetra e poi scendeva rapida la sera sui vinti che gridando al tradimento abbandonavano le ordinanze, sui gregari che non ascoltavano più la voce dei capi: erano tenebre, orrore, desolazione! Ed armi fratricide e mani rapaci e voglie bestiali si agitavano furiosamente nell'ombra, fra un coro d'imprecazioni, di grida paurose e di bestemmie.

Egli era là, sul bastione di Novara, aspettando senza profferir parola, senza muover ciglio, la palla liberatrice. Non poteva uccidersi, perchè cristiano; poteva morire, perchè soldato, per la mano incosciente ed ignota d'un soldato nemico. E lo ritrassero a forza. Si riebbe, chiese patti al vincitore: gli risposero con imposizioni dolorose e vergognose. E subito si determinò a quel sacrificio che, nell'ammirazione e nella gratitudine di noi nepoti, tanto e tanto innalza la sua figura. Convocati a tarda notte, i figli, i generali, il ministro Cadorna, quanti eran con lui, amici nella cattiva fortuna, in una sala del palazzo Passalacqua, in piedi, presso al focolare che rosseggiava, disse: «Alla causa della indipendenza italiana, io mi sono votato con tutta l'anima mia: per essa volli esposta ad ogni rischio di guerra la [111] mia e la vita dei miei figli. Il Cielo non mi volle arridere, e la sublime vagheggiata mèta per me è per sempre perduta. Comprendo essere oggi la mia persona d'impedimento a conchiudere la pace diventata indispensabile; pace che d'altronde io non potrei sottoscrivere senza disdoro. Non avendo avuta la fortuna di morire sul campo, non mi resta, per la salute del mio paese, che deporre questa corona che posi al cimento per la libertà della patria. Io non sono più vostro Re, o signori, il vostro Re da questo momento è Vittorio, mio figlio.» E, fatto cenno al duca di Savoia di avvicinarsi a lui, gli pose la mano destra sul capo, e ve la tenne un istante, rinnovando quasi un antico rito di consacrazione, che la grandezza della sventura e gli uomini e l'ora facevano solenne. Poi strinse il figlio al cuore e lungamente, poi abbracciò il secondogenito e ad uno ad uno, tutti gli astanti, su cui più che la riverenza potè l'intensa commozione, e non ebbero freno le lagrime: la sala fu tutta singulti e non altro. Fuori, batteva ostinata la pioggia e non cessavano le grida dei feriti e dei morenti.

Volle restar solo coi figli, scrisse alla moglie che non doveva più rivedere e al suo segretario: al nuovo Re disse brevi parole, che così chiuse: «Sopra tutto devi esser sempre fedele ai tuoi giuramenti.»

E partì verso la morte.

[112]

* * *

Così cominciava il nuovo regno. Così cominciava il regno d'un giovane, che il popolo e l'esercito conoscevano solamente pel suo valore sul campo di battaglia: nella fantasia della gente egli altro non era che l'eroico soldato di Santa Lucia e di Goito: ma le fantasie in quei tempi eran malate e nei soldati, vinti, non si aveva più fede. Lo dicevano impaziente, lo affermava qualcuno conscio degli errori compiuti. «Dobbiamo ciecamente obbedire a chi ciecamente comanda,» avrebbe gridato un giorno in un impeto di sdegno; e v'era chi gli attribuiva qualche buon consiglio inascoltato. Ciò era poco. I primi uomini che lo avvicinarono, aspettavano ordini, nessuno osava dire una parola.

Volle subito dettare un manifesto ai suoi popoli e lo stese di suo pugno. «Fatali avvenimenti, la volontà del veneratissimo genitore mi chiamano assai prima del tempo, al trono dei miei avi. Le circostanze, fra le quali prendo le redini del governo, sono tali che senza il più efficace concorso di tutti, difficilmente potrei compiere l'unico mio voto, la salvezza della patria comune. I destini delle nazioni si maturano nei disegni di Dio: l'uomo vi debbe tutta la sua opera. A questo debito noi non abbiamo fallito.

Ora la nostra impresa dev'essere di mantenere [113] salvo ed illeso l'onore, di rimarginare le ferite della pubblica fortuna, di consolidare le istituzioni costituzionali. A questa impresa scongiuro tutti i miei popoli: io mi appresto a darne solenne giuramento, ed attendo dalla nazione in ricambio aiuto, affetto, fiducia.»

Poi gli giunge notizia che il maresciallo Radetzky vuol conferire con lui e gli va incontro, da Momo, verso la fattoria di Vignale. Percorreva la strada, guasta dalla pioggia, a cavallo precedendo i pochi seguaci, vedeva contadini pallidi, sparuti, soldati sbandati, qualche carro di feriti e costoro non lo salutavano che con un grido ch'era un lamento: «Pace, pace!» Non rispondeva. Scorse il vecchio Radetzky a cavallo: discese pronto: anche il maresciallo volle affrettarsi a scendere, ma lo impacciavano la tarda età e gli acciacchi, e gli fu mestieri d'aiuto. Quando fu accanto al Re, desiderò abbracciarlo e gli rammentò che amava con tenerezza paterna la regina Maria Adelaide. Così il vecchio, rigido e terribile, si faceva bonario, diceva sorridente di gioie domestiche, cercava cattivarsi l'animo del giovane, e tendeva a una sottile seduzione. «Volete esser mio e vi farò possente: dimentichiamo ch'io sono un vincitore e voi siete un vinto: se ascolterete me sarete come un vincitore, e questo vostro regno oggi tanto battuto e disfatto, in breve diventerà florido e forte. Volete nuovi dominii? Io posso darveli. [114] perchè ora posso tutto. Volete la tutela delle mie armi? Sono vostre. Sudditi ribelli, nemici esterni nulla potranno, finchè saremo uniti. Rinunciate a questa bandiera, che la rivoluzione e i nemici della vostra Casa hanno imposto a vostro padre: innalzate ancora l'antica, che fu rispettata e temuta e gloriosa, simbolo d'onore e di vittoria. Allontanate i perfidi consiglieri che hanno perduto Carlo Alberto e tornate a quelli che fecero i primi anni del suo regno così sicuri e prosperi. Nessun sagrificio domando a voi: Re, state coi Re; soldato, coi soldati. Ascoltate un vecchio esperto della vita e delle battaglie; voi siete giovane, com'è giovane il mio sovrano, siete fatti per conoscervi e per amarvi, vi uniscono vincoli di sangue, contiguità di territorii, l'interessamento di cui gli animi vostri sono compresi per l'ordinato e pacifico avvenire dei vostri popoli. L'Austria oggi sa divinare come un tempo e sosterrà le legittime ambizioni della casa di Savoia. Non volete? Ci volete nemici? Ebbene, potrei offrirvi generosamente patti decorosi e tollerabili: ma rammentatevi che starete solo, fra le passioni irruenti dei partiti, abbandonato da noi e da tutti i principi italiani. Che dico italiani? Da tutti i principi europei. Che ha fatto per voi la Francia? Nulla! Che farà? Nulla! Il vostro piccolo trono sprofonderà fra le tempeste; e se chiederete un giorno l'aiuto nostro, sarà tardi certamente. Pensate, Sire, questa è l'ora del vostro destino.»

[115]

«Ho giurato» gli rispose cortese, ma fermo il Re «ho giurato come principe, sto per giurare come Sovrano: ho combattuto per l'Italia e non pochi italiani hanno combattuto al mio fianco. Non posso dimenticare, non debbo dimenticarli, non voglio tradire nessuno. Sono a capo d'uno stato indipendente, e tale voglio sia per l'avvenire. Mi rassegno alla sorte del vinto, ma intorno ai miei doveri non tratto alcun componimento e giudice dei miei doveri sono io solo e li compirò, qualunque cosa compierli dovesse costare a me. A voi vengo per stipulare una tregua, non per stringere alleanza, per guadagnare terre, per crescermi di potenza.»

E come l'altro si faceva ad insistere, il Re negò sempre; negò e nel vecchio si facevano strada meraviglia e rispetto, e quasi la sensazione indefinita che quel giovane stesse per dar principio a un nuovo capitolo di storia. La figura sdegnosa del nuovo Re, le parole di lui chiare e sicure, quell'anima che gli si palesava tutta e che pareva ed era tanto maggiore della sventura, vinsero gl'istinti di prepotenza, l'orgoglio della vittoria, l'odio antico e perenne verso la gente italiana. Contro volontà stava volontà: quella vinceva più vigorosa ed ardita, quella che veramente si volgeva al futuro, mentre l'altra piegava, l'altra su cui pesavano gli anni e le opere, l'altra per cui si curvava il tempo mortale.

In quel colloquio fu fatta l'Italia, e si mostrò [116] per la prima volta l'uomo che l'Italia aveva a lungo invocato.

Fu un istante di vera grandezza; qual meraviglia che ne siano uscite cose grandi? Un attimo d'esitazione, logica ed umana d'altra parte, ci avrebbe perduti. Ma esitazione non era possibile: Vittorio Emanuele incontrava deliberatamente il maresciallo Radetzky, come un Re e un italiano doveva incontrare il nemico. Un magnifico istinto lo aveva fatto forte: nessuna preparazione, nessun consiglio, nessuna esperienza; teneva luogo d'ogni altra cosa la generosa voce del sangue e l'amore della patria.

* * *

Usciva trionfante. E già pensava l'opera. Pensava: «M'ha compreso il generale nemico, mi comprenderanno i miei: io reco loro la bandiera salva, il simbolo e la realtà, tutto quello che si vuole per vivere e per rincominciare.»

Senonchè, quasi alle porte di Torino s'imbatte nel principe di Carignano, che gli reca un messaggio della Regina: e la lettera diceva la esaltazione, la esacerbazione degli animi, la confusione dell'idee e dei propositi, il dolore degli uni, l'avvilimento degli altri, le ire dei partigiani, le cupide voglie, quanto di morboso si sollevava nella metropoli [117] piemontese. La Camera aveva udito leggere da Domenico Buffa una lettera del Cadorna, annunziatrice del disastro e dell'abdicazione di Carlo Alberto: aveva, in un impeto di doloroso entusiasmo, votato al re martire un monumento nazionale; ma poi si perdeva in mezzo alle recriminazioni, alle accuse, alle ingiurie, ai pensieri più folli e più disperati.

Vittorio Emanuele si reca subito a prestare giuramento di fedeltà allo Statuto, e mentre traversa lo spazio che sta fra la reggia e il Palazzo Madama, ove s'era raccolto il Parlamento, vede gran folla e la milizia cittadina in armi; non un grido ascolta, non un viso benevolo scorge, appena gli si rivolge qualche saluto, i più lo guardano senza parlare, senza muoversi, freddi, sospettosi, accorati. Entra nell'aula, sale sul trono, senatori e deputati si levano in piedi, nessuno applaude e pare che sulle labbra di quei dolenti o di quei nemici muoia il benvenuto che si dà sempre ai Sovrani.

Il Re giura, poi parla brevi parole, riafferma la fede sua negl'istituti liberali: dice che il suo giuramento dovrà compendiare tutta la sua vita. Silenzio profondo: non lo acclamano, non lo intendono. Esce, così com'è entrato, col cuore stretto, e per poco non piange di dolore e di rabbia. Gli pareva assai duro, mentre consacrava la sua esistenza al suo popolo e alle più alte idealità del nostro tempo, mentr'era [118] già riuscito a serbare bandiera, statuto, vita libera, indipendenza del Regno, non essere accolto a braccia aperte, a cuori aperti, circondato da quella fiducia di tutti, senza la quale era impossibile accingersi all'opera, nell'opera perseverare, l'opera compiere.

Ma in breve si vince: accoglie i deputati losti, Ceppi, Montezemolo, Lanza, Rattazzi e Mellana, eletti dalla Camera per fargli omaggio. E liberamente esprime il suo forte rincrescimento, con parole tutte vivacità e schiettezza, parole atte a disarmare i prevenuti, a persuadere i peritanti, ad inspirare il coraggio di rispondere franchi a chi si esprime franco. E poichè gli dicono essere l'armistizio quello che crea nel Parlamento diffidenza e peggio, e gli manifestano il desiderio che l'armistizio sia revocato, così replica: «Lor signori deplorano tutto questo ed io lo deploro più di loro: loro desidererebbero che si lacerassero quei patti e si ridiscendesse in campo, ed io lo desidero più di loro. Mi diano solamente un quarantamila buoni soldati, ed io domani rompo l'armistizio e vado a cacciare gli austriaci nel Ticino.» Mentre così diceva, gli fiammeggiavano gli occhi. Uscirono i deputati dalla Reggia rispettosi, ammirando la ingenua fierezza del giovane principe, che veramente li meravigliò come cosa inaspettata: più ingegnoso, più ambizioso, più avveduto degli altri, Urbano Rattazzi [119] forse pensava al futuro primo ministro d'un tal Re e probabilmente fu da quel giorno che a quel Re si votò con devozione profonda, prima segreta, poi manifesta. Ma tornati che furono a Palazzo Carignano, eccoli travolti tra la bufera che v'imperversa: e una bufera pareva trascinasse tutto il paese a ruina ed estrema. Insorgeva Genova, gridando una strana ed effimera repubblica; più non erano finanze, più non era esercito, più non esisteva senso di dovere civile, e il nuovo ministero, creato dopo la catastrofe, si accoglieva dalla Camera ingiuriosamente. Il Delaunay, presidente del Consiglio e generale, si presenta all'Assemblea in assisa militare, colle sue decorazioni e il presidente fra le risa di tutti (colle risa si sfogava l'ira) dice:

- Vorrei sapere chi è quel signore!

- Je suis Delaunay, lieutenant-général.

- Va bene: e in che qualità Ella viene fra di noi?

- En qualité de président des ministres da Roi Victor-Emmanuel. -

E poi vòlto alla Camera:

- Messieurs.... - egli incomincia.

- Un momento - interrompe il presidente - mi domandi prima la parola. -

E qui nuove risa e ogni sorta di atti di scherno.

Peggio accade quando Pier Luigi Pinelli, ministro [120] dell'Interno, sale alla tribuna per leggere i patti dell'armistizio. «Morte ai traditori!» s'urla d'ogni parte. «No, no; è una viltà, vogliamo guerra a morte, guerra a coltello!.» Per queste furie fu necessità disciogliere la Camera, convocarne un'altra e discioglierla di nuovo, dopo poche sedute, che per primo atto aveva eletto a suo presidente Lorenzo Pareto, uno dei ribelli di Genova, cui il Re era stato largo di perdono. «Ma se io ho dimenticato» diceva il Re e scriveva «essi non dovevano dimenticare.» E fu necessità cangiare il primo ministro, vincere lo riluttanze, le resistenze di Massimo d'Azeglio, convincerlo, spingerlo, obbligarlo quasi ad assumere il potere. E l'assunse, inviso ai reazionari che odiavano il gran signore originale e democratico, l'artista che si faceva pagare i suoi quadri, il romanziere, il giornalista, il ferito di Vicenza, il piemontese ch'era lombardo a Milano, toscano a Firenze, romano a Roma, italiano dovunque; inviso ai rivoluzionari che lo sapevano fermamente deliberato a non dar tregua nessuna alla demagogia, a far politica di conservatore, a fare quella pace coll'Austria, senza la quale non potevasi chiudere l'era delle agitazioni, il periodo dell'anarchia in cui era caduto lo Stato, e che si voleva continuasse.

La verità frattanto, lenta ma certa, cominciava [121] ad aprirsi la via, e un avvenimento doloroso rivelò quale fosse il sentimento del popolo, assai diverso, come spesso accade, da quello che s'agitava negli uomini della politica.

Il Re infermò e così gravemente, che fu mestieri affidare il reggimento della cosa pubblica al duca di Genova, e forte sgomento, forte dolore penetrò nell'animo di tutti e furono istanti d'ansia crudele come se un nuovo male, peggiore d'ogni altro, stesse per piombare sulla patria. S'intuì che la salvezza e la fortuna del Regno eran cose collegate strettamente alla salute e alla vita del Re. Già cominciava a penetrare nei piemontesi e nelle altre genti italiane il pensiero che Vittorio Emanuele era un uomo necessario: «Voi sarete solo» gli aveva minacciato il maresciallo Radetzky: ma era veramente questo esser solo, il grande argomento per cui le speranze sorgevano e andavano a lui. Ovunque i principi violavano gli statuti del 1848, si sottomettevano al vassallaggio austriaco, anzi lo desideravano, anzi lo imploravano, chiusi tutti nelle rinnovate consuetudini d'una tirannide stolta e paurosa, certi, per quanto avveniva fuori d'Italia, che il principio di nazionalità non potesse più risorgere. Ed egli invece, stava solo al posto che aveva eletto, a capo d'un popolo piccolo e vinto, sopra un trono mal sicuro, ripetendo a tutti che aveva giurato e voleva mantenere i giuramenti, affermando ch'era [122] principe italiano e che la sua era bandiera italiana, non isfuggendo gli ostacoli, affrontandoli anzi animosamente con una grande lealtà di parole e di azione unita a una grande e incrollabile fermezza.

Ma mentre appariva questo principio di giustizia nella opinione dei più, si stimò necessario un ultimo atto e solenne per significare il pensiero dei Re e provocare un'indubbia manifestazione del popolo. Con modo inusato nei reggimenti costituzionali, ma legittimato da quella reverenza e da quell'affetto che per tradizione più volte secolare, i popoli subalpini nudrivano verso la Casa di Savoia, legittimato dalla condizione, singolarmente grave, in cui tuttora versava il Regno, legittimato dai pericoli esterni ed interni che parevano minacciare e minacciavano la Monarchia, il Re si volge ai cittadini e chiede loro, con parola amorevole e severa, un atto di buona e patriottica volontà. «Ho promesso salvare la Nazione dalla tirannia dei partiti, qualunque siasi il nome, lo scopo, il grado degli uomini che li compongono. Questa promessa, questo giuramento lo adempio disciogliendo una Camera diventata impossibile: li adempio convocandone un'altra immediatamente: ma se il paese, se gli elettori mi negano il loro concorso, non su me ricadrà oramai la responsabilità del futuro e dei disordini che potessero avvenire; non avranno a dolersi di me, ma avranno a dolersi di loro.»

[123]

Queste parole e le altre che parvero di colore oscuro, scritte nel proclama di Moncalieri, agitarono profondamente gli animi già agitati di quel tempo: che si voleva? che si chiedeva? che si minacciava? Poichè ormai si comincia anche fra noi a formare una leggenda intorno agli avvenimenti primordiali del risorgimento nostro, dice codesta leggenda che l'effetto del proclama di Moncalieri sarebbe stato grande e fulmineo. Le testimonianze che si possono raccogliere affermano invece il contrario: fu uno stupore, ma non si ebbe una vittoria immediata. Anzi venne la vittoria, quando lo stupore cessò e la gente incominciò a ragionare: a poco a poco si comprese che si era veramente giunti sull'orlo del precipizio, e che bisognava prontamente, energicamente ritirarsi: si comprese che il Re, pure iniziando un grande movimento di conservazione, rimetteva alla coscienza del popolo il giudizio intorno alla condotta del governo e la deliberazione intorno alle sorti dello Stato. E il popolo, che incominciava ad amare il Re finalmente lo intese e come doveva rispose.

La nuova Camera sorse appunto colla missione di chiudere la triste istoria del passato e di preparare il futuro. Si era salvi: e la salvezza parve opera della Nazione ed era. Ma chi aveva guidato la Nazione, chi aveva eletta la buona via in momenti supremi d'angoscia, chi aveva creduto quando [124] nessuno più credeva, chi non aveva disperato mentre tutti disperavano?

Tale il primo periodo fortunoso e tempestoso d'un Regno, cui il destino apparecchiava tante glorie e tanti trionfi: pure è illuminato da una poesia triste e virile, e se poi, per effetto di grandi avvenimenti, il Re parve più grande, mai fu grande veramente come in questi primi istanti di cimento e di pericolo, nei quali fu mestieri che il giovane principe dimostrasse tutta quella costanza, tutta quella fermezza, tutta quella lucida conoscenza e degli uomini e delle cose che solamente gli anni e le prove e l'esperienze e anche gli errori insegnano, ma che in lui, per fortuna della nostra patria, erano natura.

* * *

Da allora in poi cominciarono tempi nuovi: fu una vigilia operosa, lieta, fortunata, nè la storia conosce sin qui un periodo che le si possa paragonare pur da lontano: il piccolo Regno trascorre da audacia in audacia, sorgono nello Stato intelletti poderosi, anime gagliarde, si preparano e si compiono gesta meravigliose; il Re subalpino, il parlamento subalpino diventano l'oggetto dell'attenzione sempre crescente, dell'ammirazione di tutta Europa: si aspetta, si teme, si spera dovunque alla vigilia d'un discorso della Corona: le [125] parole che pronunziano alla tribuna Massimo d'Azeglio o Camillo di Cavour, provocano le polemiche della stampa, i dibattiti delle altre assemblee, le manovre della diplomazia, i raggiri delle Corti, le dimostrazioni dei popoli, le note, le proteste, le lodi, gl'inni, gli entusiasmi, i biasimi, i rancori, le paure. Il duello che incomincia fra lo Stato piemontese che assume il diritto di parlare in nome d'Italia al cospetto di tutti i popoli, e l'Austria possente d'armi, orgogliosa di vittorie, ordinata mirabilmente come strumento di minaccia e di repressione, diventa lo spettacolo più drammatico e più bello che si sia mai rappresentato sulla scena del mondo. Formidabile partita, formidabile in quanto le forze sono enormemente sproporzionate, in quanto, ad ogni tratto, uno degli avversari pare stia per rovesciarsi contro l'altro per distruggerlo, per schiacciarlo, mentre quello che pare più debole non cede mai, anzi provoca ed offende e colpisce. Pare il Piemonte si faccia ad ogni istante più forte e più temerario, nel fervore e nell'emozione della lotta: un'aura di poesia e di giovinezza avvolge tutta la politica, sono parole vibranti, sono atti virili, sono promesse e sorrisi. Sintetizzate le immagini di quel tempo, e non vedrete che un ondeggiare festoso di bandiere al vento e sotto il sole, e non udrete che plausi ed acclamazioni frenetiche di gioia, mentre fra i silenzi profondi delle [126] altre regioni italiane, tutti si volgono tacitamente sperando verso la Reggia di Torino e salutano e aspettano.

Innanzi a tutti è il Re, il Re popolare, il Re cacciatore, il Re soldato, il Re giovane e robusto, il Re che scende fra la folla, parla e scherza nel dialetto nativo, sale sulle vette ardue delle patrie montagne, diventa l'idolo dei pastori e dei contadini, com'è l'idolo dei soldati e degli operai. È Re sul trono, talvolta severo, talvolta terribile, e il suo sguardo sdegnato è di quelli che non si possono sopportare: ma più spesso, colla bontà e colla schiettezza dei modi e delle parole avvince i cuori, persuade le coscienze, supera gli ostacoli, appiana le difficoltà, rompe gl'indugi, fa tutto quello che vuole. Il ministro ch'egli ama, di cui si fa l'amico e il compagno, è Massimo d'Azeglio. «Ciao, Massimo....» gli dice o gli scrive: lo ha avuto al suo fianco nei gravissimi giorni delle prime prove, lo vorrebbe sempre al suo fianco, cavalleresco, spiritoso, esperto della vita, spregiatore d'ogni cosa volgare, spregiatore (e quanto!) del denaro, galante colle signore, anima di soldato, che si mette a capo della forza armata, vestito da colonnello di cavalleria per reprimere una dimostrazione tumultuosa. Vede sorgere Camillo di Cavour e pone sull'avviso l'amico: l'empio rivale, come lo chiamerà poi il d'Azeglio, batte alla porta: «Non è il suo tempo, verrà il suo [127] tempo» dice il Re, e quando il d'Azeglio lo propone a lui, consenzienti gli altri ministri, come ministro di Agricoltura e Commercio, il Re dice ai suoi consiglieri: «Giacché lor signori lo vogliono, non ho difficoltà a nominarlo, ma questo signore li manderà via tutti.» Si divide con rincrescimento e dopo molta riluttanza dal d'Azeglio, che lo aveva battezzato Re galantuomo. - Massimo gli disse un giorno: «Ve ne sono stati così pochi nella storia di re galantuomini, che sarebbe veramente bello cominciare la serie.» E il Re gli chiede: «Ho da fare il Re galantuomo?» Massimo soggiunse: «Vostra Maestà ha giurato fede allo Statuto, ha pensato all'Italia, non al Piemonte; continuiamo di questo passo a tener per fermo che, a questo mondo, tanto un re quanto un individuo oscuro non hanno che una sola parola e che a quella si deve stare.» Il Re pensa un istante, e poi dice risoluto: «Ebbene, il mestiere mi par facile.» E Massimo afferma lietamente: «Abbiamo il Re galantuomo.»

Ma Camillo di Cavour, col favore anche di una certa indolenza, di un certo signorile scetticismo che governavano il d'Azeglio, specialmente nelle faccende d'ogni giorno, era diventato tutto: da ministro di Agricoltura e Commercio, ministro delle Finanze e reggeva di fatto la presidenza del Consiglio. Mentre il d'Azeglio parlava di rado e di mala voglia e di rado correva alla pronta risoluzione d'un [128] dibattito, il Cavour sempre stava sulla breccia e d'ogni questione indovinava l'aspetto politico e sopra ogni questione esprimeva quello che gli altri credevano il pensiero del gabinetto e in realtà era pensiero suo e suo solamente: i colleghi lo ascoltavano prima meravigliati, poi impacciati, e in fine non osavano ribellarsi e accettavano ogni cosa; spirito indemoniato, infaticabile, provvedeva a tutte le combinazioni della politica, a tutte le necessità d'ordine parlamentare, cercando, finché gli riusciva, di procedere di conserva cogli altri ministri, ma spesso facendo a suo modo, con una scioltezza e una strana libertà di azione, che facevano di lui il collega pili simpatico e insieme più incomodo che fosse al mondo.

La sua ora s'avvicinava veramente, anzi era di già suonata, e il Re comprese a tempo che l'uomo era necessario a lui, al Piemonte, all'Italia. E gli serbò inalterata fiducia sino all'armistizio di Villafranca. Camillo di Cavour circondava il Re d'un rispetto profondo, e, così grande com'era, desiderava piuttosto apparire l'inspirato che l'inspiratore ed anche in questo, come in tutto, riusciva. Certo è che talvolta gli prendeva la mano quel suo temperamento passionale e le parole correvano a fiotti e s'agitava e fremeva, e, distratto per eccellenza, d'ogni cosa si dimenticava, anche di alcune regole elementari di etichetta: ma sotto lo sguardo fiero [129] ed ardente del Re subito si vinceva, e si rammentava che il Re era la prima e fondamentale condizione della sua politica.

E che cosa fosse veramente il Re mostrarono le lotte fra lo Stato e la Chiesa, che talvolta ebbero un'acutezza quasi inesplicabile per noi: la Corte vaticana non voleva tollerare in Piemonte quello che sopportava tranquillamente, anzi riconosceva in tutti gli altri Stati civili: non voleva sapere nè di abolizione di foro ecclesiastico, nè di matrimonio civile, nè di soppressione di corporazioni religiose; e la coscienza cristiana del Re soffriva fieri assalti; s'agitavano nell'ombra confessori e prelati, si minacciavano scomuniche, le pie regine supplicavano «Ma mère et ma femme» scriveva il Re «me font dire qu'elles se meurent de chagrin à cause de moi: vous comprenez le plaisir que cela me fait.» E muoiono a pochi giorni di distanza e muore il duca di Genova, il forte capitano che pareva predestinato a condurci alla vittoria: quanti di noi hanno amato e sofferto possono comprendere che grandezza d'animo era necessaria per resistere a così terribili e replicati colpi del destino e trionfarne, mentre bugiardi sacerdoti osavano dire che questi erano castighi di Dio! Ma altro Dio era quello di Vittorio Emanuele, Dio di giustizia e di verità, di cui adorava i decreti, sempre ascoltando l'austera voce del dovere [130] che gli favellava nell'animo. Anche questa volta vinse, anche questa prova vinse, e con lui fu vittorioso Camillo di Cavour, l'inspiratore e l'autore della grande politica nazionale e liberale, che tanto innalzava il Piemonte al cospetto d'Europa.

E vennero i giorni di Crimea, le vittorie militari, i marziali eroismi, la causa d'Italia per la prima volta sostenuta in faccia ai rappresentanti delle potenze di questo mondo, in faccia al rappresentante dell'Austria dalla parola del grande ministro: avemmo un esercito, un'amministrazione, una diplomazia, fiorirono industrie e commerci, s'iniziarono opere gigantesche, quali il traforo del Cenisio e l'arsenale di Spezia, si preparò e si ottenne la guerra all'Austria coli' alleanza francese. Il Re annunzia di non essere insensibile al grido di dolore che d'ogni parto d'Italia si leva verso di lui, e, quando l'ora sta per suonare, ritraendosi Napoleone III dalle sue promesse per maligno influsso di cortigiani e per naturale e quasi morbosa incertezza d'animo, egli grida che farà come suo padre e rinunzierà alla corona e diventerà puramente e semplicemente Monsù Savoia e diventerà repubblicano. Finalmente l'Austria commette lo sperato errore, e dopo lunga provocazione provoca a sua volta noi. Il feldmaresciallo Giulay, duce supremo dell'esercito austriaco in Italia, manda alle sue milizie un ordine del giorno ove questo si legge:

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«L'imperatore vi ha chiamati sotto le armi onde abbassare per la terza volta l'albagia del Piemonte e snidare dal loro covo i fanatici sovvertitori della quiete generale d'Europa.»

E il Re scrive al Cavour:

«Caro Cavour,

«L'ordine del giorno è una vera dichiarazione di guerra. Credo che di conferenze non si discorrerà più. Sono pieno d'ira! La prego di mandare in mio nome un dispaccio cifrato al principe Napoleone così concepito: Ti comunico l'ordine del giorno dato all'esercito austriaco dall'Imperatore: fa' le opportune riflessioni. Caro Cavour, mi scriva qualche cosa. Vorrei fare le cannonate questa sera.»

E giungono a Torino gl'inviati austriaci coll'ultimatum: la Camera si riunisce in tornata straordinaria, il Cavour propone siano dati al Re pieni poteri. Con un impeto, notato nelle pagine del resoconto ufficiale, ma di cui a tant'anni di distanza, indoviniamo tutta la potenza, tutta la commozione, l'uomo immortale esclama: «E chi, chi può essere miglior custode della nostra libertà? Chi più degno di questa prova di fiducia della Nazione? Egli, il cui nome dieci anni di regno fecero sinonimo di lealtà e d'onore, egli che tenne sempre alto e fermo il vessillo tricolore italiano, egli [132] che ora si apparecchia a combattere per la libertà e per la indipendenza!» E uscendo dal palazzo Carignano, traversando la folla che gridava freneticamente «Viva il Re!» disse: «Esco dall'ultima tornata dall'ultima Camera piemontese, la prossima sarà quella della Camera del Regno d'Italia.»

E il Re tornò soldato e lo videro lanciarsi a Palestro sulle schiere austriache, invano rattenuto dagli zuavi francesi, e lo videro a San Martino guidare le nostre fanterie all'ultimo cimento. A Villafranca tutto parve perduto: Cavour si ritrasse pieno di sdegno e d'amarezza, egli restò al suo posto, fidente nella stella che i suoi avi avevano atteso, e che suo padre aveva salutato fra i martirii e le speranze. Lo videro poi trionfante le città della penisola, Milano, Parma, Modena e questa gloriosa Firenze e poi Napoli immensa e Palermo ridentissima: e mentre, promessa del destino, aspettavano Venezia e Roma, il parlamento italiano lo consacrava Re d'Italia.

* * *

Questo, dirò ancora una volta, è finora il capitolo più bello della nostra storia: nulla è mancato a noi: nè il genio degli statisti, nè la virtù dei guerrieri, nè la sapienza civile, nè la maravigliosa concordia, nè il trionfo rapido, insperato, grandioso. Lo aveva divinato nelle stupende pagine del Rinnovamento [133] Vincenzo Gioberti, lo aveva compreso Daniele Manin convertito, mentre la sventura lo assaliva e non l'opprimeva, alla fede nella monarchia nazionale; lo aveva intuito Giuseppe Garibaldi che innalzò il grido «Italia e Vittorio Emanuele» col quale si è ricostituita la patria. Fu un grande capitolo: e di fronte a questo, gli altri appaiono o scialbi piccoli o cattivi. Tutte l'energie che l'Italia aveva accumulate in secoli di dolore si sprigionarono d'un tratto, e sorse un'Italia che nessuno conosceva. Ma tutto il capitolo rimarrebbe inesplicato, ove non apparisse il protagonista, l'eroe che seppe e volle, che sperò per tutti, che soffrì per tutti, che vinse per tutti. Gli altri grandi principi fondarono Stati: egli fondò una Nazione: ecco la parola della sua gloria: ecco perchè questa gloria è immortale.

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