LE PRIME GLORIE DI GIUSEPPE VERDI

CONFERENZA

DI

PIETRO MASCAGNI.

tenuta a Firenze il giorno 14 aprile 1900.

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Tutte le volte che entro nel Teatro «alla Scala» di Milano, mi fermo all'atrio a guardare le quattro statue di marmo che rappresentano i nostri sommi maestri melodrammatici: Rossini, Bellini, Donizetti e Verdi. E tutte le volte provo una medesima, stranissima sensazione, che mi forza ad ammirare le figure di Rossini, di Bellini, e di Donizetti, mentre, nello stesso tempo, mi rende uggiosa, quasi antipatica, l'effige di Verdi. Ho tentato di giustificare la mia sensazione invocando l'estetica. - Infatti: quell'abito a coda di rondine, quel rotoletto di musica fra le mani e quel paltoncino ripiegato sul braccio sinistro possono dar campo a qualsiasi ribellione del gusto artistico. Ma non sono riuscito a capacitarmi, perchè, volgendo appena lo sguardo, ho veduto la statua di Rossini colla mazza nella destra, l'enorme cappello a staio nella sinistra, ed il portamusica attaccato ai polpacci.

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La ragione del mio strano sentimento non deriva dalla espressione artistica degli scultori. Ammiro profondamente le figure di Rossini, di Bellini e di Donizetti, perchè sono il simbolo rappresentativo di tre genii che io non posso conoscere di persona; mentre detesto un Verdi di marmo quando lo posso venerare in carne ed ossa, bello e florido come il destino benedetto lo conserva all'amore dell'Italia nostra.

Forse però, quella statua è di buon augurio. Rammento un tipo originalissimo della mia Livorno che, per avere lunga vita, si fece preparare la tomba e ci fece mettere sopra il suo busto in marmo, opera pregevole e rassomigliantissima. Tutti i giorni, prima di colazione, quel bel tipo se n'andava fino al Camposanto, fissava a lungo la sua effigie, ed esclamava: «Per oggi mangio io.»

E vinse tanto bene la scaramanzìa, che, quando morì, dovettero cambiargli il busto perchè.... non gli somigliava più.

E speriamo che così sia della statua di Verdi; per quanto io credo che si potrebbe di già cambiare, perchè fu inaugurata nel 1881. Per lo meno, non si potrà dire che Verdi, nella sua vita, abbia avuto un quarto d'ora di statua.

Ma, nel dire tutto questo, non intendo menomamente di diminuire l'importanza che ha e che merita il fatto, nuovo nella storia dell'arte, di un [89] onore così grande reso ad un vivo. Anzi, aggiungo che non si poteva con nessuno, meglio che con Verdi, che è la più grande gloria vivente, rompere il pregiudizio e distruggere alla fine i due noti versi di Orazio, parafrasati troppe volte dai poeti di tutti i tempi e di tutti i paesi:

Virtutem incolumem odimus

Sublatam ex oculis quaerimus invidi.

Però, a me ora pare di essere qui a fare la figura della statua di marmo dell'atrio della «Scala.» Qualunque cosa io possa dire di Verdi, sia pure (magari per combinazione) superiore nel concetto ed elevata nella forma, apparirà sempre povera o piccina alla mente delle gentili signore e di tutti gli egregi qui convenuti, se ciascuno richiami appena nel pensiero la nobile fisionomia del nostro grande maestro.

Ed io non tenterò nemmeno di riuscire eloquente nel mio discorso. Sarebbe vana fatica. Già, prima di tutto, non ne sarei capace; eppoi, a che cosa mi servirebbe? Quale eloquenza può sussistere di fronte all'opera immensa di Giuseppe Verdi? Quale eloquenza può sostenersi al cospetto della sua persona, sintesi vivente delle sue creazioni, che ha portato superbamente fino ai giorni nostri i ricordi più belli dell'entusiasmo dell'arte e del patriottismo?

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La vita, la storia artistica di Verdi parrebbe una leggenda, se ancora non fosse fra noi Lui, maraviglioso documento di quelle vicende che saranno credute favolose dalle future generazioni.

Ne ho letto di libri su Verdi! Ne ho letto di storie, di episodii, di aneddoti! Ma tutto mi è apparso infinitamente scialbo e meschino, quando mi sono trovato alla sua presenza. Il suo solo sguardo mi ha detto delle cose, mi ha suscitato nel cuore dei pensieri che non ho mai trovato, che non troverò mai in nessun libro.

Ed in questo momento l'animo mio è tutto pieno di quelle memorie, ma rimane paralizzato dalla coscienza della propria inettitudine ad esprimere i sentimenti troppo alti.

Chiedo, dunque, venia al cortese uditorio per tutto quello che nel mio dire apparirà disadorno ed anche non conveniente al soggetto ed all'uomo di cui si tratta. Resti nella mente di tutti soltanto l'idea dell'omaggio reverente che ho voluto tributare, accettando, forse con leggerezza, ma certo con tutto il cuore, l'incarico di questa conferenza.

A Verdi ho già domandato anticipatamente il perdono per l'atto che sto per compiere. Perchè sono sicuro di dargli un dispiacere. Ei non vorrebbe che si parlasse mai di Lui.

Quale è la persona che non ha sentito parlare della modestia di Verdi?...

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Ma, a questo proposito, debbo fare una osservazione.

Sono già parecchi anni che io studio la modestia degli uomini (colla modestia delle donne non ho mai scherzato!), e potrei raccontare molti aneddoti che mi hanno sempre confermato le diverse qualità di modestia. Ma mi fermerò ad uno solo, che mi serve precisamente alla dimostrazione che voglio fare.

Un giorno del 1882 (anch'io comincio a citare epoche remote!) mi trovavo a Milano in casa del mio illustre maestro Amilcare Ponchielli, quando si presentò un giovane musicista che voleva sottoporre al giudizio del Maestro una sua composizione. Ponchielli non era punto di buon umore: afferrò sgarbatamente il fascicoletto che il giovane gli porgeva, e si mise a scorrerne le pagine, mugolando e borbottando. Il giovane musicista attese ansioso qualche minuto; e poi timidamente disse al Maestro: «Si tratta di un pezzetto senza importanza; una cosetta buttata giù alla meglio.» Ponchielli alzò la testa e, maltrattandosi terribilmente il pizzo caratteristico, si mise a gridare: «Ah, sì?... Si tratta di una cosetta?... Vuol fare il modesto forse?... E perchè è venuto a mostrarmi questo nonnulla?... I compositori debbono sempre aver fede nell'opera propria, e debbono sempre stimare capolavori le loro composizioni.... Io non amo la falsa modestia.» [92] E riprese a sfogliare le pagine, mugolando e borbottando. Il giovane era rimasto stecchito. Dopo poco, Ponchielli rialzò la testa e parve rabbonito. Restituì il fascicolo all'autore, e gli disse quasi dolcemente: «Lei è modesto; ma il suo lavoro è più modesto di lei.» Il giovane se n'andò subito, profondendosi in inchini ed in ringraziamenti; e mi parve che avesse preso per un complimento l'ultima frase di Ponchielli.

Per parte mia, da quel giorno, ho cercato tutti i modi per non essere modesto....

Ma, intanto, avevo potuto studiare questo caso di modestia che credo sia il più diffuso: un imbecille che fa il modesto davanti ad un uomo superiore, col solo fine di ottenere un elogio da lui, e di credersi, nella stupida vanità, a lui ed a tutti superiore.

Guardiamo invece, per sommo contrasto, la modestia degli uomini veramente grandi, quella modestia che è il solo raggio che si possa aggiungere alla gloria!

Verdi, togliendo anche di mezzo l'indole naturale, deve essere modesto per forza: perchè nessun inno di lode potrà destare in Lui il più piccolo sentimento di orgoglio: anche l'inno più grandioso sarà meschino agli occhi suoi.

Come potrà mai sentire ricordata la sua vita gloriosa, come potrà mai sentire raccontati tutti i [93] suoi trionfi, senza che la sua mente non veda impallidita dal ricordo quella vita da lui stesso vissuta, senza che il suo cuore non trovi rimpiccioliti dal racconto quei trionfi da lui stesso riportati? È facile, dunque, comprendere lo stato di inquietudine dell'animo mio in questo momento: al dubbio di riuscire gradito al colto pubblico va aggiunta la certezza di dispiacere a Verdi.

A buon conto, gli ho chiesto perdono anticipatamente; ma non oso sperare di passarmela liscia. Me la potessi almeno cavare con una lavata di testa!...

Oggi io non devo parlare genericamente di Giuseppe Verdi e di tutta la sua luminosa produzione: l'attuale conferenza è limitata da due date, che nell'arte del nostro Grande e nella storia della nostra Nazione rappresentano due epoche. Dal 1849 al 1861: quale stupendo periodo di arte e di patriottismo! E quale mirabile fusione di nobili sentimenti nella espressione dell'anima e del genio di Giuseppe Verdi!

Nella visione subitanea dello svolgimento di tutto il periodo storico ed artistico, la mia mente, forse per effetto di costante ammirazione o forse per effetto di spontanea ispirazione, vedo tre punti capitali sui quali deve soffermarsi per la dimostrazione della sua idea.

E questi tre punti si trovano: al principio, alla [94] metà ed al termine del periodo, che ne resta interamente abbracciato e diviso con simmetria: per quanto, rispetto alla produzione di Verdi, il periodo abbia fine nel 1859.

Primo punto, la Battaglia di Legnano (27 gennaio 1849); secondo punto, i Vespri Siciliani (18 giugno 1855); terzo punto, Un Ballo in Maschera (17 febbraio 1859).

Se l'idea di parlare primieramente e specialmente di queste tre opere può sembrare a prima vista strana o non giustificata, si pensi che devo occuparmi di un periodo della vita italiana tutto pieno di santo amor di patria: e si pensi all'influsso potente che la musica di Verdi seppe esercitare sopra ogni cuore italiano.

Ho scelto i tre punti capitali perchè: il primo rappresenta tutta la trepidazione, tutta la commozione, tutto l'ardore di un popolo oppresso ed anelante alla redenzione; il secondo rappresenta il trionfo dell'arte italiana all'estero, anche esplicata in un soggetto glorioso per l'Italia e nefasto per il paese che lo domanda; il terzo rappresenta il supremo entusiasmo di una nazione intera, che, eccitata dal genio di Verdi, nel nome di Verdi combatte l'ultima battaglia e vince.

Quando scoppiò la rivoluzione italiana del 48, Verdi era a Parigi; alle prime notizie della gloriosa insurrezione di Milano, il suo animo generoso [95] non resse: e partì per l'Italia. Si fermò a Lione dove sapeva di trovare una lettera di un amico che gli doveva dire le ultime vicende della sua patria. Trovò, infatti, la lettera e conobbe il doloroso voltafaccia delle cose. Rattristato dalla delusione della sua fervida speranza di arrivare a Milano e salutare libera la città dei suoi primi successi, restò alcuni giorni a Lione; ed all'amico che gli aveva mandato la sciagurata notizia rispose semplicemente: «Spero che avrete fatto il vostro dovere.»

Ma poi proseguì il viaggio; e giunse in patria per assistere al completo rovescio delle armi italiane.

Col cuore sanguinante tornò a Parigi, mezzo ammalato e stanco. L'impresario Lumley di Londra venne ad offrirgli una generosissima scrittura che Verdi avrebbe accettato subitamente, se l'editore Lucca non glielo avesse impedito rammentandogli il suo obbligo contratto di scrivere un'altra opera, oltre «I Masnadieri» già eseguiti a Londra e con poca fortuna, il che veniva ad aumentare le esigenze dell'editore. (Sempre uguali in ogni tempo i nostri editori!).

Allora Verdi, infastidito e stizzito, scrisse di mala voglia il Corsaro sul libretto del Piave, poveramente tratto dall'omonimo poema del Byron; ed abbandonò la sua partitura senza nemmeno curarsi di sorvegliarne le prove.

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Il Corsaro fu eseguito a Trieste e non piacque; e si accusò Verdi di voluta negligenza: mentre, da altra parte, con più giusto criterio si tenne conto del suo stato d'animo turbato dai dolori cui la patria soggiaceva.

Forse c'entrava anche il dispetto verso l'editore; ma certamente il cuore del Maestro era tutto pieno di tristezza e di angoscia per la sventura italiana: e la mente sua non poteva trovare ispirazione in alcun soggetto, che non gli parlasse dello sconforto e della speranza del popolo d'Italia.

Il sentimento patriottico, in quel momento, fu troppo più forte del sentimento artistico.

Ed in quel momento il genio di Verdi fu pari al sentimento degl'Italiani; e non volle parlare che dell'Italia sua.

E scrisse la Battaglia di Legnano.

Io penso allo slancio infrenabile che avrà guidato Verdi all'inizio della sua nuova creazione; e penso all'ardore ed alla lena nella continuazione del lavoro; e penso alla forte commozione nel compimento dell'opera, che era la spontanea espressione del suo cuore d'italiano e che nei cuori italiani tanto entusiasmo doveva suscitare.

Quel godimento che la folla prova davanti all'opera d'arte, quando l'arte è vera e sincera, è già stato provato a mille doppi dall'artista creatore, dall'artista che esprime il suo sentimento, tutto [97] assorto nella interpretazione ideale, precisa e fedele.

Ma l'opera d'arte deve essere il prodotto genuino dell'ispirazione, il frutto vergine del genio.

Guai se l'artista si lascia vincere dallo scrupolo della teorica! L'opera sua non sarà più sincera. Il caldo paesaggio meridionale si cambierà in nordica e gelata regione.

In arte, il genio è sole e la scienza è neve.

Al solo ricordo del successo immenso, incredibile, che la Battaglia di Legnano ebbe presso il pubblico di Roma, è facile immaginare con quale foga d'entusiasmo Verdi abbia compiuto l'opera sua.

Si sapeva che l'opera aveva un soggetto patrio, d'indole guelfa; ed in quel momento di fermento politico non si domandava di meglio. Gli uomini si recarono al teatro con la coccarda tricolore sul petto, mentre le signore distendevano sui davanzali dei palchetti sciarpe e nastri tricolori.

Fu un delirio! Si gridava insieme Viva Verdi! e Viva l'Italia! E tutti i cuori ebbero insieme ed ugualmente il ravvivamento delle speranze, il rigoglio dell'ardore, il presentimento della patria redenta.

Verdi esultava già di quei pensieri quando scriveva l'opera.

Ma la generazione d'oggi non conosce la Battaglia di Legnano; e non la stima, perchè legge [98] nei libri che fu un'opera d'occasione, d'attualità; e che soltanto il soggetto e la nota politica le diedero unanimità di suffragi ed apparenza di trionfo, [come dice Anton Giulio Barrili]; e che il successo del primo momento fu dovuto anzitutto alla sovraeccitazione degli animi come stampa il Pougin; e che simile musica certo ha ben poco o nulla da vedere coll'arte, come scrive Gino Monaldi.

Certo, se oggi si parla d'occasione, si pensa subito all'inno scritto per l'inaugurazione di una qualsiasi esposizione di oggetti di guttaperca, e se si parla di attualità, si corre colla mente alle mazurke dedicate alla polvere dentifricia o al perfetto smacchiatore.

Ma allora, nel 1849, l'occasione e l'attualità rappresentavano qualche cosa di ben differente. E Verdi non era stato invitato a scrivere la sua opera da nessuna commissione di futuri cavalieri o commendatori. Aveva spontaneamente dato alla patria l'opera del suo genio e della sua anima.

Guardiamo come ne scriveva allora il Basevi:

«Al Verdi, che dal 1842 in poi regna solo in Italia, ben s'addice il nome di rappresentante del gusto musicale del suo tempo. Come tale egli doveva scrivere un'opera corrispondente al nuovo stato degli animi nell'anno 1848. E così fece.... Erano i travagli dell'Italia giunti vicino al loro [99] nodo, quando nel gennaio 1849 fu posta sulle scene in Roma la Battaglia di Legnano

E guardiamo quello che ne diceva il Pallade, giornale di Roma, il 27 gennaio 1849, poche ore avanti della prima rappresentazione:

«La musica, se per lo innanzi, schiava di errati precetti, non valse che a deliziare mollemente gli esterni sentimenti dell'uomo; oggi ne rischiara e ne sublima gl'intelletti; e vestendo più robuste armonie, apprestasi anch'ella ad innestare la sua gemma sulla corona della patria. Non invano dunque il Verdi imprendeva a celebrare la famosa Lega Lombarda, col titolo: La Battaglia di Legnano. Lombardo quale egli è, offre con la penna il tributo che non potrebbe colla spada alla sua patria infelicissima, affinchè dalle ricordanze delle glorie passate prenda ella ristoro delle sventure presenti e presagio dei trionfi avvenire.»

E lo stesso giornale Pallade aggiungeva dopo la prima rappresentazione, il 29 gennaio: «Il «Verdi in questo suo lavoro ha levato il volo alla sublimità. Lungi dall'obbedire alle antiche leggi convenzionali, egli ha sentito che il suo spirito aveva bisogno di libertà, come l'Italia d'indipendenza.»

E più sotto continuava: «Questa Italia oggi ha luogo di attingere dalla severità e robustezza [100] di quest'ultimo patriottico lavoro quell'ardente scintilla che valga a ridestare e spandere il nazionale ordinamento.»

Ecco quello che si pensava nel 1849 della Battaglia di Legnano!

Se oggi, dopo più di cinquant'anni questa musica appare invecchiata agli occhi volubili della critica moderna, non si abbia il facile coraggio di condannarla; ma si pensi che, ai suoi tempi, seppe infondere tanto ardore nei petti degli italiani, e contribuì non poco alla redenzione della patria.

Da qui a cinquant'anni non si parlerà nemmeno di tanta musica che ai giorni nostri pare dedicata dall'ebetismo moderno al godimento inesauribile dei sensi superficiali; o se ne parlerà come una delle cause dell'assopimento intellettuale, dell'impoverimento del sangue e dello snervamento della generazione futura.

La Battaglia di Legnano, in ogni modo, attraverserà il corso dei secoli legata strettamente all'epopea famosa che preparò e compi l'unità d'Italia.

E venga pure il critico supino a dirci che quella musica ha poco o nulla da vedere coll'arte! Altro che arte! Arte prodigiosa! Arte che ha servito all'interesse comune ed alla gloria della Nazione!...

Ma chi m'intende, oggi che l'artista cerca soltanto [101] di curare il proprio interesse.... e quello del suo editore?...

Oh, quanto riusciamo meschini dal confronto dei tempi! Ecco: oggi stesso, a Parigi, si inaugura la nuova grande Esposizione Universale! Da oltre un anno, in Italia si è lavorato con grande attività per trovare il modo di far figurare degnamente la musica del nostro paese nella capitale della Francia ed al cospetto di tutte le nazioni del Mondo. Si è pensato a grandiose riproduzioni dei nostri capolavori melodrammatici; ed al proposito il Panzacchi scrisse alcuni articoli nobilissimi; si è tentato di presentare i nostri migliori artisti della scena; si è escogitato ogni mezzo per mandare a Parigi almeno le nostre buone orchestre; ma a nulla sono riusciti Ministri, Sotto Ministri, Commissioni e Sotto Commissioni. Si è detto che il Governo non può spendere, e chi vuole vada a spese sue.

E fino a questo punto, logicamente, può andare anche bene; perchè la finanza dello Stato non ha mai fatto, o non ha potuto fare, troppe concessioni all'arte nazionale, ed in special modo alla musica. Ma la Francia non ha domandato nulla alla Nazione sorella?...

Nel pensiero di offrire ai visitatori d'ogni paese un magnifico spettacolo musicale, non si è ricordata dell'arte italiana?

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Sono ingenuo, forse, nelle mie interrogazioni; perchè tutti pensano che la Francia ha compositori, artisti ed orchestre da vendere, e non sente alcun bisogno di noi.

Ma è qui appunto il mio grande sconforto.

Anche nel 1855 la Francia aveva Auber, Halévy e Berlioz; ma nell'occasione della Esposizione Universale di quell'anno, volendo offrire al mondo la primizia di un'opera nuova sulle scene del suo massimo teatro lirico, si rivolse all'Italia, a Giuseppe Verdi.

Oh, il disgraziato confronto come sgomenta il cuore!

Ed immagino il dolore grande di Verdi che, alla distanza di quarantacinque anni, ancora vivo e sano, oggi penserà mestamente alla differenza dei tempi e degli uomini.

Facciamo anche noi quello che in questo momento farà Verdi colla sua grande mente: abbandoniamo l'istante che ci rattrista, per ritornare al momento solenne nel quale Giuseppe Verdi consacrava il trionfo dell'arte italiana in faccia a tutti i popoli.

E sono al secondo punto capitale del periodo storico.

Invitato a scrivere un'opera per l'occasione della grande Esposizione Universale del 1855 a [103] Parigi, Verdi accettò l'incarico; e si mise subito d'accordo coi suoi librettisti prestabiliti, per la scelta del soggetto.

Al giorno d'oggi chiunque avrebbe approfittato del favorevole contrattempo per rendere il più alto omaggio alla nazione ospitale, scegliendo con ogni cura il più adatto dei soggetti.

Ed io conosco qualcuno che, pure in circostanza ben dissimile e punto solenne, sta sobbarcando la propria fantasia all'apoteosi cortigiana dello straniero.

Invece Verdi, anche nella maestosità di quel momento, non seppe tradire il suo sentimento e le sue aspirazioni; non seppe dimenticare la Patria Santa a cui l'arte sua pareva interamente dedicata; e scelse il soggetto dei Vespri Siciliani.

Oggi, più che allora, si può ammirare la temerarietà di Verdi che volle avventurare in estraneo suolo l'opera sua che inneggiava alla gloria del suo paese, addolorando il popolo che l'ospitava.

E non so che cosa debba maggiormente ammirarsi in Verdi se l'amore per la patria, immenso ed infrenabile, o la coscienza della forza del proprio genio.

Quando nel 1282 Giovanni da Procida intuonò colle armi i Vespri famosi, fu un pianto solo di rabbia e di dolore per tutta la Francia. Ma quando [104] nella stessa Francia Giuseppe Verdi, nel 1855, intuonò coll'arte sua divina i Vespri suoi, fu un grido d'esultanza per tutta la Nazione; fu un inno d'entusiasmo per l'arte italiana.

L'arte di Verdi si era superbamente imposta, vincendo tutti gli scrupoli della storia e della politica.

Io fremo d'orgoglio e di gioia al pensiero di tanta altezza d'ideale, sognata e raggiunta dalla potenza del genio d'Italia. E guardo disperato al vuoto che oggi ne circonda.

L'Esposizione Universale di Parigi del 1855 diede all'arte italiana l'alloro prezioso del suo maggiore trionfo; l'Esposizione Universale di Parigi del 1900 lascia oggi l'arte italiana a divorarsi da sè stessa, accasciata nei suoi confini, intisichita dagli stravizi immondi.

E Verdi è ancora vivo.... e vede.... e rammenta.... e soffre più di noi!...

Entro nell'ultima fase del periodo storico.

Un ballo in Maschera!

Qui non abbiamo affatto il soggetto patriottico che incita all'entusiasmo gli animi della folla; non abbiamo affatto l'opera di occasione e di attualità; eppure nessun lavoro di Verdi ha avuto tanta influenza sui destini della patria quanto Un ballo in Maschera.

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La sola creazione intrinseca del genio di Verdi seppe compire il prodigio.

Il pubblico, nella grande commozione del successo rimasto memorabile, ebbe la visione di tutto il decennio trascorso fra i dolori e le ansie; rivide la figura del Maestro combattente per la Patria colle armi dell'arte e della gloria; sentì risuonare ancora quei canti popolari che avevano sollevato d'esultanza ogni petto: comprese che la luce, appena intravveduta sull'orizzonte dei sogni, annunziava la vera aurora del sole della libertà. La musica di Verdi parlò ancora una volta al cuore ardente e generoso del popolo d'Italia.

Ed il popolo d'Italia intese quella voce; e l'intese sinceramente e grandemente nella pura espressione del suo linguaggio sublime.

Nessun concorso di elementi estranei in quella musica appassionata ed affascinante.

Il solo genio creatore di Verdi, ritraendo mirabilmente gl'impulsi del suo cuore, fece scattare il pubblico in una esplosione spontanea d'entusiasmo. Ed anche allora mille voci commosse ed esultanti gridarono insieme: Viva Verdi! Ma non era più soltanto il grido di plauso all'autore fortunato e prediletto; non era più la semplice acclamazione all'opera stupenda; non era più la sola esaltazione dell'arte nostra: era il grido del popolo chiamato alla riscossa; era il saluto solenne e vigoroso al [106] precursore della redenzione nazionale; era l'inno vittorioso della folla risvegliata dalla grande luce della libertà!

«Viva Verdi!» Fu il grido che partì da Roma il 17 febbraio del '59 e che si ripercosse in tutte le parti dell'Italia, ingigantito dall'eco.

Ed a quel grido immenso che erompeva dai petti animosi di tutti gli italiani, fu compiuta la unità della Patria. Viva V. E. R. D. I.! Viva Vittorio Emanuele Re d'Italia!

Che sia benedetto il fato!

Ma le glorie di Verdi, in quel periodo epico della vita italiana, furono molte al di fuori delle tre che ho tentato di illustrare. Dal 1849 al 1859 Verdi scrisse dieci opere, compreso l'Aroldo, che non è che lo Stiffelio riformato su nuovo libretto. E nelle dieci opere figurano quei quattro capolavori ormai consacrati alla storia immortale dell'arte dall'entusiasmo popolare di tutto il mondo: Rigoletto, Trovatore, Traviata e Ballo in Maschera.

Nessuna musica al mondo più di quella di Verdi ha mai destato interesse e passione negli animi; e specialmente parlando delle quattro opere famose.

Ci sarebbe da scrivere interi volumi, se si volessero raccogliere tutti gli episodii di esagerato entusiasmo provocato dalla musica di Verdi; e si potrebbe cominciare dall'aneddoto di quell'ufficiale che, assistendo da un palco di quint'ordine ad [107] una rappresentazione della Battaglia di Legnano, fu invaso da tale strano fanatismo che, urlando come un ossesso, gettò in platea e sul palcoscenico, sciabola, spalline, cappotto e tutte le seggiole del suo palchetto; e stava per buttarsi lui stesso di sotto, quando fu agguantato miracolosamente e fu portato fuori del teatro.

Si disse, allora, che l'ufficiale era briaco; ma io non ci ho mai creduto.

Parecchi anni fa ero a Firenze; ed una notte, quando tornavo all'albergo, m'imbattei in una comitiva di cinque o sei giovanotti, che si erano fermati in mezzo alla strada e discutevano animatamente ed a gran voce. Sentii subito che parlavano di musica; e mi fermai cercando di afferrare il senso della loro discussione. Ma i giovanotti si mossero per fermarsi di nuovo dopo una trentina di passi: e rinnovarono questa manovra parecchie volte, ad intervalli che mi parvero perfettamente uguali. Io seguivo costantemente tutte le mosse della comitiva, rimanendo sempre ad una discreta distanza, che mi permetteva di non perdere una sillaba della vivace conversazione.

La disputa era accesa fra due soli della compagnia, e si dibatteva intorno alle opere di Verdi. L'uno dei due sosteneva a spada tratta il Rigoletto come l'opera più perfetta della produzione verdiana; mentre l'altro urlava che il Trovatore poteva [108] comprare tutte le opere di questo mondo, messe insieme.

Il resto della comitiva non prendeva parte alla discussione, ma ascoltava attentamente e con grande interesse.

Io, dapprima, cominciai per divertirmi a quella scena nuova e caratteristica: ma poi, a poco a poco, involontariamente mi sentii afferrato anch'io dall'interesse della disputa e dalla foga dei due contendenti; ed anche, se vogliamo, dalla logica delle ragioni addotte per convincersi l'un l'altro da quegli scatenati, che avevano perduto il sangue freddo prima del senso comune. (Cosa che non accade tutti i giorni!)

Altro che la convinzione del critico! Altro che l'eloquenza del conferenziere! Non sentirò mai, in vita mia, una cosa simile.

Oramai il mio spirito era interamente conquistato. Dimenticai le ore piccine, non badai al frescolino pungente della notte, non pensai più al povero portinaio dell'albergo che mi aspettava; e rimasi ad ascoltare avidamente.

La disputa, intanto, si accalorava sempre più; e, ad un certo punto, entrò in una fase impreveduta e singolarissima. I due giovanotti, non potendo convincersi a vicenda a furia di parole, cominciarono a cantare a squarciagola i pezzi più salienti dell'opera rispettivamente preferita.

[109]

(Si concessero la prova di fatto, direbbe un pretore).

Non scorderò mai l'effetto di quel duello in musica. Peccato che non si possa ridire!

Gridava l'uno: «Ma dove mi vuoi trovare una melodia più toccante di tutte le feste al tempio?» E si metteva a cantare il motivo. E l'altro subito replicava: «E dove metti ai nostri monti ritorneremo?» E giù, a cantare anche lui. Ed il primo a riprendere: «Tu parli della popolarità del Trovatore, come se nel Rigoletto non ci fosse, la donna è mobile

E l'altro: «La vorresti forse mettere al confronto del di quella pira

E le due voci s'inalzavano accanite nell'aria fredda della notte, volendosi ormai fare ragione colla forza.

Dal gruppo della comitiva, ad un tratto, si allontanò per poco uno dei giovanotti che circondavano i due inferociti rivali: era senza dubbio un dissidente, perchè sentii che cantava a mezza voce l'eri tu che macchiavi.

Ma gli urli dei due eroi della questione si erano già resi insopportabili. Io non capivo più nulla: era una scena infernale, un vero finimondo! Sentivo sbraitare i Cortigiani vil razza dannata! per tener testa a quell'infame l'amore ha venduto; e stentavo a riconoscere la bella figlia dell'amore [110] confusa e imbrogliata coll'Ah, sì! ben mio coll'essere! a tale altezza di tonalità da far venire le vertigini.

La scena non poteva durare più a lungo. Ed infatti i contendenti vennero presto alle mani; ed alle cavatine e ai si bemolli fecero succedere una vera grandine di schiaffi e di pugni. Gli amici durarono non poca fatica a dividere i focosi pugillatori; e per calmarli del tutto ci volle la voce del saggio della Compagnia che li ammonì con poche parole che, a quell'ora ed in quel luogo, mi parvero una profezia: «Cosa andate a guastarvi il sangue col Rigoletto e il Trovatore, quando, come niente, domani Verdi viene fuori con un'opera nuova che si mangia in insalata tutte quelle che esistono?!»

Nessuno parlò più; e la comitiva si allontanò lentamente nella notte silenziosa.

Ancora attonito per la scena nuovissima a cui avevo assistito, seguii collo sguardo quei bravi giovanotti che si dileguavano nel buio della strada; e posso assicurare che nessuno di loro era briaco.... neppure il dissidente.

Ebbene: io sono convinto che, oggi, soltanto dopo un simile spettacolo si può avere un'idea dell'impressione che quella musica di Verdi destava nel pubblico ai suoi tempi. Come si può comprendere oggi il primo entusiasmo della Battaglia di [111] Legnano e l'estrema commozione del Ballo in Maschera?

Oggi si vuol far credere che l'arte non è più popolare; e si parla di arte aristocratica, di arte coi guanti.... Coi guanti sì! Ma guanti di lana e ben grossi, perchè oggi l'arte è diventata fredda!

Nei teatri d'oggi si attaccano ai muri delle striscie di carta colla scritta: Si prega di non applaudire durante gli atti. Come se l'applauso fosse una volontaria manifestazione di cortesia.

Avrei voluto vedere il resultato pratico di quegli avvisi alla prima rappresentazione del Rigoletto!

Io intanto ho già ritirato dallo stampatore i cartellini che farò affiggere in teatro la sera della prima rappresentazione della mia nuova opera, e che portano la scritta: Si prega di non fischiare durante gli atti.

E non potrò essere modesto neppure allora, perchè sarò semplicemente sincero.

Voglio sperare che nessuna persona dell'uditorio così gentile si maraviglierà del fatto che nella mia conferenza io non abbia nemmeno accennato ad un tentativo di analisi delle opere di Verdi; ed anzi credo fermamente che tutti avrebbero deplorato un simile proposito da parte mia.

La musica di Verdi è troppo superiore a qualunque analisi, perchè tutta insieme sa troppo bene parlare alle fibre del nostro cuore.

[112]

È musica fatta di genio e di intimo sentimento.

Ma, anche volendolo, che cosa avrei potuto dire di Verdi, che non fosse già noto a tutti gli ascoltatori?

Si voleva conoscere, forse, il mio giudizio sulle sue opere?

E che cosa vale il mio giudizio più di quello di qualunque altra persona?... Domandatelo, dunque, ad altri; domandatelo a voi stessi. Il giudizio su Verdi sarà sempre uguale presso tutte le genti che hanno un po' di cuore nel petto.

Si voleva forse che io analizzassi la produzione di Verdi dal lato della struttura, della costruzione, della matematica?

A parte l'irriverenza imperdonabile che avrei commesso, sarei stato nel caso di dire solamente che Verdi, fino dalle prime sue opere, fu sempre artefice sommo.

E tutti avrebbero riso della mia grande scoperta... e della mia grande ingenuità.

E allora?

Forse si aspettava da me una conferenza a base di aneddoti?

Ma, Dio mio, degli aneddoti della vita di Verdi sono stati empiti giornali, opuscoli e libri interi. Ed io non mi sarei mai sentito il coraggio d'inventarne di nuovi.

[113]

O mi si chiedeva un saggio di polemica coi detrattori del genio di Verdi?... Ma dove avrei potuto scavare i detrattori?... L'arte di Verdi non può avere che ammiratori.

Non si tiri in ballo la critica d'un tempo crudamente ostile alle opere del Maestro; o la si porti ad esempio magnifico di avversari leali, accaniti nel giudicare l'opera del genio alla stregua delle cifre e dei sistemi; e vinti, alla fine, quando dalla loro mente cocciuta la potenza di quella musica potè scendere nel loro cuore.

L'arte di Verdi non ha che ammiratori, come il suo nome e la persona sua raccolgono l'affetto e la reverenza di tre generazioni sparse su tutto il mondo civile, dai nonni ai nepoti, dai ricchi ai poveri, dai regnanti ai plebei.

Io, qui, non ho voluto che tratteggiare la figura di Verdi in quel periodo della vita italiana che fu così denso di gioie e di dolori, di speranze e di delusioni; ed ho voluto dimostrare quanto spontanea e grande fu l'influenza della sua musica su tutti gli avvenimenti di quegli anni di trepidazione, dalle prime aspirazioni all'ultimo trionfo.

Perciò mi sono fermato sopra tre punti, che ho stimato capitali in riguardo alle opere di Verdi ed anche rispetto al periodo storico.

Non ho parlato delle altre opere comprese [114] nel periodo, perchè esse, da sè sole, parlano tanto eloquentemente ai nostri cuori.

Però, se vi accade d'incontrare in qualche libro alcuna allusione alla lotta del melodramma fra l'Italia e la Germania, pensate subito che Verdi da più di sessant'anni combatte sul teatro italiano, regalando alla patria allori innumeri di gloria e trofei superbi di vittoria; e pensate che nessuna arme dei trofei, nessuna foglia degli allori sarà giammai toccata, fino a quando l'opera di Verdi vivrà nei cuori degli italiani, e fino a quando nel nome di Verdi le nuove generazioni continueranno la marcia trionfale per la strada maestosa tracciata dal genio dell'Italia.

E se vi viene fatto di leggere in qualche altro libro che certa musica di Verdi è barocca, ordinaria, forse triviale, pensate semplicemente che a chi giudica in modo simile manca del tutto ogni cognizione morale del sentimento del popolo ed ogni fibra di patriottismo.

E ancora: se trovate chi scrive che Verdi non è un vero genio originale e creatore, ma è un grande assimilatore del suo talento alla corrente delle varie epoche vissute; pensate che il critico si è alzato tardi ed ha trovato Verdi già in piedi. Pensate che dal pregio più raro si è voluto trarre fuori il difetto più volgare.

Per certa gente corta di vista, ed alla quale [115] restano eternamente occulte le lontananze ardite, tanto nello spazio del passato come in quello dell'avvenire, la musica di Verdi segue i tempi; e certa gente non sa e non potrà mai sapere quale invece sia stato lo sviluppo dato al dramma lirico italiano da tutta la grande produzione di Verdi, seminata con germe fecondo per tutto il lungo cammino di oltre sessant'anni. E crede di potere giudicare tutta quella immensa produzione riunendola oggi in un solo fascio e mettendola sotto una sola luce.

No! per giudicarla, bisogna distenderla di nuovo lungo tutta la strada maestra, sulla quale ha lasciato i segni miliari nel suo passaggio glorioso.

Abbiamo già veduto se l'arte di Verdi seguiva i tempi nel 1849, nel 1855 e nel 1859. E li seguiva, forse prima coi Lombardi e coll'Ernani? E li seguiva col Rigoletto e colla Traviata? E li seguiva poi coll'Aida, coll'Otello, col Falstaff?...

L'arte di Verdi ha potuto, per una benedetta eccezione della natura, esplicarsi in uno spazio di tempo grandissimo; e, attraverso al rinnovellamento delle generazioni e dei governi, ha potuto, gradatamente e continuamente battere il passo alla imponente evoluzione musicale del secolo decimonono, tracciando quella strada superba dalla quale l'arte nazionale non dovrebbe mai allontanarsi.

[116]

Verdi è stato l'assiduo precursore d'ogni progresso, d'ogni conquista del melodramma italiano, come fu il precursore vittorioso della redenzione della Patria.

E voglia il cielo che Verdi sia ancora il precursore invocato, che ci additi i nuovi ideali da conquistare nel secolo nuovo!

È il migliore augurio per l'arte e per l'Italia.

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