LA SINCERITÀ NELL'ARTE. (l'arte dal '48 al '61)

CONFERENZA

DI

UGO OJETTI.

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Un anno fa, Signori, io vi descrissi la vita dell'arte italiana fino al '48. Il '48, lo ripeto, è per noi una pietra miliare donde non solo una nuova politica si parte, ma anche una nuova arte più libera e più franca sotto il sole. Nel 1843 Gioberti aveva pubblicato il Primato. nel 1844 Balbo le Speranze d'Italia, e d'Azeglio - il romanziere e il pittore d'Ettore e di Ginevra - aveva lanciato l'opuscolo sui Casi di Romagna subito dopo i moti di Rimini e di Bagnacavallo, il quale opuscolo è ancora mite e quasi dottrinario rispetto al famoso libro sui Lutti di Lombardia. Egli è ferito a Vicenza. Succedono le cinque giornate di Milano, la difesa di Venezia, la difesa di Roma; Guerrazzi e Montanelli vogliono stabilire la Repubblica a Firenze; Mazzini, a Roma. Dopo Novara, il d'Azeglio accetta d'essere il Ministro per la pace, e da quel giorno è ecclissato dal genio lentamente audace di Camillo Cavour. La scuola liberale lombardo-piemontese, cui egli e Pellico e Manzoni appartenevano, [48] e di cui, come fissa il De Sanctis, Balbo era il dottrinario, Gioberti l'oratore, Rosmini il pensatore, è sconfitta a Novara dalla scuola mazziniana democratica che col Campanella a Genova, col Farini in Romagna, col La Farina in Sicilia, col Guerrazzi in Toscana, con Carlo Poerio a Napoli aveva direttamente e indirettamente fatto il '48 e lanciate le insurrezioni.

Quella, volendo lasciare la società alle sue forze naturali perchè riescisse al progresso, respingendo ogni idea di violenza sia che la violenza scendesse dall'alto, sia che salisse dal basso, non aveva agitato che idee generali e larghe astrazioni, e, sopra tutto, era stata misurata e composta. Misurate e composte erano state le classi dominanti, finchè essa le aveva dominate. Misurate e composte, come abbiam visto insieme l'altr'anno, erano stati gli artisti, che solo da quelle classi traevano danaro ed onori. I più franchi sostenitori di quella scuola, come il d'Azeglio, dichiaravano che la tirannide interna premeva poco, che l'importante era fare l'Italia, con la libertà se era possibile e, se no, anche col dispotismo. La scuola democratica, invece, proclamò con voce sì alta che ne tremarono i troni dei principi italiani in apparenza più amati, che se gl'individui non sono liberi, è inutile che sia libera la patria.

La libertà degli individui! Questa era stata la [49] vera rivoluzione del romanticismo di Francia e di Germania, del romanticismo che i federalisti e i pietisti d'Italia erano riesciti, sul vecchio esempio dello Chateaubriand, a mascherare da guelfo fino al 1848. La libertà degli individui, il diritto alla emancipazione assoluta dell'io, il diritto alla passione e alla originalità! Questa era nelle arti la vera essenza del romanticismo, che Rousseau aveva sognato senza dargli un nome, che Goethe aveva dichiarato nel Werther, che Byron, Shelley, Hugo, Vigny, Musset, Lamartine e il primo Heine avevano gridato e cantato in tutte le loro opere sfrenatamente liriche, recando pel mondo sulla mano i loro cuori rossi e fumanti come fiamme.

Non posso qui mostrare come la contraddizione fra l'idealismo lirico individuale e romantico del Mazzini letterato e la collettività dell'arte predicata dal Mazzini uomo politico, nascosta da lui con grandi sottigliezze logiche e con qualche onda retorica e considerata dai suoi critici insanabile oggi, invece alla luce dell'esperienza e sotto l'esame dell'estetica psicologica possa dirsi sono apparente. Oggi a me basta indicare che nel 1848 soltanto - nell'anno taumaturgo, - come disse il dall'Ongaro, vien per la prima volta in Italia dichiarata la necessità della libertà politica degl'individui dentro una patria indipendente, e vien perciò per la prima volta instaurato nell'arte il diritto alla sincerità.

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Fino allora i nostri romantici avevano avuto la frenesia di piacere, di piacer subito e di piacer molto, rendendo attraenti le pene umane col respingerle verso il passato, rendendo attraente la figura umana col correggerne i difetti e svisando così nella spontaneità d'emozione, quella violenta istantaneità di visione che avevano già dato alla vera poesia romantica nel 1829 le Méditations di Lamartine e alla vera pittura romantica nel 1822 la Barca di Dante di Delacroix. Non aveva lo stesso Manzoni nel 1823 confessato nella famosa lettera al marchese Cesare Taparelli d'Azeglio che «bisogna scegliere argomenti pei quali la massa dei lettori ha una disposizione di curiosità e d'affezione»? La nuova libertà non comanderà agli artisti e agli scrittori questa premeditata servilissima scelta: ma essi vedranno che solo in quanto saranno sinceri, anzi quanto più riesciranno a esser sinceri, tanto più ritroveranno nel loro pubblico ossia nel pubblico simile a loro, un consenso d'applausi. E così, mentre in quell'altra arte fatta deliberatamente per piacere, la mortalità delle opere sarà grande e veloce, in questa nuova arte sarà in ragione inversa della sincerità dell'artista.

Un artista solo in Italia aveva prima d'allora, ostinato, austero e sdegnoso, posto a norma della sua vita e delle sue opere questa sincerità: il vostro Lorenzo Bartolini che nel mio discorso dell'altr'anno [51] abbiamo con entusiasmo glorificato insieme. Dopo lui, nel periodo che descrivo adesso, due altri scultori difendono la nostra gloria artistica nel terribile schiacciante paragone con gli stranieri: ancora un toscano, il Duprè, e un ticinese, il Vela.

Basta confrontar i ritratti di questi due grandi, per intendere tutta la differenza dell'animo loro: Giovanni Duprè scarno, pallido, nella tarda età quasi diafano in volto, con la barba morbida precocemente canuta, coi capelli lisci pettinati all'indietro e un po' lunghi alla Mamiani, col naso prominente tagliente, cogli occhi a mandorla gentili, bonarii e sorridenti sotto le sopracciglie morbide e lunghe, con le labbra sbianche e sottili sotto i baffi più rari, - Vincenzo Vela rosso, valido, olivastro, col volto largo allungato dalla folta barba fulva, col naso piatto donde dalle due pinne partono verso le labbra due solchi profondi, con la gran fronte convessa e l'arcata ciliare come gonfia sopra gli occhi neri, lucidi, severi e meditabondi; quegli fatto per sorridere e per accogliere con affabilità, questi fatto per tacere e per soffrire anche al culmine dell'attività della gloria; quegli dolce e sereno come un bambino, ansioso e nervoso davanti a ogni ostacolo, questi austero e violento e muscoloso, precocemente virile e pronto all'azione come il suo Spartaco; l'uno come il suo Abele più degli altri pensoso che di sè stesso, l'altro raccolto nei [52] suoi vasti pensieri e nei suoi sentimenti profondi come istinti; l'uno timido nel lavoro del marmo e prudente, l'altro leonino nell'assaltar la pietra per cavarne i suoi sogni nascosti, impetuoso come un amante che strappa i veli e misura il tempo dal battere del suo cuore gonfio di passione come una marèa sotto la luna.

Sì, Giovanni Duprè fu un mite. Basta leggere i suoi Ricordi, delicati, patetici, toscanamente arguti. Nel folto della famosa disputa bartoliniana se un gobbo fosse o no degno soggetto d'arte, egli ancor giovane restò in disparte per modestia; capì che pel gran Bartolini lo studio del vero anche brutto era - son sue parole - «un puro esercizio di copia, che è quanto dire il mezzo per giungere all'arte, o, com'egli diceva, tenere le redini dell'arte, e che il male si era, che molti, scambiando il mezzo col fine, correvano al precipizio.» Acuta e limpida osservazione in cui nessun critico sereno ha poi trovato una virgola da mutare. Ma egli era un sensibile e non aveva la ferrea dirittezza del caposcuola, quella costanza e quell'unità di mente che ci fanno apparire tutte le opere del Bartolini o del Vela come tante sillabe d'una parola sola. Egli nel '42 aveva finito di modellare quel suo dolce Abele morente col perdono negli occhi e con l'agonia per tutto il leggiadrissimo corpo, fin nelle chiome femminee che sembrano madide di sudore mortale. [53] Ma già l'anno seguente, quella disputa dall'Accademia fiorentina diffusasi per tutti i circoli dell'Italia centrale e su tutti gli album artistici - come ancora per lo più si chiamavano i pochi periodici d'arte - tanto gli aveva occupato la mente e affannato il cuore, che egli finiva celeremente il suo Caino opera così voluta, così innaturale all'anima sua, che l'insuccesso palese ne fu da qualche maligno fissato nel motto che questa volta Abele avea ucciso Caino, non Caino Abele. Della quale affermazione è persuaso chiunque nella sala della Stufa a Palazzo Pitti confronti i bronzi delle due Statue. E lo stesso errore fu dallo scultore ripetuto, quando volle eseguire il monumento a Cavour per Torino, egli che non aveva muscoli per la lotta all'aria aperta, e quando scolpì la statua di San Francesco così inutile e inespressiva nel suo piccolo candore lì su la piazza d'Assisi di contro all'alta austera facciata romanica della cattedrale colore del ferro, - perchè altra febbre d'ardore fu veramente in Francesco, un ardore tanto più attivo e più combattivo di quella reclina rassegnata umiltà di rinuncia!

Ma per la sua gloria un'altr'opera fin dal 1863 il Duprè aveva compiuta: un'opera che è forse la sua maggiore, perchè in essa egli ha potuto concentrare tutta la sua tenerezza composta e un po' mistica, tutta la sua passione mai violenta e teatrale, ma forse perciò tanto più sincera e profonda e potente, [54] come un timoroso amore che non riesce a trovar la voce per confessarsi: parlo della Pietà che è al cimitero della Misericordia a Siena, poco oltre quella chiesa di Sant'Agostino, che contiene il suo gelido Pio secondo. La Vergine è genuflessa sulla gamba sinistra; sul suo ginocchio destro rialzato e drappeggiato da pieghe molli stanche cadenti si appoggia con tutto il dorso il Cristo morto che ha la testa reclina e le due gambe distese sul piano del marmo. Aperte le braccia, smunte le gote, schiusa nello spasimo silenzioso la bocca, di sotto il manto che la schiaccia e l'adombra, come un dolore visibile, ella si china verso la faccia della morte, verso la fredda faccia. Tutto il figliuolo diletto sulle cui mani e sul cui costato si schiudono le cicatrici delle stimmate donde sprizzò col sangue una luce di sole sul mondo, ella accoglie così nel suo grembo, ella ripara sotto il suo manto; e le braccia di lei, che accompagnano più in alto la linea delle braccia di lui abbandonate dalla vita, non osano toccarlo, sebbene le due mani si pieghino già alla carezza materna. Par che la madre aspetti da quel suo figlio che è Dio il prodigio, il prodigio di un'ultima parola, d'un ultimo sguardo, d'un bacio. E il bianco dramma si profila sul marmo grigio del fondo, e ogni muscolo e ogni piega commentano con una parola precisa l'elegia ansiosa dei due volti: uno morto d'amore, l'altro vivo di pena.

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Oh non si dica che questo patetico, solo perchè mai volgare, non abbia studiato e compreso il vero quanto i più frenetici e pettegoli veristi! Egli che quando prima espose l'Abele fu accusato di averlo formato sul vivo, egli che anche in un lavoro ornamentale come il piede alla famosa tavola delle Muse di Palazzo Pitti riescì nelle figure e nelle allegorie delle stagioni a vivacità fresche come quelle d'un quattrocentista, egli che a Roma osò chiamare il Tenerani trionfante un «timido amico del vero,» egli che dolorosamente si stupiva di udir dall'Overbeck nazareno l'eresia che i modelli, ossia il vero, uccidono l'idea!

Il Vela, l'ho detto, fu al paragone un impetuoso. Venir a parlar di lui dopo il Duprè può quasi sembrar artificio di contrasto retorico, par di passare da un fresco giardino odoroso dentro una cupa selva che stormisce con un romore d'oceano.

Da Ligornetto nel Ticino ansioso di novità e di lavoro a Milano, dove il '36 la Fiducia in Dio del Bartolini mandata alla galleria Poldi Pezzoli gli rivela l'avvenire; da Milano a Roma, povero e solo, a modellare in una soffitta lo Spartaco mentre il Minardi pittore squallido e il Tenerani scultore prudente tengono tutti gli onori; da Roma nel '47 nuovamente nel Ticino per la guerra del Sonderbund e poi dal Ticino giù in Piemonte tra i volontari italiani a sognare il gran sogno e a guardar [56] in faccia la morte: dopo Novara a Milano a finire pel Litta lo Spartaco, a Lugano ad erigere un altro simulacro di libertà, il Guglielmo Tell, da Milano, rifiutata fieramente agli Austriaci la nomina di professore all'Accademia di Brera, a Torino accettando quella di professore all'Albertina; superbo di modellare per piazza Castello l'Alfiere colossale che Milano dava, come un giuramento, al Piemonte; poi scultore del Carlo Alberto, del Dante e del Giotto e di quel Cavour che in mezzo al tumulto frenetico della Borsa di Genova pare col nobile volto e il calmo gesto rammentar a tutti gli energumeni attorno la felicità della patria non esser fatta solo dall'oro; ancora più epico del Manzoni col Napoleone morente, infine egli chiude la sua vita agitata ed indomita modellando l'alto rilievo delle Vittime del lavoro, rude e tragico monito dell'avvenire!

Avete voi nella memoria il Napoleone morente? Quella ancor salda figura seduta sulla larga sedia col cuscino che fa da sfondo fino a metà della testa, con quella grave coperta sulle gambe che facendo una massa sola della parte inferiore della statua concentra lo sguardo dello spettatore nella fissa faccia, nella mano contratta sulla carta d'Europa, nel petto che s'intravvede sotto la camicia semiaperta quasi che il respiro mancasse alla bocca imperiosa? Il solco profondo a mezzo il mento, i [57] due segni netti ed ombrati più agli angoli delle labbra sottili serrate, il naso aquilino, i due ponti dell'arcata ciliare diritti a sostenere la gran fronte, e in mezzo alla fronte quella ruga che forse è di pena ma sembra di minaccia, tutto contribuisce a dare a quel volto terribilmente imperioso più che il solenne segno della morte vicina la luce divina dell'immortalità, tanto che - al dire d'un contemporaneo - «il fitto cerchio di persone d'ogni ceto, d'ogni età, d'ogni lingua che gli stava dattorno, faceva come avrebbe fatto dinanzi all'imperatore ancor vivo, dinanzi all'uomo dalle cui mani fosse sfuggito, sì, l'impero del mondo, ma potesse ancora riprenderlo.»

Lo so: da critico diligente io devo rammentarvi che il Vela, al verismo del Bartolini, aggiunse la sincerità nel ritrarre sui corpi le vesti spesso goffe dei suoi contemporanei, tanto che sul suo esempio, e massime per opera d'un suo ammiratore, Santo Varni, da venti o trent'anni il cimitero di Staglieno va divenendo una collezione di orribili ineleganze, una storia volgare di tutte le più stupide mode di vestiti maschili e femminili dal '60 in giù. Devo anche dirvi che molti dei suoi somigliantissimi ritratti - da quello del Carloni a Lugano, da quelli del Gallo e del Balbo e delle due Regine a Torino fino a quelli del Grossi e del Piola nel cortile di Brera a Milano - sono stati accusati di essere poco [58] espressivi, sebbene a me paia che nessun moderno lo abbia raggiunto nel trattar con diversa mano le diverse materie, e le carni e i capelli e le vesti e il cuoio e i lini. Ma qualunque critica vi proponga, un solo e massimo vanto io vorrei che voi deste al gran Vela se mai, oltre il lago di Lugano, tra i monti verdi vi inoltriate fino a Ligornetto ed entriate nel bianco museo della sua villa, nel giardino odoroso piantato dalle sue mani, seguìto dal gran mastino nero che le sue mani hanno accarezzato: il vanto di essere stato più di ogni altro scultore della sua epoca sincero, quello, cioè, di aver in ogni suo marmo espresso un po' dell'animo suo, una speranza o un entusiasmo con un vigore che la modernità non aveva ancor visto.

La scultura italiana di cui pare che i critici odierni parlino con qualche disdegno in poche righe dopo pagine e pagine in onor della pittura e di cui le esposizioni fino a poco tempo fa si servivano solo per addobbare le sale o per riempire i corridoi; la scultura italiana, invece, ha tenuta alta la nostra gloria artistica quando, al confronto cogli stranieri, la nostra pittura, se pure in Italia con un po' di retorica patriottica era detta viva, all'estero faceva pietà. Quando nel '55 con una crudele cortesia Gauthier diceva «che l'Italia aveva largamente pagato il suo debito d'arte al genere umano, e che egli non avrebbe certo commesso l'iniquità [59] di burlarsi della nostra miseria,» quali scultori poteva opporre al Duprè, al Vela, al Tenerani, poichè il Bartolini era morto nel '50 e a tanti altri minori rispetto soltanto a quei grandi? Fino al '67 a Parigi col Napoleone e con la Driade del Vela, con la Pietà del Duprè, con l'Amor pitocco del Cambi, col Socrate del Magni, fino al '73 a Vienna col Jenner di Monteverde, col Nerone Travestito del Gallori, col Canaris di Civiletti, la scultura ci ha difesi da quell'accusa di morte.

A Torino, poichè nel 1878 il Marocchetti era emigrato definitivamente in Francia, accanto a Vincenzo Vela che il marchese di Breme chiamava nel '55 a insegnar nell'Accademia allora allora rinnovata da un apposito decreto, erano il Dini ancora classicheggiante ma nei ritratti vivissimo, l'Albertoni di fare grandioso e monumentale ma poco espressivo meno forse che nel monumento a Vincenzo Gioberti, e due fratelli - pur troppo dimenticati - Francesco e Giuseppe Pierotti, che modellavano con sicurezza gruppi d'animali.

A Milano, al vecchio Cacciatori succedevano due o tre giovani come il Bayer, lo Strazza, il veronese Fraccaroli che allievo del Zandomeneghi era venuto da Venezia verso il '35, il Pandiani la cui figliuola Adelaide avrebbe poco dopo il '60 creato la Saffo mirabile immagine della desolazione amorosa, il Tantardini che col Geremia mostrò che cosa [60] potessero anche in un ingegno non sommo gl'insegnamenti del Vela, infine il Magni che col Socrate e con la fontana Nabresina a Trieste già provava l'amorosa diligenza - non altro! - con cui nel '72 avrebbe eretto in piazza della Scala il monumento a Leonardo da Vinci.

Qui a Firenze, intorno al vecchio Romanelli, al Fantacchiotti, al Cambi, nessuno ancora sorgeva a eguagliare il Duprè o a prendere il posto del Bartolini.

Nel mezzogiorno, poichè il fiorentino Emilio Franceschi non era ancora andato a Napoli e il palermitano Civiletti non era ancora venuto a Firenze, Tommaso Solari, che nella statua di Carlo Poerio al Largo della Carità in Napoli mostra un verismo degno quasi delle statue minori del Vela, e Raffaelle Belliazzi nelle terre cotte dipinte e anche nel marmo fanno appena sperare un Amendola, un Gemito o un d'Orsi.

Ho detto poco fa che la massima lode del Duprè e del Vela è d'essere stati i due più sinceri scultori del loro tempo, tra il '48 e il '61. Ma in pittura, chi restaurò la sincerità? Chi trasse di sotto il pondo dei gessosi eroi del Camuccini e dell'Appiani la vita fatta di nervi e di sangue, espressiva e luminosa, magnificamente bella anche quando appare spaventosa come un incubo di Breughel o di Goya?

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Per veder la verità, guardiamo uno spazio più grande della sola Italia. Nella Francia i veri liberatori dell'arte, i veri instauratori della libertà contro la schiavitù della tradizione, i veri vindici dell'originalità erano stati poco dopo il '20 i pittori romantici, e noi eravamo in ritardo di quasi trent'anni. Dal fondo grigio e gesuitico della restaurazione, ormai da parecchi anni l'arte del colore e della passione era balzata fuori libera, feroce, agile, urlante e fulva come una bella belva. Il sangue, il bel sangue porporino e la luce e il movimento più convulso essa bramava e otteneva. Che il colore fosse così ardente da consumare i contorni, che la passione fosse così esternata e visibile da gareggiare con la febbre delle Notti di Musset o delle apocalittiche visioni di Hugo. Il rosso, il rosso! Il rosso scarlatto del panciotto di Théophile Gautier, il rosso cupo dei nastri sui cappelli, tra i capelli, intorno alle vite delle belle donne che volevano esser tutte appassionate. Già nel 1819 era apparsa la Zattera della Medusa dipinta con foga da Géricault ma ancora buia e ancora qua e là nelle figure legnosa. La michelangiolesca Barca di Dante sognata e dipinta da Delacroix è del 1822, il Massacro di Scio che dai vecchi fu detto il massacro della pittura è del 1824. Nel 1834 Delacroix parte pel Marocco e inaugura la pittura orientalista nella quale poi Decamps, Marilhat, Fromentin, [62] Guillaumet sul suolo senz'ombra, sotto i cieli senza nuvole, faranno veramente tremar l'aria alla luce, in quei silenzii meridiani nei quali, come dice lo stesso Fromentin, la vita sembra scomparire assorbita dal sole. E già il Salon del 1822 avendo rivelato i paesisti romantici inglesi e Turner e Bonington e Constable e avendo dato una medaglia d'oro a quest'ultimo, aveva spinto all'emigrazione verso Barbizon tutti quei pittori «detti del '30» e Rousseau e Corot e Daubigny e Duprè e Troyon che crearono il paysage intime e trent'anni dopo dettero diritto di vita al paesaggio italiano. Tutti costoro si dichiarano e sono tanti romantici.

Da noi, invece, ogni insulto fra il '50 e il '70 va ai romantici: anzi, talvolta il senso dileggiativo dell'aggettivo «romantico» persiste ancora nelle lettere, se non nelle arti. E intorno al '60 i così detti veristi insorgevano contro i romantici, e Palizzi loro capo a Napoli imitava senza saperlo quando poteva Troyon e Daubigny che erano due romantici. Donde la contraddizione, o meglio l'equivoco?

Ho in principio accennato alle cause politiche che nel 1848 resero invisi agli Italiani i maggiori scrittori romantici, tanto che col sostantivo fu condannato l'aggettivo, senza darsi la pena di distinguere l'innocente dal reo: del qual fatto il più chiaro esempio è nella storia dell'Accademia napoletana di prima e dopo il 1860, di prima e dopo la caduta [63] dei Borboni, perchè là d'un colpo furono cacciati per ragioni politiche i romantici cioè i borbonici, e sostituiti i nuovi cioè i liberali. Ma un'altra ragione dell'equivoco è nel fatto che i nostri pittori detti romantici - primo l'Hayez, come credo di aver provato l'altr'anno - accettarono i soggetti romantici e i sentimenti romantici e la lagrimosità romantica, ma il colore e il chiaroscuro restarono degni dei neoclassici, opaco quello e saponoso, arbitrario questo e così negletto, che le figure sembravano più fantasmi senza rilievo al lume di luna che solidi corpi vivi alla luce del sole. Così che quando i nostri veristi e i nostri coloristi insorsero contro i romantici d'Italia insorgevano in realtà contro i neoclassici e infatti imitavano i romantici di Francia: cioè erano dei romantici essi stessi. Quando con Morelli, Celentano, Faruffini il quadro storico cominciò ad acquistar l'unità della luce e la giustezza dei toni, questi facevano trenta o quarant'anni dopo quella rivoluzione che in Francia aveva fatto pure col quadro storico il Delacroix romantico. Ma a dar loro dei romantici, anche oggi quei che son vivi griderebbero offesi.

Questo inganno nominale ho voluto subito chiarire per potervi mostrare la pittura italiana nel posto, non ottimo, che le spetta, a metà del secolo decimonono nella pittura europea.

Considerate infatti, per avere un'altra prova di [64] quest'inganno, il quadro storico che gl'Italiani, guasti dal fanatismo delle gerarchie accademiche cortigianesche e jeratiche, ponevano sommo nella scala della bellezza onorevole. Poichè la conquista del colore o la conquista del movimento che son le due glorie della pittura del secolo decimonono, non erano nemmeno state tentate dai nostri, e poichè - come abbiam veduto a parte a parte l'altr'anno - nè l'Hayez, nè il Palagi, nè l'Arienti, nè il Malatesta, nè il Guardassoni, nè i due Benvenuti, nè i due Mussini, nè il Bezzuoli, nè il Pollastrini, nè il Gazzotto, nè lo Zona, nè il Molmenti, nè il Cavalleri, nè l'Ayres, nè l'Angero, nè il Mancinelli, nè il Podesti, nè il Gagliardi - per nominar solo quelli che allora furon creduti ottimi - riescirono ad abbandonare il lividore del colore classico per quanto lagrimassero in tutte le Imelde, in tutte le Giuliette, in tutte le Clorinde, in tutte le Francesche da Rimini, in tutte le Marie Stuarde, in tutte le Congiure e in tutte le Crociate care ai poeti romantici, perchè dovremmo noi dar loro lo stesso appellativo di Delacroix e dire che la loro pittura è romantica mentre in realtà son romantici solo i temi dei loro quadri, ma la loro pittura è in ritardo di quarant'anni? E nei più giovani, prima di Morelli, di Celentano e di Faruffini, chi è che si ribella e dipinge anche quei modelli mascherati da paggi e da cavalieri antichi al sole e col movimento [65] con cui dipingerebbe il signor X o il signor Z suoi contemporanei in tuba e scarpini verniciati?

I migliori di questi più giovani sono piuttosto paragonabili a quei prudenti pittori francesi che contentarono la borghesia spaurita tra la rossa ardente esaltazione della rivoluzione di luglio e le barricate della rivoluzione di febbraio, e che ebbero per sommi e antipatici capi Paul Delaroche e Robert Fleury e ammirarono in poesia Casimir Delavigne e in musica Auber, in una parola che rappresentarono con serietà lo smascolinato juste milieu di Luigi Filippo. Essi dipingono con sapienza i siparii per teatro ed è naturale, - dal Bertini che col Casnedi dipinse a Milano quello della Scala fino al Fracassini che dipingerà a Roma quelli dell'Apollo e dell'Argentina, - e per lo più scambiano quel che è pittoresco con quel che è dipinto bene, restando sempre stilisti oggettivi, mai artisti appassionati.

Guardate Enrico Gamba che apprese in Germania la correzione del disegno e l'abilità della composizione, e, fecondissimo, ebbe in Piemonte anzi in Italia grande fama fino all'83 quando morì. I funerali di Tiziano che sono del '56, disegnati così bene, disposti così bene, pennellati così bene, contengono veramente dei pezzi di pittura liscia forse ma spontanea: però nell'insieme tutte quelle figure viste ad una a una, quasi che ognuna avesse il suo [66] raggetto di sole e non ne spartisse nemmeno un riflesso coi suoi vicini, odoran di accademia, di modello, di posa un miglio distante. E lo stesso è di Andrea Castaldi, torinese come il Gamba, ma più di lui fresco in certi studii di nudo femminile e più di lui tragico e nervoso nell'espressione dei volti, come provano il suo popolarissimo Pietro Micca che è del '60 o il Savonarola che è del '56, ambedue nella bella pinacoteca moderna di Torino.

Ma senza andarli a cercare qua e là per l'Italia col rischio di dimenticarne parecchi, è bene vederli raccolti alla prima Esposizione nazionale italiana che su proposta di Quintino Sella fu con una speciale legge decretata il 25 giugno 1860 e aperta nella primavera del 1861 qui a Firenze, nell'antica stazione delle ferrovie livornesi a Porta al Prato. Se mancavano il Podesti, l'Arienti, il Bertini, il Gamba e il Gastaldi, v'erano però tutti gli altri vecchi pittori di storie e di storielle, morti e vivi: il Benvenuti col Conte Ugolino e più col Giuramento dei Sassoni, il Bezzuoli con tre quadri fra i quali l'Ingresso di Carlo VIII, Cesare Mussini con la Congiura de' Pazzi e la Fornarina, il Guardassoni con l'Innominato, il Pollastrini con l'Esilio de' Sanesi, il Coghetti con la morte di Santa Caterina, l'Hayez col Ratto d'Ila, lo Smargiassi col Buonconte da Montefeltro, il Maldarelli con la Gliceria che battezza il suo carceriere. Ed era bene che vi fossero [67] tutti, perchè accanto a loro vedendo gl'Iconoclasti del Morelli, I Dieci del Celentano, la Cacciata del duca d'Atene di Stefano Ussi e anche la Congiura degli Amidei di Eleuterio Pagliano, il pubblico e i giovani artisti finalmente comprendessero che nessuna bellezza sentimentale o patriottica di tema, poteva far bello un quadro visto male e dipinto male.

Io parlo adesso, o Signori, di persone, meno il Celentano, vive, ammirate e gloriose, e voi dovete perdonarmi se sarò coi vivi sincero tanto quanto è purtroppo facile esserlo coi morti. Io in Stefano Ussi ho sempre ammirato più del pittore storico l'orientalista luminoso, spontaneo e caldo di passione come quel suo oriente lo è di sole. La Cacciata del duca d'Atene che, quando nel 1867 andò a Parigi fu su la Revue de Deux mondes così violentemente biasimata da Maxime du Camp, è certo il più bel quadro storico che sia stato dipinto prima degl'Iconoclasti; intendo con ciò che il suo valore è relativo al momento in cui apparve. Pensate che questo discepolo di Giuseppe Bezzuoli, dipinse il gran quadro a Roma tra il '58 e il '59, nel colmo della tirannia del Podesti e del Minardi! Certo oggi in quella folla urlante e minacciante che ha invaso il Palazzo Vecchio, la gentile freschezza di ogni veste e l'ostentata abilità della composizione scenicamente equilibrata intorno al fiammeggiante abito del Duca e la differenza tra le due luci, quella pallida [68] oltre le finestre, quella violenza dei personaggi del primo piano dispiacciono a chi voglia ammirare. Ma che sagacia di psicologia a esprimere sui volti e nel gesto le passioni di ognuno e che cura meticolosa dei particolari, cura così rara in un tempo in cui l'approssimativo quasi sempre sinonimo del falso era la sola guida dei costruttori di tali coreografie! «Io non vidi mai quadro moderno che agguagli questo» disse allora il relatore governativo Manfredini.

Se Stefano Ussi così impose per primo l'obbligo della verità al quadro storico e ne fu subito compensato da una rinomanza sicura e duratura, il Morelli negli Iconoclasti stupì per la forza di rilievo e l'esattezza veduta del chiaroscuro, e il Celentano nei Dieci di Venezia stupì per l'unità della luce.

Domenico Morelli è un impulsivo, disuguale e violento; e forse per questo è l'unico dei suoi contemporanei in cui allora sembrasse trasfuso un po' dell'ardor febbrile del Delacroix. Il Celentano invece è un tenace, sicuro della mèta, dubbioso spesso nei mezzi fino a spasimar per l'angoscia, per capire come da quell'orribile Agguato, che è nella sua sala alla Galleria romana d'arte moderna, egli possa essere giunto ai Dieci e al Tasso, bisogna leggere le sue lettere al fratello Luigi, e vedervi l'amor dello studio attraverso alle pinacoteche di tutta Italia e l'ansia religiosa quando è vicino [69] al paradiso del colore, - a Venezia. Il Morelli invece ottenne presto, e senza tentennare, quella personalità artistica cui il povero Celentano anelava, quella palpabilità delle figure nei quadri, come egli diceva, quella semplicità della composizione che fu al confronto cogli altri la vera meraviglia del Consiglio dei Dieci, quando fu esposto qui a Firenze. Quel tono basso d'avorio, con qualche fiato verdino, delle pietre della Scala dei giganti nel fondo, quei robboni neri dei Membri del Gran Consiglio, quei volti scarni ed assorti, quell'aria che fluisce nella scena aperta tra i quattro o cinque gruppi andanti, quella verità di movimento, lo stesso taglio basso e lungo del quadro e la scena che pareva vuota al confronto delle folle accumulate nei macchinosi quadri attorno, - tutto a noi che guardiamo dopo trent'anni permette di dire che come sincerità d'arte il Consiglio dei Dieci di Bernardo Celentano avrebbe dovuto nel 1861 ricevere molti degli omaggi che andarono agl'Iconoclasti di Domenico Morelli. E voi sapete, signori, che Bernardo Celentano morì a ventinov'anni!

Sugl'Iconoclasti un vecchio amico del Morelli mi narrava pochi giorni fa un aneddoto tipico. Egli lavorava con furia, malcontento della figura di Lazzaro Monaco quando il Palizzi entrò nel suo studio. - Ti piace? - No. - Che devo fare? abbandonar tutto? - Niente affatto. Guarda. Io mi metto davanti [70] alla tua tela. Allontanati. Quando vedrai le tue figure dipinte spiccar su la tela come fa il mio corpo, allora potrai dire d'aver vinto la prova. -

In verità, la gloria di Domenico Morelli è di aver trattato le figure dei suoi quadri non come copie di modelli mascherati o atteggiati, ma come uomini vivi. Troppo egli stesso è esuberante di vita e di passione, per tollerare davanti ai suoi occhi su le sue tele dei fantocci piatti. Non credo di fargli una critica dicendo che questo più che volontà fu istinto in lui. Nei romani, nei greci, negli uomini del cinquecento, nello stesso Cristo egli tornò ad infondere il sangue rosso e palpitante, il suo buon sangue di meridionale beato di sole, e col sangue la passione tutta dinamica, non più statica e di posa, come in quasi tutti i suoi antecessori. Questo romantico, al pari dei grandi romantici d'oltralpe sorti trent'anni prima di lui, ha sentito che il colore è in pittura l'espressione della passione, l'indice della potenza lirica ed emotiva dell'artista. Sebbene talvolta non abbia reso l'intensità della luce solare per aver troppo creduto all'efficacia dei colori puri invece che all'efficacia dei rapporti, pure pochi seguirono col suo amore, con la sua prontezza in un quadro tutti i riflessi e i rimbalzi d'ogni minimo raggio. Dei romantici francesi ha avuto i gusti letterarii e l'amore pel Byron e pel Tasso, in quasi tutti i temi dei suoi primi quadri; e ha avuto la [71] foga nel creare, tanto che fu detto gl'Iconoclasti essere stati dipinti in quaranta giorni; e l'amor per l'oriente che egli ebbe il torto di dipingere sempre di maniera guardando alla Spagna e al Fortuny invece che alla Terrasanta. Venuto poi a maturità in un'epoca di critica religiosa, egli potè con grande successo fondere questo romantico amor dell'oriente alle interpretazioni umane del Cristo, e acquistar nella storia della moderna pittura sacra un posto accanto a Holman Hunt, al Rossetti, al von Uhde, pure tecnicamente così dissimili da lui.

Ma io non posso indugiarmi nella descrizione del suo ingegno per mostrarvi l'importanza dei suoi viaggi tra il '55 e il '62 e la fama sua che saliva con tanta sonorità, che forse nessun altro artista contemporaneo ha tra i giovani del suo tempo ottenuta almeno nell'Italia media una simile suggestione di rispetto devoto.

Quando accanto al Celentano e al Morelli vi avrò rammentato il colore del Faruffini, più nella Vergine al Nilo che nel Sordello della Brera, l'appassionato brio dell'Altamura che venuto dalla sua Napoli divenne così popolare qui a Firenze, la franca pennellata del Pagliano, il quale prenderà al Cogniet l'idea della Figlia del Tintoretto, la forza tragica del Fracassini nei Martiri Gorgomiensi alla Vaticana e negli affreschi non finiti a San Lorenzo fuori le mura, v'avrò indicato tutti i maggiori [72] pittori storici fino al 1861 - se pur non vogliate pensare che già cominciavano a tenere il pennello Barabino e Maccari, un geniale imitatore d'Alma-Tadema come Giovanni Muzzioli e un irrequieto innovatore come Tranquillo Cremona, e che nel 1864 a Parigi con l'ariosa lussuosa riscintillante Passeggiata nei portici del Palazzo Ducale Scipione Vannutelli otterrà in premio un sonetto di Théophile Gautier.

* * *

Dispensatemi dall'enumerarvi tutti i quadri militari che dopo il '48 o dopo il '59 glorificarono i mille episodii di Custoza, di Novara, di Montebello, di Palestro, di Solferino, di San Martino, e i volontari Garibaldini e le truppe Piemontesi, e con Gerolamo Induno perfino i pallidi orizzonti della lontana Crimea e le glorie della Cernaja. Perfino Mussini finirà a fare - purtroppo! - il ritratto di Vittorio Emanuele, perfino Hayez finirà col dipingere la Battaglia di Magenta. Qualunque critica fatta oggi da noi giovani a quei pittori di battaglie i quali quasi tutti le avevano combattute prima di dipingerle, e al carminio della loro tavolozza potevano paragonare il buon sangue delle loro ferite, sarebbe irriverente. Ma un fatto posso osservare ed è che, anche quando la loro pittura sembrerà un po' squallida e il loro pennello poco [73] pronto a rendere l'uragano d'un assalto, il lampo delle artiglierie, le contorsioni d'un'agonia, pure la necessità dello studio del vero, l'intensità della passione presente ed urgente, negl'individui centuplicata dall'eco di tutt'un popolo, furono in Italia i maggiori coefficienti della nuova sincerità artistica e della mutazione del gusto. Qui a Firenze fra tutti costoro, io voglio ricordare un veterano sempre valido e giovanile, Giovanni Fattori, che oggi è rimasto il maggior pittore militarista d'Europa, e che nella sua austera gamma di colori ha per primo veduto i soldati e i cavalli dentro un paesaggio, non, come gli altri teatrali, sopra un paesaggio, e li ha avvolti d'aria e di luce cioè li ha fatti vivi in mezzo alla vita, vivi e degni di vivere nell'avvenire.

I fratelli Girolamo e Domenico Induno, dei quali un anno fa descrissi l'opera, col loro stile gustoso facile e simpatico unirono questa gloriosa pittura militare all'ingloriosa pittura di genere, nella quale però Domenico più sentimentale e più mesto riportò maggior vanto «porgendo,» come dice con frase tipica il Caimi che è lo storico degli artisti lombardi di questo periodo, «l'edificante esempio di quelle abnegazioni che nobilitano il tugurio del proletario.» E intorno agl'Induno col Trezzini, cognato di Domenico, col Castoldi, col Giacomelli, col Clerici, [74] e in Piemonte con lo stesso Gamba, col Beccaria, col Balbiano e massime con Federigo Pastoris fu per vent'anni un diluvio di emozioni graziose ora ridenti ora meste, anzi per lo più meste che stancarono talvolta anche i contemporanei, tanto che nelle Tre Arti quel bizzarro ingegno del Rovani ne parla francamente così: «La pittura di genere è l'arte sorella di quella letteratura pallida ed esile che credette di ingenerare il gusto imbandendoci quei cari romanzuoli cotti nell'acqua di mele cotogne che non passano l'epidermide nemmeno alle maestrine degli asili d'infanzia.»

Ma l'ironia non giovò, perchè in Italia la pittura di genere durò anche più a lungo che in Francia dove, per verità, essa era nata solo dall'imitazione degli inglesi, del Wilkie, del Leslie, del Mulready che tra il fanatismo dei compratori smollicavano al pubblico la grande eredità di Hogarth, - e dove il suo cicaleccio pettegolo fu presto sopraffatto dall'ampia sonora voce della pittura paesana di Millet. Forse in Italia una lode le si può dare, - che, cioè, servì ad abituare definitivamente gli spettatori alle pitture dei costumi moderni visto che ancora nel 1857 il buon Pietro Selvatico credeva d'essere audace, dissertando della opportunità di trattare in pittura oggetti tolti dalla vita contemporanea.

Ma i veri ribelli, i veri fondatori della modernità, [75] i veri apostoli della sincerità, furono in Italia i paesisti. Da Nino Costa a Telemaco Signorini, dal Palizzi al Vertunni, dal de Nittis al Rossano, dal Fontanesi al Pasini, - noi intorno al '60 già vediamo raccolta una falange di artisti tali, che per cento modi, attraverso a cento temperamenti appaiono tutti concordi a proclamare la libertà d'essere originali purchè si sia sinceri, ad indicare quanta può essere la gioia dell'anima di chi con sereni occhi contempla i suoi sogni riflettersi in un mattino aprilino raggiante di speranza, in un meriggio estivo ardente di letizia, in una sera autunnale fosca di pena. Lungi le mascherature classiche e medievali, lungi le lagrimucce pettegole, anche lungi l'inferno delle battaglie! Un mandorlo fiorito sopra un cielo turchino; un cespuglio di ginestra oro e verde contro un mare color del cielo; un gregge giallastro sopra un tenero prato di marzo; una casetta rosea lungo una strada candida di polvere sotto il sollione; una luna che di dietro un monte violaceo sorge a spegner le stelle nei pallidi sereni: tutte le gentilezze e le grandezze, le profondità dei firmamenti e le tenuità dei fiori parvero allora per la prima volta dopo quasi tre secoli riapparire all'anima degli artisti che tornava ingenua.

Non vi parlo dei piemontesi che dal più facile commercio intellettuale con l'estero oltralpe avrebbero dovuto più prontamente degli altri udire la [76] soavità di quest'invito alla sincerità, e, se non giungere a intendere la bellezza dei creatori inglesi del Paysage intime come Turner, de Wint, Constable, John Crome o Bonington, almeno imitare i loro imitatori francesi, - invece di fermarsi a Ginevra a vedere i Souvenirs de Suisse grandi e piccoli che dipingeva pei forestieri quel monotono arido calligrafico e scenografico Alessandro Calame. Nè Francesco Gamba, nè il Beccaria, nè il Piacenza, nè il Perotti, nè l'Allason, nè il Bennison e tanto meno il Camino si liberarono da questa teatralità che raramente, e quasi a loro insaputa. «Un Calame, deux Calames, trois Calames, que des calamités!» disse allora un critico arguto. Bisogna aspettare che Alberto Pasini parta per la Persia con la missione francese del Bourrée, per vedere il colore; e anche in lui tanta fu, a volte, l'arte, che divenne artificio, e fece preferire ai rutilanti quadri compositi la fresca sincerità delle sue tavolette. Bisogna aspettare che Rayper, d'Andrade, Issel e Giordano raccogliendosi nella solitudine di Rivara fra gialle rupi e verdi vigne tentino di dimenticare il malo esempio degli antenati. Bisogna aspettare che nel '55 Antonio Fontanesi dopo essere a Ginevra caduto anche lui nel suo Calame, vada all'Esposizione di Parigi a entusiasmarsi di Decamps, di Rousseau e poi a Londra a entusiasmarsi di Turner, e ottenga così una sapienza di tecnica cromatica ancora [77] nuova in Italia e crei quei suoi paesi solidi meditati preparati con abilità ed eseguiti con spontaneità, quei paesi di cui dieci o quindici anni dopo doveva innamorarsi Giovanni Segantini.

A Napoli prima del Vertunni ampio e solenne, prima che il poetico verde nebbioso Rossano e il pallido nervoso de Nittis e Adriano Cecioni da Giosuè Carducci chiamato «dell'arte operatore e giudicatore superbo» fondassero la cosiddetta scuola di Resina, era e regnava Filippo Palizzi senza il quale tutta la moderna arte napoletana, compresa quella di Morelli non sarebbe stata com'è. Quando nel 1832 egli era venuto a Napoli da Vasto d'Abruzzo era ancora vivo l'olandese Antonio Pitloo che il Borbone aveva al suo ritorno, per consiglio del Camuccini, nominato professor di paesaggio nella riordinata Accademia, e che aveva tra grandi entusiasmi fondata la scuola detta «di Mergellina e di Posillipo» lodatissima allora per una trasparenza d'aria e una larghezza di cieli per verità poco visibili ora nelle sue tele. Fra costoro, Filippo rimase al riparo dall'imperversar delle lagrime romantiche e la Vacca che nel 1839 a ventun anno egli dipinse pel primo concorso biennale fu come la serena voce d'un poeta fra un clamoroso sermocinar di rètori.

Da allora non mutò mai di pensiero dando un esempio d'unità di vita estetica ignota a tutti gli [78] altri artisti italiani di questo secolo fino allora. Voi pensate, senza sorridere, all'audacia che occorreva a dipingere a Napoli nel 1839, invece degli Ajaci, delle Lucrezie, delle Virginie, degli Ezzelini e dei Crociati, una pura e semplice testa di vacca! Senza alcuna destrezza di composizione, senza alcuna scienza della faccia umana, egli doveva essere e fu un limitato maestro di tecnica. La fermezza sempre maggiore del suo disegno, la pennellata più e più brava, la nitidezza dei particolari, la vivezza e la varietà d'espressione negli occhi e nelle attitudini degli animali - dai pulcini intorno alla chioccia fino alla famosa testa di leone che eseguì a Parigi nel '65 al Jardin des plantes, - o nei fiori o nelle foglie dei vegetali che paiono veramente empir di una vita umana certe sue minuscole tele, tutta la crescente profondità del suo occhio non ebbero, in realtà, sull'indirizzo della pittura tra il '40 e il '70 l'importanza morale che ebbe la sua persistenza nello studio degli animali e dei fiori e dell'erba. Questa rude franchezza, questo bel bagno d'animalità - odor di fieno e di timo - era necessario alla pittura italiana che quando egli apparve poteva davvero ripetere quel che poi egli scrisse nella sua sala alla Galleria nazionale d'arte moderna: - Vorrei rinascere per ricominciare. -

Il movimento dei macchiaioli qui a Firenze fu [79] davvero una rinascita. Spenti oramai gli odii, i biasimi violenti, gli antagonismi feroci di venti o di trent'anni e caduta sul bollor dei superstiti la neve della canizie, tolto ormai ogni significato bernesco a quell'appellativo dato loro dall'arguzia fiorentina, riappare oggi tutta la vivace sincerità di quelli ostinati nemici dei «raschiatori delle tele vecchie,» come essi chiamavano tutti gli accademici classici puristi e romantici, senza rispetto per nessuno, anzi aumentando di ferocia in proporzione di quanto quelli aumentavano di disdegno.

Nel '55 l'Altamura e il Tivoli tornando dall'Esposizione di Parigi si fermarono a Firenze a predicar con tanta fede ai giovani frequentatori del Caffè Michelangelo la libertà artistica ormai da più che trent'anni concessa al popolo di Francia da Delacroix, re del chiaroscuro e dalla sua corte, - che quando quei giovani entusiasti poterono andar a godere nella Villa di San Donato la galleria del principe Demidoff e i Daubigny, i Decamps, i Troyon, i Delacroix, i Marilhat, i Meissonnier che essa conteneva, la rivelazione giunse ai loro occhi come un fulmine e appiccò il fuoco a tutti gli animi.

Al Caffè Michelangelo, come narra Telemaco Signorini in un libro che ogni giorno va acquistando rarità di documento e valore di storia, la guerra di idee si sarebbe fatta grave anche tra gli amici più fraterni se la guerra per la [80] patria non avesse chiamati tutti i generosi a combattere l'Austria. Tutti i reduci - dal Signorini al Fattori - non dipinsero per mesi che bivacchi e accampamenti, scaramucce e battaglie, ipnotizzati dal fuoco e dal sangue come gli innamorati dall'amore.

L'Esposizione nazionale fatta, come ho detto, il '61 qui a Firenze e l'apparizione di paesisti come Palizzi, Fontanesi, Costa e Pasini, ridettero fiamma alle critiche e alle lodi e i congiurati così detti della Macchia scesero per le vie e fecero la loro rivoluzione. Purtroppo le rivoluzioni quando corrono in piazza sono già compiute negli animi. Il dogma che gli avversari a momenti volevano ardere con tutti i suoi apostoli in piazza della Signoria non appariva, in realtà, già applicato in quell'Esposizione del '61 con quello che i critici più codini e più miopi, chiamarono allora il «colorire a spizzico,» dal Morelli, dal Celentano, dal Fontanesi? E in realtà questi giovani che si dicevano veristi e insultavano i romantici d'Italia e perciò sembravano audaci, non erano con qualche ritardo imitatori dei più romantici paesisti di Francia, dal Rousseau al Corot? E la tecnica della macchia che dieci anni dopo Manet spingeva agli effetti estremi con l'«impressionismo,» non era stata inventata appunto dai romantici d'oltre alpe? E la fiera massima dei macchiaioli, «senza maestri e senza discepoli,» non era la più sincera [81] affermazione di quel diritto all'originalità più sfrenatamente spontanea che il romanticismo aveva sancito pel bene degli artisti? Ahimè! quanti presunti nemici ai critici del duemila sembreranno fratelli appassionati! Ma la colpa dell'equivoco fu dei pretesi romantici d'Italia vecchi, legnosi e incolori quanto i neoclassici camucciniani, non dei nostri veristi la cui lotta era benedetta da Dio.

Adriano Cecioni, Diego Martelli e Telemaco Signorini diffondevano con limpidezza le nuove teorie: «il colore non mutar mai, divenir soltanto per la luce più chiaro e più scuro, l'affare più importante nel dipingere esser dunque di vedere e di rendere bene le macchie di chiaro e di scuro, non facendo mai nemmeno le figure più grandi di quindici centimetri, vale a dir di quella dimensione che assume il vero guardato a tale distanza da non esser possibile di percepirlo altro che per masse, cioè per macchie, di chiaro e di scuro....»

Con questa frenetica passione per problemi di pura tecnica si può davvero dire che il Banti, il Cabianca, il Borrani, il Lega, l'Abati, il Moradei, il Signorini, perdessero sul pubblico ogni forza di commozione così che, non essendo essi più che mani, il pubblico avesse il diritto di non esser più che occhi? No. Basterebbe considerare l'opera di tre superstiti: Nino Costa che veramente non fu tra i macchiaioli ma venendo a [82] Firenze nel '59 fu maestro di sincerità a molti di loro, Vincenzo Cabianca e Telemaco Signorini. Quale paesista anche tra i più giovani e i più deliberatamente patetici - come Fragiacomo o Sartorio - raggiunge la profondità di passione delle vedute dipinte verso il '55 sotto Albano, all'Ariccia, da Nino Costa quando come un eremita visse là per cinque anni con lo svizzero David - delle Donne che cavano il lino dal macero, delle Donne che in una sera di pioggia vanno alla fonte e infine di quella sua Veduta della spiaggia di Porto d'Anzio dove il cielo opalino, il mare grigio nella distanza e l'arena giallastra dappresso formano una musica così piana e pure così solenne? E in quali acquerelli più che in quelli del Cabianca, perduta col largo pennellare tutta la minuzia calligrafica e femminile dell'acquerello, si è mai veduto, direttamente dal colore più che dal soggetto o dal gesto, venire per gli occhi al cuore dello spettatore tanta gentilezza d'affetto quanta dalle Monachine fatte nel '61, dalla Neve a Venezia dipinta nel '55, o dalla Chiesetta in riva al mare dipinta tre anni fa? E infine prima di Telemaco Signorini il paesaggio italiano ebbe mai tanta chiarità di sole e di azzurri quanta se ne vede sulle sue vedute delle coste e della marina di Spezia, tanta sicurezza di carattere quanta nei suoi quadri del Ghetto fiorentino, che restano nella memoria netti come ritratti d'un volto umano?

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Signori, questo fanatico amor per la natura, questa passione per le solitudini verdi, per gli animali dai placidi occhi, per gli alberi da gli occhi di fiori non definiscono quale sia stata veramente l'anima del nostro gran secolo? L'arte del paesaggio nell'avvenire lo redimerà dalla fama di avaro, di scettico ed egoista, che gli storici superficiali gli hanno già tribuita. Quest'arte, tornando ad immerger la figura umana nella luce, tornando a considerarla sotto l'ampiezza dei cieli simile agli alberi e alle rupi e alle acque nella gioia dei meriggi e nella melanconia delle sere, ha ridato agli uomini la nozione serena e sincera del loro destino, ha ricostruito una specie di religione naturale placida e limpida da ogni paura e da ogni vana superbia. Veramente, educato dai grandi paesisti, oggi l'uomo quando al tramonto col cader della luce nel silenzio sale l'oscurità della morte e filtra per gli occhi nel cuore e il cielo impallidito è più profondo e più ampio e gli umani fatti ciechi sono più sperduti e più piccoli, pronti a confondersi con l'ombre vane, - veramente, dico, allora l'uomo si sente sulla sua minuscola terra come in esilio, e nella coscienza gli salgono come un ricordo istintivo e un rimpianto d'un tempo immemorabile di fraternità, d'un tempo in cui tutto il mondo - cose che sembrano vive e cose che sembrano morte - era un sol fatto, una sola entità, un sol divenire sotto gli occhi, forse, di Dio.

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A questa unità del destino di tutto, a questa tristezza solenne e quasi divina, i grandi paesisti, da Turner a Segantini, da Constable a Corot, da Fontanesi a Signorini, hanno educato l'anima moderna. Quali filosofi hanno dato tanto ai loro discepoli?

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