L'EPOPEA GARIBALDINA

CONFERENZA

DI

GIUSEPPE CESARE ABBA.

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Tentare in una breve ora l'epopea garibaldina, che vuol dir tutto Garibaldi, sarebbe come voler cogliere in un'occhiata tutta la giogaia delle Alpi. Chi lo potrebbe e da quale altezza? Fra Rio Grande e Digione, i suoi furono trentacinque anni di guerre con intermezzi di solitudini da Nume, o sull'Oceano o sullo scoglio dov'Ei sapeva incatenarsi da sè; e solo la lirica, col suo gesto da folgore, varrebbe forse a pigliarli nella sua luce. Ma se è vero che dell'Epopea il poeta può, se vuole, coglier soltanto il nodo; allora questo nella garibaldina è la Sicilia, la Dittatura, Lui, che privato, povero, disconosciuto, dispetto o adorato, ma in sè gigante cui sono sproporzionati uomini e cose, leva via un re inutile, e fa possibile e sicura l'unità dell'Italia.

Se lo stato dell'anima quale ce l'han fatto i secoli, per quel tanto di scienza che s'acquista via via da tutti, ci lasciasse ancora concepir l'Eroe nel [46] senso antico, certi pochi uomini, da duemila anni in qua, meriterebbero d'esser chiamati eroi quanto Garibaldi: ma forse piace di più riconoscere in lui l'Uomo quale un giorno sarà, perchè ebbe al sommo la pietà, l'amore, l'oblio di sè, e un sentimento vivissimo del misterioso legame che ci giunge con l'Essere da cui emana tutta la legge e tutta la vita, la quale deve divenir alla fine sola bontà.

Non lo vediamo a sette anni, mentre si trastulla con tra le mani un grillo, piangere per avere strappato le ali alla povera bestia innocente? Non offesa dunque a ciò che vive, non far patire. È già quello stesso che negli anni gravi e glorioso si leverà nel cuore della notte, per andare in cerca di una capretta che udirà belare smarrita, su pei greppi della sua Caprera. Di mezzo a questi due fatti che paiono fanciulleschi, sta l'episodio di quel barbaro americano Millan, che aveva fatto torturar lui prigioniero, e che caduto poi nelle mani sue egli rimandò libero, senza volerlo vedere. A otto anni salva una lavandaia pericolante in un fosso; e a tredici si getta in mare per soccorrere una barca di compagni già lì per naufragare. E li salva. Quando a settantacinque anni sarà morente, dirà le ultime sue parole, raccomandando ai suoi le due capinere venute a posarsi sulla sua finestra!

Cominciò presto per lui la grande scuola di farsi da se; e presto lo vide la Costanza, il brigantino [47] che lo portò marinaio in Levante, sogno degli italiani, passato dai libri di Marco Polo nella poesia cavalleresca. Anch'egli mirerà di Angelica ridente il velo

Solcar come una candida nube l'estremo cielo;

ma poi la sua Angelica la troverà in Italia, a diciassett'anni. Navigherà col padre, marina marina, sino a Fiumicino e da Fiumicino farà una corsa a Roma. Col quel po' di storia romana che ha nell'anima, passerà tra i monumenti della vecchia Roma e quei della nuova, si desterà in lui lo spirito di Cola di Rienzo, concepirà che sulle due Rome, può e deve sorgere una nuova Roma italiana. E in quell'età della vita che ogni uomo si pianta nel cuore una fede propria, in lui si pianta quella della gran madre, per cui penserà, lavorerà, combatterà fino al «Roma o morte» d'Aspromonte; fino alla tetra sera di Mentana. Il dì che Roma diverrà italiana, egli non ci sarà, ma i secoli diranno che stava a combattere per l'onore di quella Francia, che a Mentana aveva provate le armi sue nuove contro di lui. Mai uomo fu defraudato del suo diritto come lui, in quel giorno che l'onore di entrare in Roma toccava ad altri!

Gli anni giovanili di Garibaldi paiono andati via rapidi, per chi li legge nelle sue biografie; ma come furono densi di azione! E il nostro pensiero [48] lo segue ancora su' mari di Oriente dove navigando coi Sansimoniani proscritti, si nutre del Cristianesimo nuovo ch'essi portano per il mondo. Un anno appresso, a Taganrok (1833), un asceta del patriottismo gli rivelerà la Giovane Italia e la formola Dio e Popolo lo conquiderà. Da allora, Garibaldi sarà il Paolo di quella fede.

Passiamo via rapidi su quel momento della sua vita in cui egli entrò nella marineria del Re di Sardegna con propositi di ribelle. Ma chi gli diede in quel momento il nome di guerra di Cleombroto, lo dava a caso, o ravvisava in lui qualcosa del giovane che letto il Fedone di Platone si uccise per accertarsi dell'immortalità dell'anima, o qualcosa del re Spartano di quel nome, morto alla battaglia di Cintra? O forse quel nome gli fu dato per quel senso di procella che par esprimere?

Il pensiero di Garibaldi non era stato bello, ma sublime fu la pena che si inflisse da sè. Nell'ora di agire, di gridar la rivolta sulla nave del Re, la sua natura nobilissima gli diede il raggio che salva: egli scese a terra, andò a cercar altrove per Genova il luogo da spendervi la vita o conquistare la libertà; andò e cercò invano...., la rivoluzione promessa era ancora un sogno. Ebbene, se tutto è finito in nulla, egli si riconferma nella sua fede, se la porta via nel cuore, anderà a fecondar l'idea pel mondo. E allora comincia l'Eroe. Curioso fatto! [49] Egli, come gli Eroi dei poemi cavallereschi, inizia la storia delle sue imprese scorrucciato col suo Re, anzi in nome del suo Re condannato contumace a morte, come bandito di primo catalogo: e queste son parole della sentenza.

Infermiere dei colerosi negli Ospedali di Marsiglia, quando non ci è da far quel bene, s'imbarca per l'America, e là sarà l'eroe byronesco, Lara, Corrado, Leandro o quasi Mazeppa, quello che si vorrà. Oh! quando combatte per Rio grande, e quando vinto attraversa per nove giorni la foresta dell'Antas, fra temporali che la schiantano a colpi di fulmine! Cavalcava al fianco della sua donna, portando in un panno al collo il loro primo figlioletto di tre mesi; e questa ci pare una scena di cui si potrebbe leggere nella Bibbia. E di tratti biblici ne ha parecchi. A San Gabriele, al passo di un torrente, vede un uomo che sta facendo asciugare al sole i propri panni. «Tu sei Anzani!» grida egli a quell'uomo, «E tu Garibaldi!» risponde l'altro. S'erano per fama invaghiti l'uno dell'altro; ora saranno uniti per la vita e per la morte. Eccoli sulla via della grandezza. Montevideo ha bisogno di braccia. Vanno. Garibaldi è guerriero da terra e guerriero da mare. Dove lo mandano? Dovrà risalire il Paranà, con quei gusci che la Repubblica gli può dare; ed egli va, s'incontra con la squadra nemica, passa, naviga [50] su pel fiume due mesi, e sotto il cannone ogni giorno; all'ultimo a Nueva Cava, dopo aver combattuto tre notti e tre giorni farà saltar le sue navi, ma il nemico non potrà dire di averlo vinto. Oh! perchè ventiquattr'anni di poi, ammiraglio a Lissa non fu lui?

Poi divenne guerriero di terra e creò la Legione. Romano d'anima non poteva chiamarla che così. Intanto gli anni incalzavano, veniva il 1846, e nel crepuscolo mattutino di quell'anno nel cui meriggio Pio nono doveva benedire l'Italia, là nell'America un pugno d'Italiani scriveva con le spade la giornata di Sant'Antonio, uno dei più nobili fatti d'arme che la storia del valore possa mai raccontare.

Ai primi annunzi dell'amnistia di Pio nono, egli era là, in quel mondo delle ricchezze, povero come Giobbe. Fabrizio rifiutò i doni di Pirro, ma insomma li rifiutò per non tradire la patria. Garibaldi non aveva voluto nessun compenso d'aver salvata la patria altrui. Egli si sentiva pago abbastanza del campo franco avuto, a provare in guerra il cuore italiano: e ora sentiva con sicurezza che se i giorni della patria erano venuti davvero, egli avrebbe saputo servirla. E «sovente s'arrestava soprapensieri, e gli sfuggiva un leggero sorriso, come a chi attende una lieta fortuna.» Lo scrive Giambattista Cuneo, suo compagno in quei [51] giorni. Cosa vedeva, egli oltre il mare in qua, nell'Italia lontana? Allora egli e l'Anzani offrirono le loro spade a quel Pontefice, cui poco appresso il Mazzini offriva la mente. Avesse il Pontefice accettato; e se non la indipendenza che non era da lui, avrebbe forse guarita l'Italia di quella gran miseria per cui paiono inconciliabili l'amor della patria e la religione, che sono ancor la forza degli altri popoli, pur di noi più civili.

Quando non potè più reggere od aspettare, Garibaldi imbarcò quanti della legione vollero seguirlo, e sul brigantino Speranza, veleggiò a tornare. Canterà mai la poesia l'ora grande che, di qua da Gibilterra, egli vide una nave che batteva bandiera tricolore, la gran bandiera! e seppe Milano insorta, gli Austriaci in fuga, tutta l'Italia in rivoluzione?

E poi Nizza e la vecchia madre non riveduta da quattordici anni: e dopo brevi giorni di gioie domestiche, l'entrata nel mondo del Quarantotto, tutto canti e grida e deliri, ma con poche armi, assai poche! Ei corse presto a Milano. E perchè? - domanda oggidì la storia d'allora, - perchè dovette andare sino al campo di Carlo Alberto per chiedere un posto quale si fosse, e combattere? Non trovò per via gente armata che gli si offrisse? Ahi! Orlando era tornato, ma già si trovava ai primi disinganni. Dal campo fu mandato [52] a Torino dove gli si disse d'andar a chiudersi in Venezia.... Nessuno indovinava in lui quel ch'egli era, neppure il governo provvisorio di Milano, dove tornava il 15 luglio, e dove alla fine gli erano dati i tremila volontari sparsi qua e là sino a Bergamo, con questo però che egli se li raccogliesse. Ma allora tutto già volgeva a male in Lombardia; Carlo Alberto si ritirava dal Mincio, gli Austriaci tornavano grossi, Milano ricadeva nelle loro mani; e a Garibaldi non rimaneva che la gloria di cader l'ultimo a Morazzone. E si narrò poi che il D'Aspre, il quale appunto a Morazzone lo aveva assaggiato, dicesse che l'uomo che avrebbe potuto essere utile all'Italia, nella guerra d'indipendenza del 1848, era stato disconosciuto.

Dunque tutto era una grande illusione? No! Roma chiamava, ed ei vi corse co' suoi di Montevideo. E anche là, quando la Giunta Suprema di Governo seppe che Egli giungeva, tremò. Pure dovette accoglierlo e se non altro illuderlo, mandandolo, a capo di bande armate a Macerata, a Rieti. Egli andò. Di là eletto deputato di Macerata alla Costituente, scese in Roma, il 5 febbraio, nell'assemblea ascoltò il discorso d'apertura del ministro Armellini, e di scatto s'alzò, proponendo che si proclamasse la Repubblica. Ecco il dittatore! E tutti lo temono, e pochi si fidano di quell'uomo così nuovo, così sicuro, così fatto per comandare.

[53]

Il 21 aprile quando si viene a sapere che partivano i francesi da Marsiglia per Civitavecchia, Egli era già molto sdegnato contro la patria, e se ne era confidato ad Anita, scrivendole da Anagni. Ma non dubitava dei suoi destini. E coi suoi milledugento armati, gli pareva d'essere invincibile. «Roma prende un aspetto imponente, Dio ci aiuterà.» E in Dio veramente credeva.

Sbarcano i diecimila francesi, con sedici cannoni da campo, sei da assedio. Sono amici, sono nemici? Venivano per restaurare il Papa. E allora cominciarono i forti giorni. E fu quel 30 aprile che rimase gloriosissimo nella storia dell'armi italiane. Ma cominciava anche la gran caccia di mezza Europa, contro Roma. Gli Austriaci passavano il Po, la Spagna imbarcava gente per l'Italia, il Borbone invadeva la Repubblica. Vero è che vi furono Palestrina e Velletri, bei nomi a ricordarsi, più che per le vittorie in sè, come primo colpo anticipato da lui al trono borbonico. E la poesia vi si fermerebbe a raccogliere il fior del sentimento, cantando che a certa ora del fatto d'arme, una compagnia di adolescenti salvò Garibaldi caduto, travolto dall'onda della cavalleria nemica.

E poi la ripresa degli assalti francesi il 3 giugno a tradimento; e villa Panfili, e San Pancrazio, e villa Corsini, e il Vascello, e le inaudite gesta d'uomini come Masina, Manara, Mellara, Dandolo, [54] Bixio, Morosini, Mameli, Sacchi, Bassini e mille altri; e i 19 ufficiali morti i 32 feriti, e cinquanta gregari tra morti e feriti, e Lui che ai fuggenti sulla via della disperazione grida: «Voi sbagliate strada! il nemico non è qui!» Avevano letto l'Adelchi del Manzoni, o il Manzoni aveva indovinato che gli eroi parlano così.

Il gran dramma dell'assedio durò ventisei giorni di combattimenti, fino al 29 giugno. E quel giorno, quando l'assemblea chiamò Garibaldi nel proprio seno, egli, lasciate a malincuore le mura, corse e gridò ai rappresentanti del popolo che bisognava eleggere un Dittatore. Quanto a sè, dichiarò che altrimenti sarebbe uscito da Roma a tener alta dove che fosse la bandiera della patria fino all'estremo. Ma l'assemblea, pur dichiarando di volere stare al suo posto, deliberò di cessare la resistenza divenuta impossibile. Dunque anche in Roma, tutto era finito!

Ma non per lui. Prima che i Francesi entrino in Roma egli n'uscirà. Non vuol morire di quel dolore. E sul mezzodì del 2 luglio, raccolta sulla piazza del Vaticano la sua divisione, griderà quelle sue grandi parole: «Io esco da Roma; chi vuol continuare la guerra mi segua. Non offro nè gradi, nè stipendi, nè onori, ma fame, sete, marce forzate, battaglie, ferite e morte; per tenda il cielo, per letto la terra, e per testimonio Iddio.»

[55]

In tutte le sue biografie sono taciute le ultime parole di quel discorso: eppure le disse. Le ripetevano ancora, tra i Mille, alcuni veterani che le avevano intese.

La sera di quel giorno uscirono con lui tremila, da porta San Giovanni per la tiburtina, ben sapendo tra quali strette d'eserciti nemici andavano a porsi. Marciarono ventisette giorni, marciarono ventisette notti, sempre lì per dar negli agguati, sempre riuscendo a scansarli. Meravigliosa marcia che rivelò il Capitano, e più che il Capitano l'Uomo fatale: perchè grandissima cosa tra le grandi compiute in quella fuga da leone, egli non disperò un istante d'un mondo non ancora degno di lui, nemmeno in quel fiore di valorosi che avevano voluto seguirlo.

Il 31 luglio riparava in San Marino. Parevano rifiniti tutti quelli che non rimasti per via, s'erano rifugiati lassù. Egli no. Dice ancora ai Reggenti: «Che se i Tedeschi non lo attaccheranno, egli non li attaccherà.» Non è il sommo dell'ardimento?

Ma insofferente d'indugi, sdegnoso di scendere a patti con lo straniero; mentre gli Austriaci gli stringono il cerchio intorno fin sul territorio della piccola Repubblica, egli piglia la sua risoluzione. Anita è quasi morente ma non si lagna, con Lui le è vita ogni stento. E via di notte pei balzi dirotti [56] del Titano, scende, passa tra le schiere nemiche, traversa la terra fedele di Romagna fino al mare, vi imbarca i dugento che potè condur seco; mèta Venezia.... Là si combatte ancora.

Ma, cade in quel giorno del 4 agosto l'episodio pietoso che tutti sanno. Dal mare gli tocca a ripigliar terra, inselvarsi con Anita, morente tra le braccia; solo, tra il mondo e Dio, la porta, la affida, non sa quasi bene se viva ancora o già morta, a chi potrà seppellirla. Egli deve sè all'Italia, e non può lasciarsi uccidere dai croati su quella povera morta. Fu forse il momento più amaro della sua vita. «Ma quando la disperazione starà per entrar nel tuo cuore, chiamami ed io sarò con te:» e al mondo, per far come egli fece in quell'ora, bisogna avere il cuore pieno di quelle voci che Dio mise nei grandi.

Salvato per una sequela di miracoli, sin che potè por piede in Piemonte, s'accorse che neppur lì poteva star più, sebbene in terra di libertà. Egli era venuto a riportare in Europa il tipo del cittadino guerriero, e pareva che non ci fosse più terra per lui. Peggio che Mario! Non fu incatenato come Prometeo, ma fu gettato alla solitudine tremenda dell'anima. E non sapevano che egli aveva in sè un mondo, in cui egli si moveva e sapeva vivere come in un imperio infinito.

Riprese la via dell'esilio, seppe cosa vuol dire [57] non aver da sfamarsi, lavorò colle mani da semplice candelaio, alla fine potè riavere una nave e gli oceani. E nella solitudine del Pacifico, un giorno del 1854, gli avviene uno di quei fatti interiori, che paiono accidentali, ma che forse provano come a certi gradi di perfezione l'anima umana sia servita forse da sensi misteriosi che non sappiamo d'avere. Egli è in pieno Oceano Pacifico e sente in sè che a Nizza muore sua madre. Quella morte sentita così, gli mise la nostalgia della patria!

Rivedrà l'Italia in quello stesso anno 1854; non si sentirà più di staccarsene, ma per altro nessuno gli dirà più d'andar via. Il Cavour è alla testa del Piemonte, sa dove vuole andare il suo Re, e sa pure che per avere con sè la Nazione, il Re deve tener conto sopratutto di quel proscritto. Ebbene, se nessuno vieta più omai a Garibaldi il suolo del Piemonte, divenuto asilo di tutti i profughi, Garibaldi non vi si fermerà. Egli non è fatto per vivere tra gli uomini la vita d'ogni giorno. C'è là nel mar di Sardegna un'isoletta, ch'egli ha veduta sin dal '49; e là con un po' di terra da coltivare, una casetta da starvi ch'egli fabbricherà da sè, umile come quella di Montevideo, e la quiete e la speranza potrà aspettare. Aveva allora quarantasette anni, un'altra primavera d'Italia pareva vicina, ma che venisse presto finchè c'era ancora un resto di gioventù! Passarono gli anni: fu la [58] guerra di Crimea e la spedizione piemontese, della quale forse neanch'egli capì gli intenti, perchè non uso a pigliar vie così traverse; ma l'atteggiamento del Piemonte, quel piantarsi di Vittorio Emanuele da Re italiano in faccia all'Austria, dovette por nel gran cuore del solitario generale la certezza d'una ripresa d'armi, come egli la vagheggiava.

E quando fu chiamato a dare il suo gran nome a quella Società Nazionale, che doveva raccoglier tutte le forze in un fascio, lo diede. Allora gli fu gridato che veniva meno alla parte repubblicana, cui tanto più doveva tenersi in quanto che egli era quel che era, perchè generale della Repubblica romana. Ma Garibaldi non si lasciò scuotere e stette. Fu quello uno dei fatti più eroici della sua vita. Sentimento e intelligenza delle cose patrie operarono allora in lui con piena armonia. Altri grande quanto lui ma sempre illuso lo biasimò, lo rampognò; ma egli stette, e il fatto fu uno dei più importanti di quel decennio, che la storia dovrebbe chiamare della saggezza.

E infatti il '59 parve una gran cosa riuscita, anche a coloro che neppure allora vollero riconoscere che il Generale aveva fatto bene. Certo, a vedere come anche a quella guerra il popolo italiano aveva dato poco di sè nell'azione, se non lo dissero, dovettero pensare che quei centotrentamila francesi non gli avrebbero potuti far venir essi a [59] combattere a lato degli italiani del Piemonte. E come senza essi si sarebbe vinto l'Austria con duecentocinquantamila uomini e novecento cannoni, e le fortezze in Lombardia? Garibaldi stesso disse poi a Don Verità, l'antico suo salvatore del quarantanove, che senza Napoleone neppur quell'anno si sarebbe riusciti a nulla. Che importava se quel romantico imperatore s'era fermato a mezzo? Intanto egli aveva messa l'Austria a doversene star sulla sinistra del Po, a vedere quel che sarebbe avvenuto nella penisola, senza potersi muovere; aveva consacrata la dottrina del non intervento lanciata invano trent'anni innanzi dalla monarchia di luglio; e legate così le mani all'Austria: al resto, Garibaldi si sentiva di pensar lui. Certo non si lusingava che Napoleone non avesse un qualche giorno a violare egli stesso il non intervento: ma per allora quel principio valeva mi esercito vero per l'Italia contro l'Austria costretta a starsi sulla sinistra del Po a guardare.

Sfumato il disegno neo-guelfo d'una federazione italiana, risognato un istante da Napoleone III dopo Villafranca; concorde con lui l'Inghilterra nel non intervento, Prussia e Russia non inclinate ad aiutare l'Austria, se mai avesse voluto impedire le annessioni della Toscana, dell'Emilia e della Romagna, l'ora era buona per pensare al resto d'Italia.

Ma allora Napoleone mise il prezzo di Nizza a [60] quelle annessioni, e il Cavour dovette cedere. Cedette forse troppo facilmente. Perciò il 12 aprile 1860 nella Camera dei deputati Garibaldi sorse a rampogne formidabili contro di lui. Pareva l'inizio di una guerra civile. Ma per buona sorte, la campana dei Francescani della Gancia in Palermo aveva sonato, otto giorni prima, a chiamar la Sicilia all'armi e l'Italia all'aiuto. Neppure per essere stato fatto quasi straniero all'Italia, Garibaldi, al grido della Sicilia, poteva star sordo. Neghi Achille il suo braccio per una prigioniera che gli è stata tolta, e rimanga pur grande quant'è in Omero; l'uomo moderno, se non sa sagrificar tutto sè stesso, eroe non è.

Di quei giorni, come gli amici di Orlando, che andavano in cerca di lui errante pel mondo, ecco in Torino il Bixio e il Crispi da Garibaldi. Gli parlano della Sicilia; l'unità d'Italia dipende da lui. Ed egli ascolta, s'accende, consente, e candido com'era ed aperto, va subito dal Re a chiedergli addirittura una brigata da menare in Sicilia. Voleva appunto quella comandata dal Sacchi, antico e caro suo portabandiera nella legione di Montevideo. Come deve esser rimasto Vittorio! Ora s'avverava ciò che egli aveva scritto poco prima a Francesco secondo: desse la libertà ai suoi popoli, si mettesse a far gareggiare il suo regno con quello di lui, chè se no, presto sarebbe tardi, e [61] forse verrebbe adoperato il nome dei Savoia contro i Borboni, senza che egli potesse opporsi.

Re Vittorio non aderì alla richiesta di Garibaldi; ma il Cavour gli diede libertà di fare. Bastava. Garibaldi vola a Genova, il 20 aprile è nella villa Spinola divenuta quartier generale di quel mondo d'uomini politici e militari, che si era formato come uno Stato nello Stato; ivi riceve notizie, dà ordini, si prepara al gran lancio. Ma le notizie di Sicilia vengono, mutano ogni giorno, sempre più scoraggianti; il 27 aprile par tutto finito laggiù; si sapeva già l'eccidio di Carini, ora si dice che gli insorti battuti e dispersi tengono appena le montagne, anzi che si vanno sciogliendo. Cade l'animo a tutti. Ma al Bertani, al Bixio, al Crispi, no. Questi si stringono al generale, Bixio chiede, supplica, implora d'essere lasciato andare almeno lui.... Almeno lui! Può Garibaldi lasciar ad altri si grande impresa? Titubanze terribili. Pure il primo maggio, in uno di quei tempestosi colloqui, di scatto, come per rispondere a una voce misteriosa che doveva! avere in sè, Garibaldi balza a dire: «Partiamo, ma subito!» Era fatto così! E allora tutti a serrare le file. «Si va! si va!» Furono quelli i più bei giorni d'Italia!

Bisogneranno navi! Ci pensa Bixio; lasciate tare a lui, egli non conosce l'impossibilità. Quanto agli uomini, solo a chiamarli saranno pronti, fin troppi.

[62]

E la sera del 5 maggio, che era di quelle che allagano i cuori di dolcezza, le belle vie di Genova videro una gentilezza nuova di portamenti sin nei più rudi uomini del volgo. I facchini stessi del porto, sempre così aspri, parvero allora cavallereschi. Si sapeva da tutti chi erano e dove si avviavano quei giovani forestieri, che s'aggiravano per la città, e ognuno che v'era, certo sa ancora dire di qualche tratto cortese, ricevuto in quella sera che con Garibaldi partiva.

Appena fu notte, una eletta di quei giovani scende al porto. Entrano in certe barcacce, vogano a due vapori che stanno ancorati, montano, mettono le mani sui marinai, li costringono a stare zitti, ad accendere le macchine, a ubbidire in tutto. Pirati veri non avrebbero saputo far meglio. Sapevano che il Governo chiudeva gli occhi, ma da un istante all'altro poteva essere costretto ad aprirli; e allora? Momenti di ansia mortale. Bisognava far presto. Ma tutto veniva bene, Bixio metteva l'anima sua fin nelle cose, soffiandola con parole terribili, imprimendola con gesti che facevano tremare i cuori. I due vapori furono presi.

E intanto, da Porta Pila, erano usciti i Mille. S'accalcavano alla Foce, sfilavano oltre il Bisagno per la Via di Quarto; qualcuno ricordava che tre anni prima il Pisacane s'era partito di là, per un'impresa come quella che si iniziava; qualcuno [63] salutò la Villa dove il Byron si era preparato al suo viaggio di Missolungi.

Alla Villa Spinola pareva una notte di festa. Gente di tutti i ceti vi si pigiava, confusa; v'erano delle donne, che piangevano d'esser donne; v'erano dei padri che v'avevano accompagnati i figli benedicendoli. Vi furono delle madri corse da lontano per tôrre via i loro cari da quel cimento; una, venuta fin dal Friuli, si udì pregar dal figlio di non obbligarlo a disubbidirle in un'ora così solenne. Ma tutta quella folla voleva veder Lui, Lui, in quel momento supremo. Ad ogni istante s'udiva una voce: «Eccolo!» No, era qualcuno che usciva dalla Villa a portar ordini chi sa dove. Eppure in quel fremito c'era una calma solenne. Verso le undici, come se davvero una corrente magnetica si fosse diffusa, fu sentito Lui.... Veniva fuori dal cancello della villa, in camicia rossa, con la sciabola sulla spalla a guisa di un arnese da agricoltore; traversò la via, passò per un rotto del muricciolo che vi fa riparo, e scese giù per gli scogli, nel piccolo seno già stipato di barche. La folla che aveva tenuto il respiro non osò mandare un grido, come avvertita da senso religioso di non turbare un mistero: e allora quasi nel silenzio, si ebbero il grande addio quelli che dovevano partire, sfilarono dietro Lui per quel rotto di muricciolo, entrarono muti nelle barche, presero il largo; già un [64] po' al largo udirono una voce alta limpida, lieta, chiamar: «La Masa» e un'altra voce rispondere «Generale». Poi più nulla.

E tu ridevi, stella di Venere,

Stella d'Italia, stella di Cesare

Non mai primavera più sacra

D'animi italici illuminasti.

Quando stava per farsi l'alba, apparvero i lumi dei due vapori venuti via dal porto. Furono lì in un lampo come fantasmi; le barche s'accostarono, e scale e corde e travi, tutto fu buono per quella gente a salire, come se fosse stata a un assalto. Ma Garibaldi dov'è? È sul Piemonte. - E come si chiama quest'altro vapore? e chi lo comanda? - Si chiama il Lombardo e lo comanda Bixio. - Ah, Bixio? Bene! - Pure un po' di malinconia si diffuse fra quei del Lombardo. Andavano alla ventura del mare, poteva accadere d'essere incontrati dalle navi napolitane: e allora? Se si doveva perire, i più fortunati sarebbero stati quelli, che nell'ultima ora avrebbero visto Lui. Intanto i due vapori, con quei nomi augurali, mossero via.

Da quella mossa cominciano i canti centrali del gran poema garibaldino. Proprio come in un'opera d'arte, il punto, il gran nodo dell'Epopea, sta tra Quarto e Teano, tra il 5 maggio e il 26 ottobre, tra la partenza clandestina da Corsaro, alla gloria di [65] gridare da Dittatore il Regno e il Re d'Italia là, dove si distruggeva un Reame che durava da settecentotrent'anni. Non lo confermarono il popolo e l'arte figurativa? I monumenti eretti per tutta Italia a Garibaldi lo rappresentano quale in quel tempo egli fu: rappresentano il Dittatore.

E ora, parlando della grand'epopea garibaldina, in questa Firenze, mi par giusto ricordare che qui, nel meditato dolore patriottico, Pietro Colletta scrisse la storia di quel Reame. Il soldato della Partenopea e poi del Murat, aveva visto finir in nulla l'impresa unitaria di Gioachino nel Quindici, e nel Venti la rivoluzione di Napoli non mirar più all'Italia, ma chiudersi nell'angusto concetto delle due Sicilie. Come doveva aver sanguinato quel cuore!

Ricaduta Napoli in balìa degli Austriaci restauratori della tirannide spergiura; cacciato egli a confine in Brünn di Moravia, a piè di quello Spielberg, dove pativano le durezze del carcere il Confalonieri, il Pellico, il Maroncelli e gli altri Carbonari, chi sa che, guardando lassù, non abbia pensato che se Marche, Umbria, Romagna, Toscana, Emilia, erano state indifferenti all'impresa di Gioachino, o l'avevano quasi derisa; se allora i Lombardi stavano lassù condannati; se i Piemontesi ramingavano pel mondo, e s'egli stesso napoletano, era là; tutto era avvenuto perchè erano mancati tra Italiani e Italiani la stima e l'amore? E forse gli nacque allora [66] appunto il pensiero di rivelare all'Italia del settentrione la grandezza e i martirii dell'Italia meridionale, e nella sconsolata anima dubitando anche di essere inteso, gli sonò la pagina finale della sua storia, che pare un coro fatidico di cupa tragedia antica. E scriveva:

«In sei lustri centomila Napoletani perirono di varia morte, tutti per causa di pubblica libertà e di amore d'Italia; e le altre italiche genti, oziose ed intere, serve a straniero impero, tacite, o plaudenti, oltraggiano la miseria dei vinti; nel quale dispregio, ingiusto e codardo, sta scolpita la durevole loro servitù, infino a tanto che braccio altrui, quasi a malgrado, le sollevi da quella bassezza. Infausto presagio che vorremmo fallace; ma discende dalle narrate istorie, e si farà manifesto agli avvenire, i quali ho fede che, imparando dai vizi nostri le contrarie virtù, concederanno al popolo napoletano (misero ed operoso, irrequieto, ma di meglio) qualche sospiro di pietà, e qualche lode; sterile mercede che i presenti gli negano.»

Ora l'anima del Colletta, dalle sedi degli eroi poteva esultare; l'Italia settentrionale mandava all'umile Italia serva di laggiù, quel manipolo e quel Liberatore.

All'alba, i due vapori stavano già per girare il promontorio di Portofino, quando si fermarono quasi di colpo. Perchè? Si seppe poi. In quelle [67] acque dovevano trovarsi ad aspettarli, certe barche cariche di munizioni: ma guarda di qua, guarda di là non si vede nulla. Che fare? Garibaldi alzò gli occhi al cielo come soleva, e ordinò di andare avanti.... «Le munizioni si piglierebbero dove si potrebbe, magari al nemico.»

Così tutto quel giorno 6 e sino alla mattina dell'altro appresso, i due vapori navigarono di conserva. In quel secondo mattino della traversata, fu letto sulle due navi l'ordine del giorno di Garibaldi.

Ribattezzava Cacciatori delle Alpi i militi della spedizione; parlava di devozione, di soddisfazione della incontaminata coscienza, come solo premio. L'organizzazione sarebbe come quella dell'esercito ch'ei chiamava non più piemontese ma italiano; il grido di guerra: Italia e Vittorio Emanuele.

Bisogna dirlo, quel grido non piacque a tutti. Prevaleva nella spedizione l'elemento repubblicano: la rivoluzione di Sicilia e la impresa d'aiutarla era opera di Mazzini, ma in quegli anni il vento spirava dalla parte della concordia. E poi! se quel grido lo dava Garibaldi, doveva essere tenuto pel buono, perchè egli in quel fatto era tutto.

Intanto si vedeva lì in faccia la riva, un villaggio, una torre su cui sventolava la bandiera tricolore.

Era Talamone.

Come se il fato valesse ancora nella vita dei [68] popoli e dei Re, proprio là in quel riposto seno della terra Toscana già Stato dei Presidii, piantato dagli Spagnuoli nel fianco del Granducato, Garibaldi fatti scendere a terra i Mille, sceso egli stesso vestito da generale dell'esercito piemontese, doveva pigliarsi tre cannoni da sei e una vecchia colubrina forse del Seicento, con centomila cartucce, per andare a spegnere nelle Due Sicilie il regno spagnolo!

E là, in Talamone, Garibaldi fece dar forme alla spedizione; quartier generale, stato maggiore, intendenza, corpo sanitario, genio, compagnie, carabinieri genovesi, guide, tutto fu fatto alla brava e rapidamente.

* * *

Il colonnello ungherese Stefano Türr fu primo aiutante di campo del Generale. Aveva allora trentacinque anni. E sapeva cos'era stato il dolore della sua Ungheria e quello dell'Italia nel Quarantanove. Sapeva cosa volevano dire le ansie del condannato a morte, liberato quasi all'ora del supplizio; e sapeva le gioie del cospiratore nell'impaziente attesa della riscossa. Aveva combattuto l'anno avanti sotto Garibaldi in Lombardia, e a Tre Ponti aveva sparso il suo sangue tra i cacciatori delle Alpi.

Ora egli era lì, a lato di quel Grande. Forse [69] quel contatto gli diè l'ultima tempra; e il Türr dopo la guerra di Sicilia doveva smettere le armi per darsi tutto alla vita civile. Fu diplomatico, consigliere d'alleanze, tagliatore d'Istmi, costruttore di canali; va ancor pel mondo, quasi ottuagenario, a far sentire la sua voce, dovunque bisogni gridare la pace e la libertà. Mille quattrocento anni fa, dal suo paese veniva Attila!

Ungherese come il Türr, un po' più giovane di lui, aiutante anch'esso del Generale, v'era il Tuköry, che veniva a offrir l'ingegno e la vita a quest'Italia, la quale, nel Cinquantanove, in certa guisa aveva disdetto la fratellanza di sventure e di speranze, che l'avevano legata fino allora alla patria sua. Diceva egli così senza raffaccio, ma con dolore; forse presago di dover morir presto, come morì di ferita toccata nell'assalto di Palermo. Ma Palermo liberata gli fece funerali che furono un'apoteosi, e chi li vide intende meglio quelli di Ettore in Omero.

Poi c'era il Cenni, di Comacchio, uomo di quarantatrè anni, avanzo di Roma e della ritirata di San Marino; uno tutto fremiti, che ad averlo vicino pareva di camminare col fuoco in mano presso una polveriera.

V'era l'ingegnere Montanari di Mirandola, anch'egli avanzo di Roma, che aveva trentott'anni e ne mostrava cinquanta, per la tetraggine che gli [70] avevano impresso le meditate sventure del paese. Ma, contrasto quasi d'arte, egli stava a lato un senese, che da giovane aveva fatto versi sembrati al Niccolini cose degne del Foscolo. Ne' suoi ventisei anni, bellissimo, forte, era sempre gaio come se gli cantasse una allodola in core. Era quel povero Bandi, che cinque ferite di piombo non poterono poi uccidere sul colle di Calatafimi, e doveva campare ancora trentacinque anni, per essere ucciso quasi vecchio e a ghiado, da uno a lui sconosciuto.

E c'era Giovanni Basso, nizzardo, ombra più che segretario del Generale, ch'egli aveva visto sublime a Roma, umile ma ancor più sublime da povero candelaio alla Nuova York. E c'erano il Crispi allora poco conosciuto, e l'Elia anconitano, che poi a Calatafimi fu quasi ucciso mentre si lanciava a coprire Garibaldi. C'erano il Griziotti pavese di trentott'anni, uomo di bella mente ma di cuore più bello ancora; e il Gusmaroli di cinquanta, antico parroco del Mantovano, che come l'Eroe dell'Enriade, andava tra quei che uccidono, senza difendersi e senza mai pensare ad uccidere. Ma il tocco michelangiolesco lo metteva in quel gruppo Simone Schiaffino, bel capitano di mare, che pareva andasse studiando Garibaldi, per divenir simile a lui nell'anima, come gli somigliava già un po' nel volto; biondo come lui, assai più aitante di lui, con un petto da contenervi cento cuori [71] d'eroe. Vai, vai o giovane sognatore, nato a campar forse novant'anni, vai! tra otto giorni cadrai sul colle di Calatafimi con la bandiera in pugno, nell'ora quasi disperata della battaglia. Ma avrai questo onore, che a chi gli dirà la tua morte, Garibaldi griderà se gli sembri quello il momento di annunziargli una pubblica sciagura! A quale età, dopo quali alte fortune, avresti potuto meritare un elogio funebre come quello? Era detto da lui, mentre si combatteva su quel colle per far l'unità d'Italia, o perderla forse per sempre.

Allo Stato maggiore generale presiedeva il Sirtori. Antico sacerdote, aveva chiuso per sempre il suo breviario, portandone scolpito il contenuto nel cuore casto, e serbando nella vita la severità e la povertà dell'asceta claustrale. Spirito rigido, cuore intrepido, ingegno poderoso, nel Quarantanove, con l'Ulloa napoletano, era stato ispiratore del generale Pepe nella difesa di Venezia. Poi, esule in Parigi, aveva visto indignato, trionfare Napoleone III. E la vita gli si era fatta un gran lutto. Non aveva perdonato all'Imperatore il 2 dicembre, neppure vedendolo poi scender nel Cinquantanove con centotrentamila francesi a liberargli la sua Lombardia; anzi, antico soldato della patria, s'era astenuto dal venire a quella guerra imperiale. Ma la guerra stessa, com'era seguìta, gli aveva insegnato a non [72] illudersi più. Ed era a quarantasette anni, era lì con quella sua faccia patita, incorniciata da una strana barba bionda, esile alquanto della persona, silenzioso, guardato come se portasse in sè qualcosa di sacro, forse le promesse dell'oltretomba; pareva il Turpino di quelle gesta.

Da lui dipendevano, come capitani, un Bruzzesi romano di trentasette anni; il matematico Calvino esule trapanese di quarant'anni, Achille Maiocchi milanese di trentanove e Giorgio Manin, figlio del gran Presidente della repubblica veneziana, che non ne aveva ancor trenta.

Ufficiali minori seguivano Ignazio Calona palermitano, un gran bel sessagenario che a guardarlo nel viso pareva di leggere le poesie del Meli: seguiva il mantovano ingegner Borchetta di trentadue anni, gran repubblicano; ultimo v'era un giovane tenente dell'esercito piemontese, disertato a portar tra i Mille il suo cuore. Questi doveva morire a Calatafimi sotto il nome di De Amicis, ma veramente si chiamava Costantino Pagani.

E poi veniva il grosso del piccolo esercito; e qui siamo al secondo libro dell'Iliade:

Della turba...... io nè parole

Farò nè nome, che bastanti a questo

Non dieci lingue mi sarian nè dieci

Bocche, nè voce pur di ferreo petto.

[73]

Di tutta l'oste

Divisar la memoria altri non puote

Che l'alme figlie dell'Egioco Giove:

Sol dunque i Duci....... accenno.

* * *

Alla testa della prima compagnia, chi se non Bixio? Pareva uno, chiamato al mondo in un momento di grande ira da un padre, che offeso per chi sa quale perfidia della vita, si fosse rifugiato nel seno della famiglia amata per non morir di collera o di dolore. Era nato nel 1821 in Genova, allora davvero piena d'ira per essere stata messa sotto il Piemonte. Stolta Santa alleanza! Per uccidere una repubblica, aveva sottomesso al Re di Sardegna la città che per bocca di Giuseppe Mazzini, doveva poi dare quel grido che si sarebbe risolto nella fine del regno Sardo e nella creazione di quello d'Italia!

Era quel Bixio che già nel Quarantasette, in una via di Genova, fattosi alle briglie del cavallo di Carlo Alberto, gli aveva gridato: «Dichiarate, o Sire, la guerra all'Austria e saremo tutti con voi!» Nel Quarantotto era volato in Lombardia con Mameli; con Mameli era stato a Roma dove era parso l'Aiace della difesa, e il 30 aprile vi aveva fatto prigioniero tutto un battaglione di francesi. Poi aveva navigato; nel Cinquantanove aveva riprese l'armi, non qui riluttante a fare la guerra regia, e facendola [74] bene: adesso era capitano del Lombardo, ma in terra avrebbe comandata la prima compagnia.

Il Dezza ingegnere e il Piva che dovevano divenire generali dell'esercito italiano, erano suoi luogotenenti; e sergenti e soldati, benchè fior d'uomini tutti, badassero bene con chi avevano da fare, chè con lui, non dico paurosi, ma solo inesperti o disattenti o svogliati c'era da essere inceneriti.

Egli doveva essere alla fine uno dei grandi che conducono eserciti, ma dapprima guardato con qualche sospetto, poi apprezzato, poi riconosciuto: e sei anni dopo, la sera della battaglia di Custoza, il generale Della Rocca, personificazione del militarismo di scuola, osò dire di lui a Vittorio Emanuele che lo mettesse alla testa dell'esercito per la pronta rivincita. Anche il Bixio era uomo eroico nel senso largo e moderno: compita l'Italia, entrato nel Settanta in quella Roma da cui era uscito vinto nel Quarantanove, ripigliava le vie dei mari, e andava cercando in Oriente come far ricca l'Italia.

La seconda compagnia detta dei Livornesi, perchè livornesi erano quasi tutti i suoi ufficiali e sott'ufficiali, fu affidata a un Orsini palermitano, uomo già di quarantacinque anni, ufficiale d'artiglieria borbonico da giovane, e poi della isola sua nella rivoluzione del 1848. Da quell'anno era vissuto esule in Levante ai servizi della Turchia, colonnello dell'arma nei cui studi era stato allevato.

[75]

Per la stessa ragione che la seconda fu chiamata dei Livornesi, la terza compagnia poteva dirsi dei Calabresi, perchè calabresi erano lo Sprovieri che la comandava e Lamenza e Piccoli e Santelmo suoi ufficiali. V'erano inquadrati degli uomini come il Braico, il Carbonelli, il Damis, il Mauro, il Mignogna, il Plutino, lo Stocco, il Miceli, e medici, e avvocati, e ingegneri e futuri ministri, e generali, tutti fra i trentasei e i cinquant'anni, tutti di Calabria e di Puglia, e molti vissuti dieci anni compagni del Poerio, del Settembrini, del Duca di Castromediano, nelle galere di Montefusco o di Montesarchio, dove, invece di custodi pietosi come lo Schiller e il Kubinsky dello Spielberg, avevano trovato dei birri appena degni di stare nella Caina di Dante.

La quarta compagnia toccò al La Masa, siciliano di Trabia, esule quarantenne. Era un singolare uomo costui! Con un'aria tra d'arcade romantico e di evangelista, grandi cose doveva aver sentite di sè e grandissime essersene augurate. E sin a un certo punto le aveva conseguìte. Si diceva di lui che nel gennaio del 48 aveva decretata da sè la rivoluzione per il dodici preciso, genetliaco del Borbone, firmando audacemente col proprio nome, per un Comitato che non esisteva, il bando di guerra.

Alcuni conoscevano di lui tre volumi di Storia della rivoluzione siciliana di quell'anno grande: pochi sapevano che in Brescia dov'era andato crociato alla [76] guerra lombarda, aveva sposata la duchessa Bevilacqua, sorella di quell'Alessandro finito a Sommacampagna sotto le sciabole dei croati. Biondo, esile, quasi bello, il La Masa parea più uno scandinavo che un siciliano. Forse aveva nelle sue vene un rigagnoletto di sangue normanno. E ambizioso dicono che fosse assai, e forse fin sognatore d'un restaurato Regno con lui Re dell'isola, dove tornava dopo averne quasi conquistato un altro nell'Italia settentrionale, tante erano le ricchezze della casa dei Bevilacqua.

Alla testa della quinta compagnia sonava il nome degli Anfossi nizzardi, glorioso pel caduto delle cinque giornate di Milano. Ma ahimè! il vivo non era del valor del morto. Però la inquadravano degli ufficiali subalterni che bastavano a raccoglier l'anima della compagnia come un'arma corta nel pugno. V'era tra essi il Tanara, una specie di Rinaldo combattente per la giustizia in un mondo che a lui fu ingiusto e che non seppe mai il cuore ch'egli ebbe. In quella compagnia, nulla di regionale. C'erano un centinaio di uomini di tutte le terre italiane, vi si sentivano tutte le nostre parlate, vi si vedevano delle teste di tutte le tinte, e di grigie e di già bianche parecchie.

Ma ecco alla sesta il più bello degli otto capitani. Era un biondo di trentatrè anni, alto, snello, [77] elegante. Si sarebbe detto che se avesse voluto volare, subito gli si sarebbero aperte dal dosso ali di cherubino. Parlava un bell'italiano, con leggero accento meridionale, gestiva sobrio e grazioso come un parigino; nel portamento pareva un soldato di mestiere, negli atti e nei discorsi un Creso vissuto tra le delizie dell'arte, in qualche gran palazzo da Mecenate. Si chiamava Giacinto Carini, nome di borghesi e nome anche di Principi siciliani, che a lui già nobilissimo della persona, dava un'aria alta e singolarmente aristocratica. In lui v'era il generale che sei anni dopo avrebbe comandata una divisione italiana all'attacco di Borgoforte; e da lui fu detto un giorno che se alla morte di Pio IX fosse venuto, come venne, al seggio di San Pietro il Vescovo di Perugia ch'ei ben conosceva, l'Italia avrebbe avuto il Papa iniziatore di quella vita che ancor si aspetta.

Sfila la settima compagnia, studenti dell'università pavese, lombardi, milanesi eleganti ricchi e prodi, e veneti che la graziosa mollezza natia, temperavano alla baldanzosa audacia dei compagni nati tra l'Adda e il Ticino.

La comandava il Cairoli di trentacinque anni, e pareva così contento, aveva un'aria così paterna, che uno avrebbe detto: «Certo a costui è stato dato ogni suo soldato da ogni madre in persona, perchè se non è necessario sacrificarlo glielo riconduca [78] puro e migliore.» Ah il contatto con quell'anima! Molti vanno ancora pel mondo, che vissero giovanetti sotto quell'occhio, in quei giorni di altissima scuola, e ne portano la luce e l'esempio tra la gente, che pur divenuta scettica, crede, non ostante tutto, che un mondo migliore sia stato.... e assetata di bene spera che torni.

E l'ultima era l'ottava. L'aveva raccolta quasi tutta nella sua Bergamo, Francesco Nullo, che la dava bell'e fatta ad Angelo Bassini pavese, certo di darla a chi l'avrebbe condotta da bravo. Era il Bassini un uomo che se avesse lanciato il suo cuore in aria, questo avrebbe mandata luce come il sole, e se lo avesse gettato nell'inferno, avrebbe fatto divenir buono Satana stesso. Lo dicevano coloro che avevano lette già le poesie di Petöfi. A Roma il 3 giugno del 49, nell'ora dello sterminio, s'era avventato quasi solo contro i francesi di Villa Corsini, percotendo, insultando, gridando a chi volesse ammazzarlo; e nessuno lo aveva ucciso. Aveva una testa che sembrava una mazza d'armi, ma l'espressione della sua faccia, ricordava quella di certi santi anacoreti. Sapeva poco, discorreva poco, ostinato nell'idea che gli si piantava nel capo, a chi lo vinceva di prove gridava: «Appiccati!» ma lo abbracciava, e gli dava subito retta intenerito e devoto. Per tutte queste sue doti, e perchè, aveva già quarantacinque anni, gli si erano lasciati volentieri metter sotto, [79] Vittore Tasca, Luigi Dall'Oro, Daniele Piccinini, coi loro bergamaschi, quasi un centinaio e mezzo di quella gente Orobia, quadrata e intrepida sempre, sia che scelga la patria per suo culto, sia che ad altri ideali volga il pensiero: quella che parve ai siciliani formidabile per gli ardimenti, e per la serena fidanza nei vini dell'isola, bevuti ai banchetti liberamente, senza perdere dignità nè d'atti nè di parole. Non erano certo gli Ippomolgi di Omero, piissimi mortali.

Che di latte nudriti a lunga etade

Producono i lor dì.

* * *

Ora ecco i Carabinieri genovesi, quarantatrè, quasi tutti di Genova, o in Genova vissuti a lungo, armati di carabine loro proprie, esercitati al tiro a segno da otto o nove anni i più, gente che s'era già fatta ammirare nel 1859, ben provveduta, colta, elegante.

Li comandava Antonio Mosto, uomo non molto sopra i trent'anni, ma che ne mostrava di più: barba piena, lunga, sguardo acuto, ficcato lontano traverso agli occhiali a suste d'oro, come per guardare se al mondo esistesse il bene quale ei lo sentiva in sè. Quanto al coraggio era per lui cosa tanto sua, che non poteva credere vi fosse altri che non ne avesse.

[80]

Suo luogotenente era Bartolomeo Savi, un fierissimo repubblicano tutto nudrito di studi classici, e già ben sopra la quarantina; uomo austero e cruccioso, che guardava sempre con certo piglio di rimprovero Garibaldi, perchè s'era lasciato tirar dalla parte del Re. Ma lo seguiva, e lo seguì poi fino al giorno che, dopo Aspromonte, tutto gli parve falsato, e poco appresso tediato della vita si uccise.

Inquadravano la compagnia Canzio, Burlando, Uziel, Sartorio, Belleno; e tra tutti, quei quarantatrè dovevan pagare un gran tributo nel primo scontro a Calatafimi. Cinque morirono, dieci vi furono feriti, ma la vittoria si dovette in parte alle loro infallibili carabine.

* * *

Non s'avevan cavalli, nè c'era tempo di far una corsa nella vicina maremma per pigliarne al laccio un branco; ma le Guide furono ordinate lo stesso. Erano ventitrè. Le comandava il Missori, l'elegantissimo milanese, passato dal culto delle Grazie a quello della sciabola, ma da prode. Suo sergente era Francesco Nullo, il più bell'uomo della spedizione. E avevano compagni dei giovanetti come il conte Manci di Trento, che pareva una fanciulla travestita da uomo, e dei vecchi di sessant'anni come Alessandro Fasola, carbonaro [81] del 1821 col Santa Rosa, allora corso a quell'impresa con la baldanza d'un ragazzo, che fa la sua prima volata fuori della casa materna.

E come in Talamone s'ebbero i tre cannoni d'Orbetello, e la colubrina levata da quel castelluccio, fu formata l'artiglieria alla cui testa fu messo l'Orsini. Povera artiglieria! Pareva davvero una cosa da celia, ma laggiù nell'isola fu poi vista a una prova da cui forse dipese la sorte della spedizione.

Capo dell'Intendenza fu l'Acerbi, avanzo dei martirii di Mantova, e aveva seco uomini come Ippolito Nievo, e il Bovi, il Maestri, il Rodi, tre veterani questi ultimi, mutilati ciascuno d'un braccio, che parevano venuti per dire ai giovani: «Vedete? Eppure ciò non fa male!»

In quanto al corpo sanitario fu affidato al dottor Ripari cremonese, vecchio avanzo delle catene politiche dell'Austria e di Roma; e gli erano compagni il Boldrini mantovano e il Ziliani da Brescia, valenti medici e grandi soldati. E poi di medici ve n'erano in tutte le compagnie, combattenti dei migliori, e da combattenti infermieri.

La storia dovrebbe aver già detto e dirà che quella spedizione fu più che per metà composta d'uomini di studio e d'intelletto. Ne contava più d'un centinaio e mezzo che erano già o divennero [82] poi avvocati, e così contava quasi un centinaio di medici, un mezzo centinaio d'ingegneri, una ventina di farmacisti, trenta capitani marittimi, dieci pittori o scultori, parecchi scrittori e professori di lettere e di scienze, tre sacerdoti, alcuni seminaristi, una donna: poi centinaia di commercianti, e centinaia d'artefici, operai il resto, contadini nessuno. E non sarà inutile dire che una quarta parte di quegli uomini era d'età fra i trenta e i quarant'anni; che un altro bel numero erano tra i quaranta e i cinquanta: forse un dugento, n'avevano da venticinque a trenta; i più erano tra i diciotto e i venticinque. Il vecchissimo era un genovese nato nel 1791, che da giovinetto aveva militato sotto Napoleone; il giovanissimo era un fanciullo d'undici anni, menato seco dal proprio padre medico vicentino.

Non sarà inutile di aggiungere che trecentocinquanta di quegli uomini erano lombardi, centosessanta genovesi, il resto veneti, trentini, istriani e delle altre provincie dell'Italia superiore, con forse un centinaio di siciliani e napoletani tornanti dall'esilio. Stranieri accorsi per amor d'Italia ve n'erano diciotto, uno dei quali africano, l'altro d'America ed era il figlio del Generale.

[83]

* * *

La sera dell'8 maggio Garibaldi rimbarcò la spedizione, e non per salpare ma per passar quella notte all'àncora nella rada. Temeva che il Ricasoli mandasse a fermarlo! La mattina del 9 i due vapori salpano, toccano Santo Stefano, vi stanno poco, poi via verso scirocco, navigano tutto quel giorno e la notte e quello appresso. A una certa ora del 10 il Piemonte lascia addietro il Lombardo, e va, va, va, finchè sparisce.

Ah! che nuova stretta per quei che navigavano sul Lombardo! Il Bixio in un momento che uno aveva osato mormorare contro di lui, mandò tutti a poppa, e gridò che il Generale gli aveva ordinato di sbarcarli in Sicilia, e che in Sicilia li avrebbe sbarcati, che là lo avrebbero appiccato, se così avessero osato, al primo albero che si sarebbe incontrato, ma in Sicilia giurava di sbarcarli. Parole che lasciavano il segno nell'aria come saette, e mettevano il fuoco nei petti e nelle teste. E quel Piemonte che se n'andava avanti da solo, s'era portato via i cuori. La sera non si vedeva più, e la malinconia era grande come l'ora del mare.

Ma verso la mezzanotte il Bixio che stava sul ponte del comando, vide e fremette. Una nave, a lumi spenti, sorgeva innanzi a lui come un'ombra; e pareva venisse.... Era la morte? Ah! non a lui si [84] poteva correre addosso per colarlo a fondo! Egli era uomo da arrembaggio. Su! dà la sveglia, tutti si destano, le baionette s'innastano, ognuno sta pronto; e il timoniere badi, viri e via; ora a quella nave, va addosso il Bixio. Mancava poco a dar l'urto, e sarebbe stato tremendo. Senonchè, una voce gridò: «Capitan Bixio! Volete mandarmi a fondo?» «Oh! indietro, indietro alle macchine - grida Bixio - Generale, non vedevo i fanali!»

«Siamo nella crociera nemica», soggiunse tranquillo Garibaldi. I cuori s'apersero, Garibaldi, il Signor del mare, in quell'incontro salvava tutti.

E insieme con Bixio, concertato d'allargarsi, navigarono di conserva il resto della notte. La mattina dell'11, videro il gruppo delle Egadi, che parevano venute su allora dal mare, verdi di tutti i toni, con rocce splendenti in alto, con una zona d'argento ai piedi; e più in là appariva la costa dell'isola. «La Sicilia, la Sicilia!» I Siciliani della spedizione se la bevevano cogli occhi, gridavano, benedicevano, abbracciavano gli altri; cose che nessuna lingua potrebbe narrare. Che città è quella? Marsala!

Ma poi fu un volgersi di tutti a poppa, per guardare due navi, che correvano a vista d'occhio dietro di loro: «Avanti! Avanti!» Bixio gridava ai marinai che chi gli sbagliasse una manovra, sarebbe impiccato all'albero di maestra.

[85]

Marsala era ancora lontana, ma sembrava che la terra stessa venisse incontro ai due vapori, da tanto che questi correvano. E gli altri inseguivano, come leonesse in furia dietro a' cacciatori che avessero loro rapito i lioncelli. Alla fine ecco il porto! Il Piemonte lo imbocca e maestoso vi si pianta; Bixio investe col Lombardo contro la spiaggia. Era l'una pomeridiana.

Cosa voleva dire quell'imbandierarsi d'una piccola nave da guerra, ancorata a sinistra del Lombardo, e quell'imbandierarsi di due grosse navi, ancorate a destra del Piemonte? Un marinaio del Lombardo spiegava che quella piccola era una nave borbonica, che invitava le navi grandi, che erano inglesi, a ritirarsi, perchè voleva far fuoco sui due vapori giunti. Rispondevano gli inglesi che avevano i loro ufficiali a terra, che le loro macchine non erano sotto pressione, e che però aspettassero un poco. Così almeno spiegava il marinaio del Lombardo tutto quello sciorinar di bandiere. E fu questo tutto l'aiuto inglese, di cui tanto si disse e si scrive ancora. Non però fu cosa da poco, perchè intanto la gente del Piemonte e del Lombardo si gettava giù nelle barche, e via vogava a terra. Ma presto le due navi che inseguivano, venute a tiro, si misero a farle addosso le cannonate. Povero Stromboli, povera Partenope! In poco più forse d'un'ora, tutta la spedizione fu a terra; un po' di sosta a ordinarsi, e poi [86] una corsa a compagnie; carponi, ritti, come ognuno sapeva, tutti entrarono in Marsala.

I cittadini trasognati, sbigottiti, non sapevano ancora cosa fosse quel cannoneggiamento, nè chi fossero quegli uomini nuovi che invadevano la città con l'armi in pugno, quasi tutti vestiti in borghese. Ma come seppero che era con essi Garibaldi, tutta la città balenò di una gran gioia, non s'udì più che il gran nome, parve che la rivoluzione vera della Sicilia cominciasse in quel momento.

Quanto a Lui, disceso dal Piemonte, aveva messo il piede sul suolo dell'isola come su terra già sua; era salito nella città col passo lento d'Aiace, come se le cannonate non potessero toccarlo; forse in quel momento sentì che per la prima volta in sua vita, si trovava a entrar nell'azione, senz'altra autorità sopra di sè, libero e primo come la natura lo aveva fatto, e vide come in una prospettiva infinita chi sa quali grandi cose da farsi!

E nella reggia di Napoli, cosa sarà stato in quell'ora? Quali sgomenti, quali pianti, quali furie? Erano stati dati ordini alla flotta, di colar a fondo i due vapori salvando le apparenze, e questo si seppe poi. Invece, il gran nemico di dieci anni prima, quello stesso di Velletri e di Palestrina, era sbarcato in terra del Regno, nel punto più lontano da Napoli sì, ma insomma era sbarcato; e forse fin da quel momento la reggia si sentì vinta. A quarant'anni [87] di distanza, vien su dal cuore un senso strano di compassione.

Lo Stromboli e la Partenope si sfogarono il resto della giornata a tirar cannonate, ma non proprio per bombardar Marsala, che s'era coperta di bandiere inglesi. Venne la notte, passò, spuntò l'alba; e i Mille erano già fuori della città pronti a marciare.

Forse al Salto, o il 30 aprile a Roma, o a San Fermo vincitore, Garibaldi non fu così bello e raggiante come in quell'alba del 12 maggio, lì fuor di Marsala tra quei suoi Mille, che egli metteva in cammino verso l'ignoto. Di lì vedeva il Piemonte menato via a rimorchio dalle fregate borboniche, il Lombardo piegato su di un fianco e mezzo sommerso. E ciò voleva dire che in quei Mille doveva essersi piantato il sentimento, di non aver più a fare nulla col mondo di fuori dell'isola, e che da quel campo chiuso non sarebbero più potuti uscire se non vincitori.

Dunque o vincitori, o morti, o galeotti nelle galere borboniche! Di là si vedevano bene le Egadi, smeraldi al sole, e si sapeva che nelle loro viscere, nell'orrida prigione, profonda sotto il livello del mare, giacevano quei di Sapri, i loro precursori!

Trombe in testa, partirono. E va, va, va come nelle novelle; fatti due o tre chilometri tra vigneti, la colonna marciò poi tutta la prima giornata sotto [88] quel sole che pareva colasse piombo, per un deserto senz'acqua, senz'alberi, senza coltura. Non videro un villaggio, non un ciuffo di case, nulla, tranne qualche branco di cavalli e qualche capanna che mettevano lo sgomento della vita in quelle solitudini sterminate. Ma verso il tramonto, apparve un gran casone su d'un poggio. Pagina da Cervantes. Forse la fata morgana? Era il feudo di Rampagallo. Allora la parola feudo rivelò tutta una storia. Chi la aveva mai intesa dire con sotto agli occhi la cosa vera? Lì dunque era il medioevo ancora in azione? Fu un senso di sgomento. Accamparono intorno. E nel crepuscolo alcuni ufficiali, che stavano aggruppati a discorrere sulla gran porta dell'immenso cortile di quel casone, udirono uno mettere nei loro discorsi la nota veridica. «Avete badato a quel deserto tutt'oggi? Si direbbe che siam venuti per aiutare i Siciliani a liberar la terra dall'ozio!» Era un uomo gigantesco, forse di trentacinque anni, si chiamava Rainero Taddei, era ingegnere. La sorte gli serbava la gloria di morire sei anni dopo, tenente colonnello a Custoza; ma per lui il posto da invecchiarvi lavorando, sarebbe stato là in quel feudo di Rampagallo, per morirvi dopo aver fatto fiorire tutto quell'immenso deserto, sul quale quella sera disse la verità dolorosa.

La notte furono visti i primi insorti Picciotti: una cinquantina. Venivano a raggiungere il Generale, [89] condotti dai baroni Sant'Anna e Mocarta. Vestivano di pelli di capra come fauni, erano armati di fucili da caccia che chiamavano scoppette, qualcuno aveva le pistole alla cintola e il pugnale. Le loro facce erano fiere, ma a trovarsi tra quelle compagnie giunte d'oltremare, come i conquistatori delle loro leggende, parevano trasognati. Garibaldi li accolse, li incantò subito, li tenne seco. Erano pur pochi, ma insomma riconoscevano in lui il Duce e la rivoluzione unitaria.

Il giorno appresso a Salemi, dove i Mille giunsero sul mezzodì, fu ben altro. Tutte le campane sonavano a gloria, tutta la popolazione veniva loro incontro fuori di sè. E quando apparve il Generale fu addirittura un delirio; v'erano già le squadre di Monte San Giuliano, forse un migliaio di altri picciotti, e si dicevano cose meravigliose di altre squadre in cammino dalle terre intorno che venivano a Lui. Ma ahi quanti poveri, quante mani tese a mendicare, quanto squallore! A Salemi, su quel cocuzzolo di monte, egli si proclamò Dittatore per la libertà.

Spese lassù due giorni a far dare l'ultimo assetto alle compagnie. E all'alba del 15 queste scendevano da Salemi, già avvisate che a nove o dieci miglia di là, si sarebbero trovate in faccia al nemico. E marciavano gioconde per la via consolare fino al villaggio di Vita, da dove la gente fuggiva gridando loro: «Meschini! meschini!»

[90]

Era ancora sgomenta dagli eccidi del Quarantanove! E si capì cosa volesse dire quel compianto, perchè apparvero subito le guide garibaldine, che tornavano in dietro di mezzo trotto, recando che di là dal colle il nemico era in posizione, e ben grosso.

Sereno, lieto, quasi giovane, giunse allora Garibaldi. Poche parole, uno squillo, le compagnie furono mosse su per una collina brulla, s'arrampicarono, giunsero in cima, e di lassù videro l'altra collina in faccia balenar d'armi.

Ora dunque era il momento di trar le sorti. E forse Garibaldi sperò che, a quel primo incontro, i Napoletani pigliassero chi sa quale risoluzione che facesse risparmiare il sangue, perchè stette a guardarli a lungo, circondato dal Türr, dal Sirtori, dal Tuköry? O lo sperò quando disse di portar nel punto più alto la bandiera tricolore e di farla sventolare? Insomma volle essere l'assalito, egli che pur era disceso nell'isola da assalitore! Quella, a sentir bene, era guerra civile.

Ma verso il tocco e mezzo, il comandante napoletano mosse i suoi cacciatori giù per il pendio delle sue posizioni. Discesero questi a catene, snelli nelle loro divise turchine, furono presto nel piano che stava fra i due colli, e dal basso in su cominciarono i loro fuochi. «Non rispondete! non rispondete!» gridavano i capitani ai Garibaldini; e [91] in verità facevano bene, perchè le venti cartucce ch'erano state date a ogni milite se ne sarebbero presto andate; così per parecchio, quei militi stettero freddi e immobili al fuoco; cosa da veterani.

Ma poi s'udirono alcuni colpi dei carabinieri genovesi, fu sonata la diana, e il passo di corsa; sonava il trombettiere del Generale.

Le compagnie si levarono, si serrarono, poi si apersero e precipitarono giù larghe in un lampo. Pioveva su di esse il piombo come gragnuola, e rombò anche la mitraglia; esse traversarono agilissime quel tratto piano sin a piè delle posizioni dei Napoletani. E pareva che sarebbero volate su come stormi di falchi; però quando furono a salire e guardarono in su, capirono che la giornata voleva essere sanguinosa. Il terreno era erto, l'erta fatta a terrazzi, i terrazzi parecchi: e a ogni terrazzo una schiera nemica che faceva fuochi di battaglione.

I tecnici della guerra, pensano che Garibaldi abbia osato troppo andando a mettersi nel caso di dover accettare il combattimento, in condizioni sfavorevolissime pel numero e per le forti posizioni del nemico. Certo osò molto! Ma l'indugio a cercar la battaglia, e lì la più sapiente manovra per la più bella delle ritirate sarebbero stati senz'altro la sconfitta. Egli era come un gladiatore nel Circo; sentiva che egli e i suoi, poichè erano venuti d'oltremare [92] per questo, lì sotto gli occhi delle squadre siciliane, e della gente che si vedeva gremita sulle alture intorno, come sui gradini di un anfiteatro, dovevano affermarsi coll'azione pronta quali che fossero i rischi; altro non era concesso che il cimentarsi, fossero anche stati i nemici dieci volte più forti: scansando egli il combattimento, l'anima siciliana non avrebbe più compresi nè quegli uomini per essa meravigliosi, nè Lui.

E questo, come se il Generale avesse una virtù comunicativa sovrumana, questo fu sentito da tutti i suoi, anche dai meno esperti. Laonde più che condotti, conducendosi ognuno da sè, presto le compagnie si ruppero, i militi si mescolarono, non vi furono più unità tattiche, ma gruppi, manipoli, branchi di assalitori, che investivano alla baionetta le schiere nemiche, le fugavano, si piantavano al loro posto per tornar ad investirle sul secondo di quei terrazzi, e poi sul terzo, e poi sul quarto, sin che quelle si ridussero tutte insieme sulla cima del colle, e vi si serrarono più dense e più forti. Allora parve impossibile di poterle ancora affrontare. E a guardare in giù i già morti e i feriti, che strage!

Mirabile a dirsi, il Sirtori era giunto sul suo gramo cavalluccio fin lassù, e sulla sua faccia pallida pareva espresso il desiderio di morire per tutti, giacchè l'ora era omai disperata.

Ma Garibaldi, a piedi, seguìto dal Bixio a cavallo, [93] che non lo lasciò quasi mai (come se venendo la rotta pensasse di pigliarselo su e fare il miracolo di salvarlo all'Italia), Garibaldi s'aggirava tra le file raccolte intorno al ciglio della vetta su cui i Regi urlavano «Viva» al loro lontano Re. E incorava con la sua parola tranquilla. «Riposate, figliuoli, riposate un altro poco, poi ancora uno sforzo e sarà finita.» Però vi fu chi gli vide negli occhi le lagrime.

Infatti c'era da temere che alla fine con un contrassalto improvviso, i Regi si precipitassero su quella siepe di vivi, che si era fatta intorno a quell'ultimo ciglio. Davvero bisognava finirla! E a un tratto s'udì gridare: «La bandiera è in pericolo!» E una bandiera fu vista portata avanti ondeggiare un poco, in una mischia che le si fece intorno stretta e terribile, poi sparire. In quel momento, fu ripreso su tutta la fronte l'assalto, l'ultimo, concorde, violento, furioso; s'udì l'ultimo colpo di un cannone che fu scaricato dai napoletani mentre alcuni garibaldini vi erano già alla bocca; poi i Regi in rotta rovinarono via per l'altro declivio del colle, e se n'andarono protetti dai fuochi in ritirata dei loro mirabili cacciatori.

Su quel colle, in quell'ora vespertina, in quella solitudine dell'isola, che dava a quei soldati il senso di esser fuori del mondo, l'unità d'Italia era moralmente fondata. Ora la Sicilia poteva osar [94] tutto, il primo atto del dramma era già la catastrofe dei Borboni.

Ma se i Regi avessero vinto? S'accapriccia il cuore, a immaginare Garibaldi rotto, i suoi a squadre a gruppi, a branchi, inseguiti, messi in caccia, uccisi per tutta quella terra; gli ultimi, ad uno ad uno, chi qua, chi là, scannati come fiere, fin sulle rive del mare, e la testa del Generale portata a Napoli chi sa da chi, che se la potesse guardare e finisse di tremare quel Re. Oh, questo poteva avvenire! In quel primo fatto d'armi, i Regi non avrebbero dato quartiere. E aveva veduto ben giusto Garibaldi, quando nel momento che la lotta pareva più disperata, avendo Bixio osato dirgli: «Generale, temo che bisognerà ritirarsi» egli aveva risposto con calma solenne: «Ma che dite mai, Nino? Qua si fa l'Italia, o si muore!»

Invece il giorno appresso, tutto era gioia, e suonò il grand'ordine del giorno: «Soldati della libertà italiana, con compagni come voi posso tentare ogni cosa!» Parlava la verità; perchè di quei compagni trentuno erano rimasti morti sul campo, centottantadue giacevano feriti; e perchè egli nel fatto d'arme, avviato che fu il combattimento, aveva lasciato libero all'azione quel sentimento dell'assoluta necessità di vincere creato da lui, dalle circostanze, dalla coscienza di ciascuno dei suoi soldati, e perchè aveva diretto tutto col cuore.

[95]

Tre giorni appresso, i Mille salutavano già, dal passo di Renda, Palermo, immensa, laggiù sul mare coperto da navi da guerra di tutta Europa. Pareva loro di uscir da un mondo antichissimo, eppure non erano passati che quattordici giorni dalla partenza da Quarto!

Nel campo di Renda, Garibaldi mise tutta l'arte sua: sfoggio di lavori da zappatori, avanzate, ritirate, scaramucce. E quando fu ben certo d'aver piantato nei difensori di Palermo l'idea che ei volesse tentarne l'assalto dalla parte di Monreale; improvvisamente, la sera del 21 maggio, che diede una notte tempestosa, levò il campo; e per monti senza vie, incamminò i suoi a una marcia notturna, che gli rimase nella memoria come uno dei suoi prodigi.

All'alba del 22 è al Parco e vi si accova, vi sta un giorno senza che il nemico sappia dov'è; la Sicilia non dava spie. Il 23 è scoperto: la mattina del 24, una colonna lunghissima uscita da Palermo viene a trovarlo. Ora il suo disegno comincia a colorirsi. Finge la ritirata, quasi la fuga, verso l'interno dell'isola, vola a Piana dei Greci, tirandosi dietro quella colonna: sul tramonto del giorno fugge di nuovo da Piana, mentre l'avanguardia nemica crede di averlo già per i capelli; fugge ancora con l'artiglieria in testa, per la strada di Corleone. Ma fattasi la notte, lascia andar l'artiglieria sola senza altro [96] ordine che di fuggir sempre, e si pianta in una boscaglia poco fuori dello stradale. Ivi ha la gioia di sentir quella colonna borbonica passar nella notte, allontanarsi illusa d'andar dietro di lui. Andasse pure! tanta forza nemica di meno egli avrebbe trovata a Palermo.

Il mattino appresso alla punta dell'alba, Garibaldi è già via da quella boscaglia. Con una marcia rapida a sinistra, sale a Marineo, la sera è a Misilmeri, il giorno appresso a Gibilrossa, nel campo dei picciotti del La Masa, e di là rivede la capitale.

Quel giorno, lassù a Gibilrossa, furono a visitarlo alcuni ufficiali della marineria inglese. Cosa gli portavano? «Eh già! si diceva tra le compagnie, gl'Inglesi ci aiuteranno a staccar la Sicilia da Napoli, così che al Borbone sembri grazia conservarsi il continente. Poi se la piglieranno, e Napoleone si piglierà la Sardegna, e l'Austria si terrà la Venezia, e l'unità d'Italia con Roma rimarrà un sogno. Passeranno gli anni, moriranno Mazzini e Garibaldi e gli altri, e dell'unità italiana e di Roma non si parlerà più.» E chi vorrebbe giurare adesso che allora le cose non si potessero risolvere in questo misero modo? Tuttavia quegli Inglesi, ospiti graditi, girarono fra le compagnie, sparsero la notizia che ai Mille era stato dato da Napoli il nome di Filibustieri; che il Governo borbonico aveva spacciato pel mondo d'averli vinti a Calatafimi, vinti al Parco, vinti sempre, e [97] che in Palermo il Vicerè aveva pubblicato la rotta e la fuga di Garibaldi.

Quella stessa sera si udì pel campo che Garibaldi aveva detto: «Stanotte a Palermo.»

E come fu notte, il campo si mosse a scender dalla montagna, giù per un sentiero quasi appena tracciato di balza in balza.

Stavano alla testa una parte dei Mille, prima le Guide e poi i Carabinieri genovesi, poi parte delle squadre del La Masa, appresso il gruppo dei Mille, e in coda tutta la moltitudine armata di picche o di che che si fosse.

L'ordine era di marciar in silenzio, serrati, per giungere di sorpresa sul nemico che bivaccava fuori le porte, e di non rispondere al fuoco, ma investire alla baionetta, rompere, entrare nella città.

Ah, se tutto fosse stato fatto a puntino! i Regi del Ponte dell'Ammiraglio sarebber stati colti nel sonno, e la colonna, passando sui loro corpi, entrava in Palermo di colpo. Ma i Picciotti con le loro grida diedero troppo presto l'allarme. Pur non ostante quel guaio, non ostante la resistenza ben fiera che opposero i Regi del Ponte, l'impeto dell'assalto fu tale che in breve ora Garibaldi era nel cuore della città, sulla piazza Bologni.

Allora tuonò la prima campana a stormo, e poi altre ed altre; la città si svegliava. Era la domenica di Pentecoste, ma per Palermo la Pasqua di Resurrezione.

[98]

Cominciò quel mattino la bufera infernale, che, scatenata sulla gran città, doveva durare tre giorni. I Mille e le squadre si sparsero per le vie, marciarono al centro della città, e dal centro, qua combattendo, là senza trovar difese, si allargarono poi alla periferia di essa. E così si chiusero entro il cerchio di fuoco che i Regi fecero loro intorno dalle caserme, dal Palazzo Reale, dai bastioni, dalle fortezze; e Castellamare cominciò a lanciar bombe. Potevano i Regi irrompere improvvisi da tutte le parti al centro e opprimere tutto, a un tratto; ma nel pomeriggio principiarono le barricate cui si lavorava persin dalle donne. Fu presto un vero furore. Al secondo giorno si vedeva già che in Palermo non sarebbe rientrato il nemico per molto che fosse, senza averne fatto un mucchio di rovine. Cadevano case intere sotto le bombe, cadevano per gli incendi; l'ira del popolo cresceva, non s'udiva gridar altro che guerra e morte e viva Santa Rosalia. Al terzo giorno tutta la città era nelle vie; le case rovinate non si contavano più; si parlava di cittadini sepolti a centinaia, e si diffondeva un entusiasmo cupo e fanatico di morire.

Nel pomeriggio di quel terzo giorno, corse voce che Garibaldi era andato sull'ammiraglia inglese, a un parlamento che i borbonici gli avevano chiesto. «Oh Dio! cos'ha mai fatto! - diceva la gente - e se lo pigliassero a tradimento?»

[99]

Era una grande angoscia. Ma fu sublime il popolo, sublime lui, quando, tornato da quel suo passo, s'affacciò a un balcone del Palazzo pretorio, e a quel mondo, fuso come in un sol essere sulla piazza, gridò: «Il nemico mi ha fatto delle proposte che credetti ingiuriose per te, o popolo di Palermo, ed io, sapendoti pronto a farti seppellire sotto le rovine della tua città, le ho rifiutate!» Non vi è lingua che abbia la parola degna d'esprimere il grido di quel momento. Dovettero arricciarsi i capelli anche a Lui; e forse egli si sentì divino, al suo apogeo, guardando sotto di sè quella moltitudine innumerevole di genti, che si abbracciavano, si baciavano, si soffocavano tra loro raggianti, le donne più ancor degli uomini, gridando a Lui: «Grazie! grazie!» Eppure aveva annunziato il loro sterminio!

Ma la sera stessa di quel gran giorno, il suo cuore, sempre così sicuro, si turbò. Gli era venuta notizia dello sbarco di nuove milizie borboniche. Ancora pieno di quell'incendio d'anime destato da lui, forse ebbe pietà della tanta gente che il giorno appresso sarebbe morta; pietà di Palermo che si era abbandonata a lui, gridandogli che la facesse pur perire, piuttosto che lasciarla al tiranno. Studi il fenomeno chi indaga l'anima dell'individuo ne' suoi rapporti coll'anima delle moltitudini: il fatto è che egli dalla piazza del Palazzo Pretorio mandò al bastione di Porta Montalto un ordine che fece tremare [100] chi lo portò e chi lo lesse; tremare per lui che parve d'un tratto impicciolito. Per fortuna la notizia delle nuove truppe borboniche era falsa, e di quell'ordine tacquero quanti lo conobbero, anzi si rimordevano di posseder quel segreto. Ma che sorpresa per tutti, e come dovette parer sublime Garibaldi a quanti di loro erano ancor vivi trent'anni di poi, quando lessero nelle sue memorie confessata candidamente quella sua ora di scoramento! Egli aveva pensato nientemeno che d'andarsene dalla città coi suoi avanzi di Mille! Altri eroi, forse Napoleone stesso, avrebbero fatto sparire chi d'un momento simile di loro debolezza avesse avuto soltanto il sospetto. Ma Garibaldi adorava la verità, e della gloria, intesa come si suole, non aveva concetto.

Il quarto giorno dacchè Palermo combatteva, il Generale in capo borbonico, disperato di vincere, chiese a Garibaldi un armistizio. Garibaldi lo concesse, e per lui voleva dir aver vinto. E dieci giorni appresso, ventimila borbonici sfilavano a imbarcarsi, portando via nel cuore, per andare a diffonderla in tutto il Regno, la certezza che contro Garibaldi non era più possibile vincere. Intanto nell'anima siciliana fioriva la fantasia dell'Angelo che nelle battaglie riparava i colpi a Lui, Santo e parente di Santa Rosalia, nato da un demonio e da una Santa. E così si diceva nei salotti, dove le gentildonne domandavano agli ospiti venuti di oltremare [101] se avessero mai visto quell'Angelo: e così si diceva dal popolo, e si cantava e si credeva. Chi vide quei momenti deve essersi formato l'idea di come sian sorte certe religioni nel mondo.

Così dalla partenza da Quarto erano passati trentacinque giorni. La traversata coi suoi tedi, con le sue allegrezze e co' suoi terrori, lo sbarco prodigioso, le marce traverso l'isola, proprio quasi ancor immersa nel Medio evo, dove uno poteva sentirsi nel suo clima storico e credersi bizantino, saraceno, normanno, qual che volesse; quell'andar applauditi tra le genti, ma sempre soli e quasi soli con Lui, come una tribù errante in cerca d'un mondo ideale; i bei fatti d'arme, le ritirate, i ritorni e la entrata inverosimile in Palermo e la vittoria finale più inverosimile ancora, furono il meraviglioso dell'epopea garibaldina, e già fin dallo stesso momento che finiva pareva una cosa antica quasi sognata, anche a chi l'aveva vissuta.

Poi l'epopea cedette alla storia.

.... E Dante dice a Virgilio:

«Mai non pensammo forma più nobile

D'eroe.» Dico Livio, e sorride,

«È de la storia, o poeti.»

* * *

Ora la Sicilia era aperta a chi vi volesse accorrere. L'Italia superiore e la centrale, mandavano [102] il Medici, il Cosenz, il Corte con le loro brigate di volontari. La guerra continuava con tutte le migliori regole della sua arte, e Milazzo fu una battaglia quasi classica; ma il maraviglioso lo metteva sempre e per tutto Lui.

Appunto a Milazzo, in un momento assai dubbioso, mentre egli si trova a piedi tra poche Guide che gli fanno scorta, gli rovina addosso una furia di lancieri napoletani. Urta il Capitano borbonico su di lui calando un fendente da dividerlo in due; ma Garibaldi, senza scomporsi, para il colpo come dicesse: «Che vuol costui?» e parando, uccide. Il Missori, lo Statella che sparano ripetuti colpi di rivoltella come se avessero in pugno il fulmine, sgombrano il terreno intorno da quei lancieri atterriti, forse ancora ignari di quella sorta d'armi. Ed egli, come se quella tragedia non fosse sua, e perchè era crucciato di non trovar un'altura da dove si potesse guardare nella battaglia, vista in mare la sola nave della sua marineria cui aveva fatto dare il nome di «Tuköry», vi corre, voga là, giunge, sale come un mozzo sulla gabbia di maestra, guarda, vede, rivola a terra, dà ordini, e due ore appresso la battaglia è vinta. Ma allora lo secondavano e lo interpretavano uomini come il Medici e il Cosenz, ufficiali superiori come il Malenchini, il Migliavacca, il Guerzoni; e gli ufficiali minori menavano nella battaglia militi, ai quali i [103] tempi e la parola del Mazzini e l'opera di lui avevano messo nel sangue che tra le cose gentili e forti, il morir per la patria era la più gentile e forte di tutte.

Per la vittoria di Milazzo la Sicilia si poteva dir libera; e già l'occhio di Garibaldi era sullo Stretto, sulla Calabria, di là. Ora si sarebbe visto! Dieci fregate, cinque corvette a vapore, due vascelli e quattro fregate a vela e molti legni minori, tutta la marineria borbonica poteva serrarsi nello Stretto. Da Scilla a Reggio stavano dodicimila soldati tra le fortezze, e in Calabria e oltre fino a Napoli ne campeggiavano ancora ben centomila. Non bastava. Nell'ora grave si faceva addosso a Garibaldi la diplomazia, gli si voleva tôrre la Sicilia annettendola subito al Regno di Vittorio Emanuele; e Vittorio stesso gli mandava per un suo fido una lettera in cui lo esortava a non proseguir nell'impresa. Egli lesse, e rispose che al termine della sua missione avrebbe deposto ai piedi di Sua Maestà l'autorità che le circostanze gli avevano data, e ch'avrebbe ubbidito poi, pel resto della sua vita.

Intanto le brigate che avevano combattuto a Milazzo e le divisioni di Türr e di Bixio che avevano girato largo nell'isola, marciavano a posarsi tra Catania e Messina.

E allora egli si pianta alla Torre del Faro. Lì [104] incomincia il maraviglioso. Fa armar coi cannoni di Milazzo quel promontorio di sabbie, raccoglie là intorno un centinaio di barche, e la notte dell'8 di agosto fa tentar il passaggio dal Musolino calabrese, cui dà compagni Missori, il più elegante dei suoi cavalieri, e Alberto Mario, il più gentile e altero de' suoi pensatori. Passarono quegli audaci, e poterono toccar l'altra sponda, tentarono di sorprendere il fortino Cavallo ma vi fallirono, e dovettero rifugiarsi in alto dov'è Aspromonte, nome d'altri luoghi allora vago nelle epopee cavalleresche, ma che, come se fosse predestinato, doveva entrare tragico nella storia, due anni appresso. Bisognava aiutarli. La notte dell'11 il Dittatore fece passare quattrocento uomini su di una flottiglia di barche. Le conduceva il Castiglia.

Vogarono nelle tenebre. A mezzo il Canale, furono scoperte e cannoneggiate dalla Fulminante e dal Fieramosca che ivi incrociavano, e dovettero tornar al Faro. Ciò per Garibaldi non volle dir nulla. Egli non presumeva certo di conquistar la costa della Calabria con sì poche braccia; ma quello cui mirava gli seguiva, perchè con quei tentativi e col tutto insieme delle mostre che faceva dal Faro a Messina, metteva nella mente del nemico e vi fissava l'idea folle, che lì proprio, tra il Faro e Scilla, ei volesse trovar il punto al gran passo. E lo credevano già anche i suoi. Senonchè la notte del 12 agosto [105] egli disparve. Lo indovinarono il mattino appresso tutti gli accampamenti garibaldini; sentirono che egli non c'era più, perchè parve mancasse qualcosa nell'aria che ivi si respirava.

Dov'era? Già di là in Calabria? O era andato a Torino a parlar con Vittorio? Mistero! Ma egli era già in Sardegna, nel Golfo degli Aranci; v'aveva presi e fatti suoi, proprio da Dittatore, gli ottomila volontari che il Bertani, il Nicotera e il Pianciani v'avevano raccolti per gettarli nel Pontificio. E di là, data un'occhiata alla sua casetta di Caprera, li imbarcò e se li condusse a Palermo. Indi girata l'isola torno torno sino a capo Passaro e a Taormina, la notte del diciannove vi pigliò Bixio con i suoi, tagliò il Jonio, afferrò Melito tra Spartivento e Capo dell'Armi, sì gettò a terra con quattromila camicie rosse, e allora, giungessero pure le navi borboniche; anzi, eccole lì! Giungono l'Aquila e la Fulminante! Si sfoghino a bombardare il vapore Torino, ma la sorte di Napoli ora l'ha in mano Lui.

Rapido come vento, assale Reggio all'alba del 21 e se la piglia. Manda al Cosenz che passi dal Faro a Scilla, e Cosenz, come se l'ordine fosse incanto, passa lo Stretto nella notte tra il 21 e il 22! Così i generali borbonici Briganti e Melendezi co' loro 9000 soldati, chiusi tra i Garibaldini, il mare e i monti, dovettero mettere giù le armi o perire. E si arrendono. Ma che fare di quei prigionieri? [106] Garibaldi spira su di essi una sola parola: se ne vadano alle loro case, per ora non sono più soldati di nessuno.

Allora cominciò lo sfacelo dei Regi, la guerra divenne una marcia militare di un esercito che s'avanzava e di uno che indietreggiava o fuggiva. E quali memorie a ogni passo! Ah! qui all'Angitola erano stati spenti i Musolino come i Fabi a Cremera. Qui avevano combattuto Domenico Romeo e i suoi: qui ecco il Pizzo, povero Murat! ecco il vallo di Crati, divini i Bandiera! Presto si vedrà la terra che bevve il sangue di Pisacane.

Cede il generale Vial a Monteleone, dove, se il povero Francesco II avesse avuto un po' di cuore da soldato, sarebbe corso da Napoli per morirvi, o in quel passo terribile far morire chi voleva scoronarlo. Cede il generale Ghio a Soveria Manelli, dove alla sola apparizione di Garibaldi sfuma via come nebbia una divisione. Il Dittatore andava avanti ormai da sè. Le sue divisioni camminavano ancora a gran giornate per la Calabria, ed egli era già in quel di Salerno. Che faranno i 40,000 Borbonici che campeggiano là tra Salerno e Avellino? Si scioglieranno da sè anch'essi! Era fatale. La gran figura del Dittatore pare spiri innanzi a sè un vento che tutto sperde. E il 5 settembre in Napoli, anche Francesco II deliberava la ritirata oltre il Volturno, dando le poste per colà a tutti i fedeli [107] piccoli e grandi. Il giorno appresso quel misero Re, con la superba e bellissima Regina s'imbarcavano per Gaeta sulla Partenope, scortati da due navi da guerra spagnole, perchè della flotta napoletana nessun altro legno volle seguirli.

Ora Garibaldi è alle porte. Da Vietri per la strada ferrata a Salerno e a Napoli, al mezzodì del 7 con il Bertani, il Cosenz, il Nullo, e due ufficiali, scende alla stazione, ricevuto dal ministro del Re di ieri. Monta in carrozza e via, al tocco, senz'altra scorta che quei suoi cinque, entra nella città, tra la folla che proprio fuori di sè dalla gioia stipa le vie. Passa dinanzi al forte di Castelnuovo, da dove la sentinella borbonica col picchetto di guardia gli presenta le armi. Oh se quei soldati, avessero osato far fuoco su quella carrozza, ed Egli fosse rimasto morto! Chi appende a fili così tenui le sorti delle genti? Si cura Iddio delle cose nostre, o dà talora a certi uomini qualche suo attributo? E la storia, superba, come si troverebbe a rispondere a chi la interrogasse così? Garibaldi era un'idea, l'incantatore passò, e il plebiscito vero che si fece poi, era già fatto idealmente quel giorno.

Ora non alla Reggia egli va, ma al Palazzo del Governo, e vi si mette da padrone: e di lì, tre ore appresso, decreta che la flotta napoletana passi all'Ammiraglio di Vittorio Emanuele. Era troppo! E troppo avrebbe poi dovuto la Monarchia a Garibaldi. [108] Gli uomini che ne facevano la politica, tra grandi e piccini, lo sentirono tutti.

E perchè Garibaldi aveva osato, bisognava loro osare come lui: onde da Torino alle grandi cose di Napoli rispondeva com'eco la deliberazione di entrar nelle Marche e nell'Umbria, con un esercito del Re. Allora il Cavour trasse il dado.

Avvenisse ciò che potesse, rompesse pur l'Austria dal quadrilatero; alla disperata, nel nome di Garibaldi e di Mazzini, il Cavour era uomo da incendiar mezza Europa.

E l'osare fu premiato, perchè di quei giorni Russia e Prussia in un convegno a Varsavia accettavano anch'esse la politica del non intervento bandita da Napoleone e dall'Inghilterra: il mondo intero pareva convinto ormai che un popolo da cui venivano date prove così alte di vita non era più quello cui la Santa Alleanza aveva messo l'Austria sul petto.

Ma dunque entrato Garibaldi in Napoli, l'epopea finiva con la sua glorificazione? Oh, no! La fine lieta non conveniva a un poema così novo e grande come era il suo; perchè le imprese dei grandi sono veramente epiche solo a condizione che essi nel chiuderle se ne vadano avvolti in un velo di alta mestizia! E poi c'erano ancora sulla destra del Volturno quarantamila soldati di Re Francesco.

[109]

* * *

Cinque giorni dopo l'entrata trionfale in Napoli, il Dittatore, di sulle navi che gliele portavano frettolose dalla Calabria, pigliava le sue divisioni, non lasciava loro godere neppur la vista della gran città, le lanciava a Caserta, a Santa Maria, dove correva egli stesso, e le piantava sulla sinistra del Volturno, per un semicerchio di venti chilometri. C'erano ventimila soldati ch'ei poneva di fronte a quarantamila, sostenuti da una fortezza come Capua, assetati di vendette, ebri di promesse per quando avessero rimesso in Napoli il Re.

Bisognava stare ben desti e ben pronti!

Sul Volturno i due eserciti passavano il settembre in preparativi, tastandosi talvolta fieramente qua e là. Ma il Dittatore sentiva che l'ora tragica s'appressava. Dalla sua specola di Monte Sant'Angelo, vedeva tutto, indovinava tutto ciò che si faceva nel campo nemico. Alla fine «Fate buona guardia» disse ai suoi luogotenenti, «domattina saremo attaccati.» E all'alba del 1º ottobre furono attaccati davvero.

La narrazione della battaglia che pigliò nome dal Volturno fu scritta e subito e poi, e se ne scrive e se ne scriverà ancora. Ma a misura che le vanità se ne vanno, quella battaglia ingrandisce nella verità, e rivela come uno dei sommi capitani, colui [110] che alle cinque pomeridiane, mentre si combatteva ancora, potè telegrafare a Napoli «Vittoria su tutta la linea.» E, disse vero il Guerzoni, fu vittoria piena, compiuta, gloriosa, e checchè altri abbia novellato, tutta dell'armi volontarie, tutta garibaldina; fu una delle più grosse battaglie che l'armi italiane abbiano combattuto. Ora l'esercito regio era vinto, ricacciato di là dal Volturno con l'animo rotto, perduto.

Tuttavia bisognava tenerlo in rispetto, e così cominciò l'assedio di Capua! Non era cosa da Garibaldi star a tracciar parallele, scavar trincee, piantar delle batterie dinnanzi a una città fortificata con entro un popolo di vecchi, di donne, di bambini a patire. Pur bisognava star lì, aspettando che la fortezza si rendesse da sè. E furono giorni lunghi fastidiosi, crudeli. E già tra i volontari si facevano dei discorsi cupi. Perchè verrà qui l'esercito del Re vittorioso nelle Marche e nell'Umbria? Verrà da amico o da soverchiatore? Bisogna pur dire la verità: entrava negli animi una grande malinconia. Solo Garibaldi rasserenava tutti, quando si faceva vedere. E un giorno si seppe che il colonnello dell'artiglieria sua gli aveva chiesto di lasciargli lanciar su Capua alcune bombe, perchè il comandante della fortezza potesse rendersi senza perder l'onore. «Griziotti, no! - si diceva avesse risposto Garibaldi. - Se un fanciullo, una donna, un vecchio, morisse per [111] una bomba lanciata dal nostro campo, non avrei più pace.» E Griziotti: «Ma i nostri giovani si consumano di febbri, i battaglioni si assottigliano, muoiono.» E Garibaldi a lui: «Ci siam venuti anche a morire!» - «Giungeranno i Piemontesi, Generale; essi non avranno riguardi, con poche bombe faranno arrender la città, poi diranno che tutto quello che facemmo finora, senza di loro non avrebbe contato nulla.» E Garibaldi: «Lasciate che dicano, non Siam venuti per la gloria.» Fu grande? Si cerchi nella storia uno eguale a lui!

E i Piemontesi erano vicini davvero. O perchè Piemontesi? Non erano i soldati già di mezza Italia? Ma! Per antico vizio italico si parlava ancora così, quasi da tutti. Non però dal Dittatore.

Egli aveva indetto il plebiscito pel 21 ottobre, e quel giorno le due Sicilie votavano la fine dell'antico Reame, e la loro annessione al Regno nuovo di Vittorio Emanuele.

Tre giorni appresso, il Dittatore passava il Volturno a Formicola, con le divisioni di Bixio e di Türr. «Dove ci mena?» dissero i volontari: li menava a incontrare Vittorio che scendeva da Venafro. E il 26 ottobre, presso Teano, su quella terra che vide Silla e Sartorio in guerra feroce, le avanguardie garibaldine aspettarono il Re. Presso a una casa bianca, a un gran bivio dove delle pioppe già pallide lasciavano cader le foglie morte, c'era il Dittatore tra [112] molte camicie rosse. Ad un tratto si udì la fanfara reale del Piemonte. Tutti a cavallo! Qualcuno ricordò poi che, in quel momento un contadino mezzo vestito di pelli si volse ai monti di Venafro, e con la mano alle sopracciglia, fisso l'occhio forse a leggere l'ora in qualche ombra di rupe lontana. Nota epica anche questa. Erano quasi le otto, ed ecco un rimescolio nel polverone, poi un galoppo e dei comandi e degli evviva: «Viva, Viva, Viva il Re!»

Allora quelli che erano là, videro un gran cosa. Comparve il Re, Garibaldi gli galoppò incontro, si diedero la mano: quel Dittatore che senza gloria di antenati aveva nel cuore tutta la forza che il popolo sa di rado rivelare, diede il saluto immortale che gridò Vittorio Re d'Italia. Chi mai a Carlo Alberto, quando appena salito al trono plaudì al concorso per un libro sui Capitani di ventura, chi gli avrebbe detto che uno condannato a morte in nome suo, come bandito di primo catalogo, sarebbe divenuto l'ultimo e il più grande e più puro della scuola d'armi dei Condottieri, e che 26 anni dopo avrebbe proclamato Re d'Italia il suo Vittorio in quei campi? Da quel giorno tutto volse rapidamente al termine. E il 6 novembre, nell'amplissimo viale che si protende dinnanzi alla reggia di Caserta, stavano le divisioni garibaldine già consapevoli d'esser messe in disparte. Ma era stato detto che il Re voleva passarle in rassegna. Quando sonarono [113] le trombe i battaglioni si allinearono malcontenti. Apparve una cavalleria. Ah! quello che cavalcava alla testa non era il Re! Era Lui, col cappello all'ungherese calato giù, segno di tempesta. Passò quella cavalleria, giunse fino in fondo al viale, diede di volta, ripassò come un turbine, poi sparì. E poco appresso quei battaglioni furono condotti a sfilare dinanzi a Lui, piantato sulla gran porta del Palazzo Reale, come un monumento. Sentivano tutti che quella era l'ultima ora del suo comando, e a tutti veniva voglia d'andare a gettarsi ai suoi piedi e gridargli: «Generale, perchè non ci conducete tutti a morire? La via di Roma è là, seminatela delle nostre ossa!»

Egli, pallido come forse non era stato visto mai, guardava quei plotoni passare, e s'indovinava che il pianto gli si rivolgeva indietro ad allagargli il cuore.

Così finivano i canti centrali dell'epopea garibaldina. Quanto a lui, il 7 novembre entrava in Napoli con Vittorio Emanuele, l'8 gli consegnava il plebiscito, e all'alba del 9, su d'un vapore che portava il nome di Washington, suo vero fratello nei secoli, solo con quattro amici tornava a Caprera, quasi ancora con indosso gli stessi panni che aveva a Marsala.

«E non ne fosse uscito mai più!» dissero coloro che non avendolo capito mai, non lo capirono [114] due anni di poi, quando cadde in Aspromonte confermando col suo sangue la legge di Roma. Però quelli stessi tacquero, quando nella guerra del Sessantasei non poterono disconoscerlo, almeno pel suo sublime «Obbedisco!» Ma tornarono ad imprecarlo quando fece Mentana. Altri, quando udirono ch'egli vinceva per tre giorni di seguito a Digione, credettero di elevarsi molto, dicendo che certo i Prussiani non s'erano degnati di combattere seriamente contro di lui. Anche questo fu detto. Ma fece ammenda per tutti il general Cialdini. Parlando di lui co' suoi pari, disse da onesto e prode come era: «Nessuno di noi gli arriva al ginocchio.» Diceva il vero. Ma ancora più che gran capitano Garibaldi fu Uomo nuovo. Per ora non si sa ancora riconoscerlo. Fu scritto che come in geologia si stenta a liberarsi dal concetto che tutta la storia del nostro globo sia una successione di catastrofi per lotte terribili tra le forze del Caos, così nella vita dell'umanità non sappiamo liberarci dall'ammirare i violenti trionfatori, perchè moralmente siamo ancora assai deboli. Ma quando l'umanità, sarà più consapevole di sè, e forte e capace di libertà e di giustizia, il tipo dell'Uomo sarà riconosciuto in lui. Non se ne favoleggerà, come non si favoleggiò guari di Colombo: ma ad ogni forma nuova di bene che si verrà trovando ed attuando, il giudizio delle genti riconoscerà che Garibaldi quella forma l'aveva [115] già in sè. Allora si capirà come ei dall'azione passasse alla solitudine, perchè costumi, leggi, tutto doveva parergli troppo disforme dalla vita come ei la sentiva. Ma la solitudine su d'uno scoglio, dove nessun uomo avrebbe saputo durare senza morir di tedio, egli la popolava con l'ingegno del suo gran cuore, facendosi di quell'umile punta un mondo infinito come l'anima sua.

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