Ingegno fortissimo e anima fiera, fantasia ignara di freni e volontà sdegnosa di ostacoli: ecco le qualità che sortì da natura il Guerrazzi. L'educazione rigida avuta in famiglia e l'istruzione pedantesca ingozzata in iscuola, le molteplici e multiformi letture fatte da lui giovanissimo e i casi della sua vita agitata fin dai prim'anni, finirono poi di foggiarlo quale egli ci appare, co' suoi pregi e co' suoi difetti, in tutta l'opera sua di scrittore e di cittadino. E i pregi furono in lui certamente più grandi dei grandi difetti, i quali il più delle volte non erano che una esagerazione delle sue stesse virtù. Così l'orgoglio fierissimo, che parve quasi la Musa inspiratrice d'ogni suo atto e d'ogni suo scritto, fu in lui consapevolezza eccessiva, ma spesso legittima e provocata, del proprio valore; e quella sua stessa ambizione, che parve a molti così smoderata, non fu che un eccesso di quel nobile amore di gloria che lo infiammava, di quel foscoliano furore di inclite geste che il padre suo ed il suo Plutarco gli avevano acceso nel cuore sin da fanciullo.
Natura eroica, come bene fu detta, era davvero [152] codesta dell'aspro fanciullo, fatto sempre più aspro dai rimproveri e dalle percosse che, invece di carezze e di baci, gli dava sua madre. E in quell'eroica natura, in quell'ardente fantasia solitaria, in quell'anima tutta chiusa in sè stessa nè mai confortata d'alcuna dolcezza domestica, è facile immaginar quali semi dovesse gittare ogni giorno quel padre severo, quel padre taciturno, che parlava soltanto per citare a' figliuoli esempî di Plutarco e sentenze di Dante; è facile giudicar quali germi dovesse andare svolgendo in quell'indole un padre che gli brontolava all'orecchio, parlando di Tacito: «Costui scrisse storia col pugnale; valeva meglio piantarlo nel cuor dei tiranni!»
Questo l'ambiente familiare nel quale cresceva il fanciullo Guerrazzi, e in cui si veniva temprando il carattere che doveva poi stampar tutto l'uomo sì fortemente, da renderlo segno d'inestinguibile amore e di odio non anche domato.
Gl'istinti eroici della sua focosa natura, che lo traevano a tutto ciò che è solenne ed antico, e l'antiquata accademica disciplina a cui fu sottoposto da' suoi maestri di lettere, ci spiegano in parte il suo stile, cioè il carattere dello scrittore.
Il primo di tali maestri, e quello di cui egli serbò più grata memoria, fu il Padre Spotorno, barnabita, rappresentatoci dal Guerrazzi come un Robespierre letterario del 500, che ad ogni ombra [153] di modernità arricciava il pelo come istrice, e che gl'insegnava la lingua «come s'ingrassano i luci: uno imbuto in gola, e poi giù una ramaiolata di Bembo, di Casa, di Baldassar Castiglione, e via discorrendo». E di siffatti metodi d'insegnamento restarono sempre le tracce evidenti nella forma letteraria che piacque al Guerrazzi e che ebbe sì lungo codazzo di imitatori: forma che ha la copiosa ricchezza di lingua e il periodo latineggiante dei cinquecentisti, e qualche volta, come nella Serpicina, l'arcaica semplicità dei trecentisti migliori, ma che di latineggiante e di arcaico sa sempre troppo: forma che si compiace di uno stile magnifico, in cui l'ideale eroico del poeta si drappeggia come in un paludamento o in una clamide; forma artificiosa di un artificio che in lui diventò una seconda natura, sì che perciò, italianissima sempre, potè essere spesso eloquente davvero e mirabile d'impeto e di vigore; ma che, insomma, artificiosa fu molto, ed a noi apparisce oramai come una specie di anacronismo.
Chè se si obiettasse come gli stessi metodi pedanteschi e accademici, comuni allora dal più al meno a tutte le scuole italiane, non abbian prodotto in altri scrittori moderni, anche anteriori al Guerrazzi, gli effetti e i difetti che produssero in lui, sarebbe ovvio rispondere che le medesime cause operano diversamente su anime e ingegni diversi. E il [154] Guerrazzi, con quella sua anima antica e con quell'ingegno grandissimo ma squilibrato, non che assimilarsi quel primo nutrimento di classiche forme, ne ebbe per tutta la vita una specie di pletora, e byroneggiò cruscheggiando.
Ed ecco un altro lineamento caratteristico e definitivo della sua fisonomia di scrittore, la quale, se posso sciupare un verso di Dante,
Da Byron prese l'ultimo sigillo.
e ne rimase improntata per sempre.
Una mente ardita com'era quella, non poteva, per quanto classicheggiante, restare insensibile e chiusa alle novità dei romantici, che tanto contributo di forme più immaginose e di più libere idee andavan portando nella moderna letteratura europea. Non per nulla il discepolo dei Barnabiti aveva letto, anzi divorato, Ossian insieme ad Omero, la Radcliffe insieme all'Ariosto, e ne aveva avuta una specie di febbre al cervello. Calmato il fermento di quella febbre, il futuro autore della Battaglia di Benevento dovette sentire con senso più chiaro quel vivido soffio rinnovatore che il Goethe e lo Schiller, lo Shelley ed il Byron, lo Chateaubriand e la Staël avevano spirato anche di qua dalle Alpi, e che di qua dalle Alpi andava ingrossando in un vento di rivoluzione. E il Guerrazzi conobbe le letterature straniere, e ne derivò nuovi elementi di humour [155] alla sua natural vena sarcastica, che doveva essere una delle sue forze maggiori così nella vita come nell'arte, e che fece di lui il più tagliente motteggiatore d'Italia. Ma quella che investì il giovinetto con soffio più largo e possente, e non tutto benefico, fu, senza dubbio, la poesia di Lord Byron.
A Pisa, dove il Livornese era andato a studiare Giurisprudenza, vide il poeta famoso, ne lesse i poemi, e ne ebbe come la vertigine dell'abisso. Egli stesso più tardi, con calde e iperboliche immagini, ci narrò nelle sue Memorie lo sbigottimento che gli cagionò la rivelazione di quella poesia e di «quell'anima immensa», e confessò, se ce ne fosse stato bisogno, che per molti anni non vide più e non sentì più che a traverso a quella poesia e a quell'anima. - Frutto immediato di tanta impressione furono certe sue ottave A Giorgio Byron, pubblicate una sola volta a Livorno, e dimenticate poi dall'autore. Ma l'influenza byroniana rimase pur troppo in quasi tutta l'opera sua narrativa, e La battaglia di Benevento non fu, si può dire, che lo scoppio improvviso di quel byronismo satanico, che ormai gli era entrato nel sangue come un veleno. E il Guerrazzi, che già vi era disposto naturalmente, assorbì quel veleno in maniera da averne colorati i fantasmi, i caratteri, le passioni sue e de' suoi personaggi in quel primo romanzo, alterata l'originale spontaneità dell'ingegno privilegiato, [156] e falsata in gran parte la forma di quella sua prosa poetica, di quel suo lirismo convulso, di cui con ragione fu detto, che ha del byroniano e del biblico.
E biblica è anche davvero, specialmente nei romanzi maggiori e più celebrati, l'intonazione dello stile guerrazziano lussureggiante di immagini, perchè spesso il poeta (ed ecco la vera sua gloria!) tutto inteso a risuscitare la vita sopra una terra di morti, si erige profeta di libertà; e allora egli sembra Mosè precinto di tuoni e di lampi sul Sinai, allora egli sembra Ezechiello che gridi: Sorgete, ossa aride, su dal sepolcro! Perchè noi, o Signori, abbiamo troppo dimenticato che l'arte non fu pel Guerrazzi un'estetica dilettazione da offrire agl'ignavi d'Italia, ma squillo di guerra contro chi dava all'Italia catene e patiboli. Sbagliò, e ho già detto che sbagliò molto, nei mezzi formali che credè meglio acconci a raggiunger quel fine; ma il fine fu altissimo sempre, e degno di lode immortale. E nel fine politico ch'ei si propose, e che non si stancò mai di ricordare in ogni suo libro, di confermare in tante sue lettere, è un'altra grande ragione de' suoi difetti ed eccessi di artista, moltissimi dei quali furono appunto gli eccessi e i difetti d'un uomo, che scriveva dei libri perchè non poteva combattere delle battaglie.
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