LA LIRICA

CONFERENZA

DI

ENRICO PANZACCHI.

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Dunque io vi parlerò nuovamente di poesie e di poeti, o amabili Signore, perchè così piacque al Comitato che stabilì il tema, e che mi diede anche il molto onorevole incarico di principiare la serie delle conferenze quest'anno; di queste conferenze così fortunate e, diciamo pure, anche così invidiate, soprattutto perchè ebbero sempre il vostro concorso e la benevolenza vostra.

La conferenza mia di quest'anno sarà una continuazione di quella dell'anno scorso; ma i tempi sono molto mutati e non in meglio per noi. Cercai l'anno scorso di tratteggiarvi il gran quadro degli avvenimenti di quella singolarissima epoca. Idee nuove, uomini nuovi, avvenimenti strani, insperati: e sopra tutto questo una meravigliosa esaltazione nelle menti, un entusiasmo gaudioso e virtuoso nei cuori. Tanto che se ci avessero soccorso il senno e la concordia, era proprio da sperare che l'Italia ne uscisse con qualche felice risultato. Invece [120] il senno e la concordia difettarono. Molti rettili, io vi diceva, strisciarono in mezzo a tutti quei fiori, molte ombre si mescolarono a quella luce; ed avemmo la catastrofe, la grande catastrofe, nobilitata dal valore italiano sotto gli spalti di Novara, sulle mura di Roma e a Venezia. Il detto di Massimo d'Azeglio: «credevamo di essere uomini ed eravamo invece dei fanciulli» riassume, e riassume purtroppo psicologicamente e storicamente tutta quell'epoca.

Bisognava cambiare strada, bisognava mutare i metodi e la mèta. Era stato dunque un bel sogno la confederazione dei Principi italiani col Pontefice alla testa, e bisognava metterlo in disparte. Era stato un bel sogno la repubblica unitaria di Mazzini colla Costituente e non ci si poteva più pensare. S'imponeva insomma una nuova orientazione, la quale doveva avere per principio e per obbietto un regno italiano fortemente costituito e fedele alla libertà. Aveva dato già all'Italia l'esempio di lodevole coraggio nell'anticipare questa nuova orientazione Marco Minghetti, quando, d'improvviso, lasciava le anticamere del Papa, ove si cospirava contro l'Italia, per andare sotto le tende di Carlo Alberto ove si combatteva e si moriva per l'Italia. Aveva già dato esempio simile Terenzio Mamiani, quando, nella rovina di tutto e di tutti, aveva detto che ormai non restava patriotti altro partito [121] da prendere che stringersi intorno alla Dinastia di Savoia ed attingere da essa gli auspicii e la forza dell'avvenire; Vincenzo Gioberti che aveva a Parigi abbandonata la sua utopia del Primato (di cui credo che fosse già guarito da un pezzo) e poneva il vigorosissimo intelletto alla formazione di un nuovo libro nel quale si studiavano i criterii ed i mezzi per un positivo rinnovamento italiano; Daniele Manin si era ormai mostrato persuaso che la sua repubblica veneta non era che un glorioso anacronismo evocato invano dalla illusione storica e dal sentimento generoso di tanti italiani, che per Venezia avevano dato l'anima e il sangue. Lo stesso Mazzini, pur non declinando dai suoi ideali dogmatici, si manteneva repubblicano, ma attestava e mostrava che soprattutto egli era unitario e che quando si mirasse veramente, efficacemente all'unità, non solo egli non poneva ostacolo, ma fino ad un certo punto sarebbe stato disposto a secondarla.

Letterariamente e poeticamente, o Signore, il periodo che corre dal 1849 al 1859 non è un gran periodo nel suo insieme; anzi si presenta come un periodo mediocre. Non vi sono grandi lampeggiamenti, non vi sono poderose affermazioni d'ingegno artistico; vi è qualche cosa più di abbozzato che di compiuto in esso. Io lo chiamai altra volta un periodo «bigio» per le nostre lettere, un periodo ove le tinte, i colori non sono bene spiccati [122] e decisi, ove bisogna raccogliere, classificare i fatti, apprezzandoli soprattutto come sintomo, piuttosto che come preparazione dell'avvenire. La ragione di tutto questo parmi che vedesse molto bene Cesare Correnti in alcune sue pagine notevoli nelle quali campeggia questo ragionamento: la poesia s'imperna nel criterio della vita; e quando il criterio della vita è incerto e ondeggiante, la poesia non può dare grandi affermazioni. Il romanticismo, una gran forza espansiva, comunque si voglia esteticamente giudicarla, che aveva dominato tutta la prima metà del secolo, aveva raggiunto il suo apice e già accennava a declinare, come un movimento nel quale cominci a mostrarsi esaurita la forza iniziale, da cui era derivato. Anche la morte si era mescolata nella faccenda, ed aveva fatto la sua parte. Era morto Giuseppe Giusti portando anzi tempo nel sepolcro una meravigliosa attitudine di poesia, che si era così bene esplicata nella satira civile, e che aveva mostrato anche altre potenze di poeta lirico e di critico, le quali nella pienezza dell'età forse si sarebbero più efficacemente manifestate. Erano morti Silvio Pellico e Giovanni Berchet tramontati alquanto nella popolarità, ma dei quali duravano sempre gli scritti patriottici nel cuore e nell'anima popolare, e che dovevano essere rinfrescati e resi novamente di una dolorosa attualità per le frequenze dei nuovi e tristi esigli, per le nuove sventure [123] così somiglianti a quelle che avevano colpito l'Italia dal ventuno al quarantasei. Era morto anche a Bologna il buon Giovanni Marchetti, di cui disse Luigi Carrer che aveva saputo strappare il segreto della soavità degli accenti alla lira di Francesco Petrarca e, ad essa aveva saputo disposare accenti di nobile patriotismo.

Alessandro Manzoni che si era taciuto da tanto tempo, a un tratto si faceva vivo e riempiva delle sue idee tutto il mondo letterario italiano colle questioni della lingua nazionale. È una questione molto seria, o Signore: In che lingua debbono parlare gl'Italiani, parlare soprattutto e scrivere?

Dopo sei secoli di civiltà e di letteratura nazionale, il più grande e il più autorevole ingegno degli Italiani veniva fuori a mettere in dubbio nientemeno che lo strumento del nostro pensiero! E Carlo Tenca, che dal suo Crepuscolo vigilava tutte le forme e tutti i movimenti del pensiero italiano covando, per così dire, tutte le faville che rimanevano ancora della nostra vitalità politica, grandemente s'impensieriva di questa questione sollevata dal più autorevole degli scrittori. Anche i poeti dunque, e gli scrittori, avevano una nuova ragione di aspettazione, d'incertezza e di titubanza. Si doveva attingere, come voleva Vincenzo Monti, dalla nostra lingua scritta e vivente, da tutta la collaborazione dei popoli italici e da tutti [124] i valenti nostri scrittori, come pare che fosse anche il pensiero di Dante Alighieri, padre della nostra letteratura? oppure si doveva, come voleva il buon Cesari, immobilizzare tutta la nostra lingua negli esempi del Trecento? oppure, come veniva avanti ad affermare il Manzoni, era necessario costituire una specie di sede vivente in cui la lingua facesse sempre la sua prova vitale, e che potesse servire di modello perenne e di guida a tutti e di soluzione nei dubbi che potessero insorgere?... Vi ripeto, tutto questo non doveva contribuire a dare delle forme energicamente direttive per la espressione dell'ingegno artistico e poetico negl'italiani; e non è da stupire che tutti i poeti di questo periodo ne risentissero un influsso di incertezza e di titubanza. Uno fra loro, più sincero degli altri, lo confessò apertamente. Paolo Gazzoletti scriveva: «Le mie poesie furono dettate, come è facile accorgersi, sotto l'influenza di studi, di scuole e di gusti diversi. Bruciai nel mio camino qualche granello d'incenso a tutte le forme, ed anche ai traviamenti delle forme.» - Poi soggiungeva: - «Ad ogni modo, per noi poeti, anzi per noi italiani il cantare è una fatalità e dallo stesso dolore e dalle stesse miserie nostre abbiamo, per disacerbarle, eccitamento al canto.» E concludeva un suo sonetto con questo verso: «È vocale il dolor de la mia terra!»

[125]

Anche troppo vocale, dico io; e se vi fu tempo in cui spesseggiassero i poeti mediocri e minimi, fu appunto questo decennio.

E simile lamento muoveva anche Ippolito Nievo il quale faceva le prime armi e dava la prima promessa del suo ingegno bellissimo, che sarebbe stato destinato a successi trionfali se una tragica morte non lo avesse còlto nel pieno vigore dell'ingegno e dell'età. D'altra parte abbiamo dei poeti minori, non privi certo di pregio, che si compiacevano a seguire l'indirizzo manzoniano in tutto ciò che aveva di più mite, di più mansueto, di più casalingo. Citerò solo Giulio Carcano di Milano, Emilio Frullani di Firenze. Aggiungasi, in generale, una grande irregolarità e licenza nei ritmi, e una grande povertà delle rime. Una delle necessità più vivamente sentita da chi abbia acuto e squisito il senso dell'arte, è quella di dare delle forme nettamente plastiche e precise ed euritmiche al componimento poetico. Invece in questo tempo si direbbe che dalla grande autorità del Leopardi si preferisce di dedurre soprattutto e quasi esclusivamente la libertà indeterminata della strofa; libertà indeterminata che fomentava, aiutava una grande verbosità, nemica mortale della efficacia scultoria. Quanto alle rime esse si andavano sempre più impoverendo; e non aveva torto un critico quando diceva che aprendo i libri di poesia di quel tempo (e sono [126] tanti da formare delle enormi cataste), che esaminando certe collezioni allora famose, per esempio l'«Ape romantica» di Venezia, e le innumerevoli Strenne di Napoli in cui tutta l'attività partenopea pareva che si concentrasse, diceva che con poco più di cento parole si sarebbe potuto determinare il rimario della poesia italiana!.... E questo, o Signore, che sembra un particolare secondario, è invece un segno grandissimo; perchè non vi è grande poesia senza una tecnica eletta insieme e ricca e rigorosa; e quando tanto nel movimento della strofa quanto nella scelta delle rime è o irregolarità e licenza indeterminata o povertà, potete star certe che anche il pensiero rimarrà in difetto, tutto il nisus della forma poetica sarà in decadenza. E ne avete la riprova in questo: che noi abbiamo avuto un vero e proprio risorgimento nella poesia italiana solo quando son ritornate in onore le strofe severamente corrette ed euritmicamente rispondenti alle loro parti, e quando è ritornata in onore la scelta della rima ricca, eletta.

Ma non è tutta verbosità vuota, non è tutta divagazione sentimentale la poesia italiana di questo tempo. Vi è qualche cosa di «meditabondo» nella nostra cultura. Anche nel campo del pensiero, e solamente nel campo del pensiero, perchè ormai l'azione era interdetta dalla servitù politica, si sente il bisogno di raccogliersi e pensare seriamente. [127] Alcune discipline si avvantaggiano; lo studio della lingua non è più ridotto a semplice scelta di frasi; si comincia a sentire la profonda vacuità della scuola del Cesari buona come antidoto, come egli lo chiamava, contro l'invadente francesismo del primo quarto di secolo in Italia, ma per sè stessa insufficente al grande ufficio della lingua intesa come strumento del pensiero e come rispecchiamento dell'anima della Nazione. Dallo studio formale e superficiale della lingua si passava a un tentativo sempre più spiccato di penetrare a fondo nell'indole, nella filosofia del linguaggio; e a Firenze, a Torino, a Milano e altrove si cominciano a costituire delle scuole filologiche che pongono nel nostro terreno ottimi germi, i quali col tempo poi copiosamente frutteranno. Il fenomeno passa dalla filologia nella poesia vera e propria, e si comincia a tentare un più stretto connubio, una più efficace intimità tra la poesia pura forma e la sostanza del pensiero; tra il sentimento, nella sua vaghezza indeterminata, e certi fini ben determinati e prefissi e certi alti ideali a cui l'arte doveva servire. La vanità della formula «l'arte per l'arte» va cadendo sempre più in discredito. Fu accolto con molto applauso, se non molto letto, un poema di Lorenzo Costa genovese, abilissimo fabbro di versi, il quale con degli sciolti veramente mirabili si era prefisso ed aveva in gran parte raggiunto l'intento [128] di celebrare le più meravigliose scoperte dell'ingegno umano nelle industrie, e nella meccanica. Altri poeti avevano seguito questo impulso. Dirò anzi, che si può considerarlo come una preoccupazione dominante allora negl'ingegni nostri. L'Aleardi, per esempio, vuole compensare più che può una certa vacuità che è nei suoi canti fantasiosi e sentimentali, e ricorre alla geologia e ricorre alla botanica. Si direbbe che già egli si prepari fin d'allora per il disperato cimento al quale si lasciò andare pochi anni dopo, di celebrare in versi il sistema economico di Federigo Bastiat. Ebbe in questo un infelice compagno nel Martinelli bolognese, che volle con dei Sermoni dedicati a Marco Minghetti niente meno che dar forma poetica a tutti i teoremi della economia classica inglese. Anche Giacomo Zanella nel seminario di Vicenza sta maturando il suo ingegno e si prepara a dare egli pure un contributo assai notevole a questo tentativo di connubio fra la poesia e la scienza: si prepara ad essere il futuro autore della Conchiglia fossile e del memorabile dialogo teologico-astronomico tra Galileo e Giovanni Milton; si prepara ad essere, come disse con frase veridica Giosuè Carducci, il castigato, forbito ed eloquente cantore dell'industria e delle solennità del tecnicismo.

Ma anche lo Zanella poco lustro doveva dare a questo decennio, perchè la sua fama doveva fiorire [129] dipoi. Egli era destinato ad essere il poeta prediletto del decennio che seguì; doveva essere in esso il poeta favorito delle gentili dame, degli ingegni eleganti e soprattutto degli spiriti temperati che vagheggiavano di comporre in armonie superiori, degli elementi fra loro cozzanti, e che non disperavano di queste armonie e si compiacevano di trovare nel prete liberale di Vicenza un degno e notevole aiuto di poesia e di arte.

Insomma, quando voi avete bene scrutato l'orizzonte e investigato da ogni parte, voi dovrete venire a questa conclusione: che il decennio italiano che corre dal Quarantanove al Cinquantanove, non ha che due poeti veramente notevoli: il Prati e l'Aleardi. Lascio da parte Niccolò Tommaseo, il quale meriterebbe uno studio a sè per la grande intensità e arditezza del suo ingegno poetico, ed è invece così poco noto e così mediocremente apprezzato. Lo lascio da parte, perchè anche egli diede i migliori frutti come poeta nell'epoca precedente, e perchè egli si occupò soprattutto di studi filosofici e religiosi.

Aleardo Aleardi dunque e Giovanni Prati sono i due poeti che signoreggiano l'epoca, e quasi vi regnano in solitudine.

Io ebbi la fortuna di conoscerli ambidue. Erano due tipi disparatissimi.

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* * *

Giovanni Prati nel decennio di cui parliamo seguitava la sua strada; godeva della sua fama, e cercava di aumentarla con opere notevoli. Sempre uguale a sè stesso: vagabondo, strano, irregolare; aveva amato la natura e l'Italia, e il suo amore per quest'ultima aveva sempre nobilmente e francamente manifestato, ma accompagnava poi questa sua nobiltà di condotta poetica con molte stranezze nella vita; ed ebbe per l'una e per le altre molti dolori e molte tristi vicende. In questi dieci anni egli dalla Toscana, dove aveva un così acerbo persecutore in Francesco Domenico Guerrazzi, si era rifugiato a Torino e là, all'ombra della Croce Sabauda, a cui aveva rivolto l'occhio confidente anche quando altri faceva le viste di non accorgersene, ben visto a Corte, seguitava a poetare, perchè il poetare, per Giovanni Prati era non una dilettazione istintiva, non un'operazione intermittente, era come un abito inscindibile dalla sua natura, e di continuo componeva versi, e, quel che è anche più strano, nessuno lo aveva mai visto comporre versi a tavolino. Andava errando come aveva fatto sempre, e lo vedevano pei Portici di Po brontolando seco stesso i suoi endecasillabi o i suoi settenari, sempre con in bocca un sigaro, che spesso gli si spengeva; allora chiedeva fuoco al [131] primo che incontrava, e riacceso il mozzicone continuava a mormorare dei versi. Più di una volta fu preso per un pazzo.

In questo decennio Giovanni Prati ha composto su per giù due volumi di versi, nei quali si nota uno spiccato e opposto carattere d'arte. Nei poemi è sempre il bizzarro ingegno romantico di Edmenegarda e delle Ballate: come prima, vagheggia il fantastico, lo strano, l'avventuroso. Nella forma non si corregge o peggiora. Infatti, leggendo a Torino il suo poema Ridolfo fece accapponare la pelle al buon Terenzio Mamiani per delle forme veramente strane e eteroclite. Un lavoro di miglior avvenire si ha nella Battaglia Imera o Jerone, una specie di visione antica che lampeggia alla mente del poeta e che pare il preludio di quella mirabile castigatezza di gusto che egli qualche anno dopo doveva conquistare per dono felicissimo della sua natura, e che lo metteva in grado di comporre i due Sogni, di tradurre non indegnamente Virgilio e di pensare a verseggiare quel Canto ad Igea che par davvero un frammento di serena poesia antica. Il secondo volume ci dà invece un Prati fortemente compreso della missione civile e politica del poeta italiano: e tutti i grandi argomenti che occupano la vita italiana, che accennano ai dolori del presente e alle speranze dell'avvenire, tutti si rispecchiano fervidamente in quelle sue liriche [132] alate, che anche oggi non si possono leggere senza commozione. L'anno scorso, o Signore, vi ho citato alcuni passi della superba Trenodia in cui, celebrando il ritorno da Oporto delle ceneri di Re Carlo Alberto, egli volle evocare tutto il sogno poetico della federazione italiana del Quarantotto, gettando un ultimo grido di supplicazione ai principi della penisola. Indi egli si volse da quella parte, ove solo le speranze parevano attendibili, voglio dire alla spada, al senno e alla lealtà di Re Vittorio. Ora sentite con che accenti egli ricorda i giovinetti toscani eroicamente caduti a Curtatone:

Quando la fredda luna

Sul largo Adige pende,

E i lor defunti l'itale

Madri sognando van;

Un coruscar di sciabole,

Un biancheggiar di tende,

Un moto di fantasimi

Copre il funereo pian.

E via per l'aria bruna

Sorge un clamor di festa:

«L'ugne su voi passarono

De' barbari corsier;

Viva la bella Italia!

Orniam di fior la testa;

O vincitori o martiri

Bello è per lei cader.

E chi, evitato il nero

Tartaro, ancor respira,

Abbia in retaggio il funebre

Pensier di chi morì,

[133]

Seme di sangue provoca

Messe di brandi e d'ira;

Fatevi adulti, o pargoli

Per vendicarci un dì!»

Il guardïan straniero

Dall'ardue rôcche ascolta.

E le canzoni insolite

Lo stringono di gel;

E il pian mirando e il torbido

Stuol degli spettri in volta,

Pensa le patrie roveri

E il nordico suo ciel.

E sclama anch'ei: «Di meste

Larve simili è piena

Pur la mia tenda ungarica

O il mio boemo suol,

E a me, che schiavo indocile

Veglio l'altrui catena,

Pace l'avara tenebra

Nega e letizia il Sol.

Oh, falco, che da queste

Turrite rupi inarchi

L'ale alla fuga, intendere

Potessi il mio desir!

Ma se per tanto d'aëre

Sino al mio ciel tu varchi,

Di' a' figli miei che abborrano

In servitù perir!»

Così con varii modi

Canta chi vinse e giacque,

Ma in un medesmo palpito

Arde il medesmo ver,

Mentre la luna naviga

Sovra il cristal dell'acqua

E giù nel pian si sperdono

Gli spettri dei guerrier....

[134]

Quando Giosuè Carducci dettò quelle sue malinconiche e bellissime strofe per l'anniversario dei morti di Mentana, si ricordò egli di questo componimento del Prati. V'ha somiglianza di metro, di rime, e perfino ricorrenza di certe frasi e di certe immagini. Nell'una e nell'altra, i morti parlano pietosamente alla patria; e un senso di paura passa negli avversari. Con una audacia veramente lirica, il Prati affrontò in questo decennio tutti i più scabrosi argomenti che toccavano alla vita italiana. Luigi Napoleone di Presidente della Repubblica si fa a un tratto Imperatore; e Giovanni Prati gli volge un'ode che a quei giorni andò famosa in Italia e oltre l'Italia, in cui apostrofa vivamente, quasi assale di interrogazioni e di problemi imperiosi il nuovo Sire incoronato di Francia.

Hai vinto. Or ben. Qual premio

Dalla vittoria attendi?

Sali. E l'antica porpora

Di Clodoveo ti prendi.

Ma la fortuna, o Principe,

Ha giuochi infami. E bada....

Qui incominciano i consigli, le ingiunzioni, le minacce:

Se col vorace e barbaro

Settentrïon t'annodi,

Perduto sei. La gloria

Ti mancherà dei prodi....

[135]

È tutto un programma di politica in versi piani e sdruccioli; e letto oggi a tanta distanza dagli eventi, l'effetto non è sempre serio; ma anche oggi la lirica del Prati ci commuove quando, verso la fine, parla al Bonaparte d'Italia:

Sol, pei materni visceri,

Ti prego a giunte mani,

Non obliar, nel turbine

Del tuo fatal dimani,

Questa obliata Italia

Dal sorger tuo; quest'Eva,

Che a te le braccia leva

Consunte di dolor.

Mille de' suoi, che dormono

Là tra le scizie nevi,

Per Chi tu sai, fantasimi

Tetri, placar tu devi,

Pensa alla madre; al cenere

Dell'Alighier. Nefando

Di Bonaparte è il brando,

S'egli altri numi ha in cor.

Le esortazioni e i vaticinii del Poeta, dovevano attingere valore dal tempo; ed ora noi li congiungiamo ai ricordi del colloquio di Plombières, di Magenta e Solferino.

* * *

Aleardo Aleardi ebbe anch'esso anima vera di poeta; ma ebbe indole diversa. Anche al fisico, quantunque tutt'e due fossero belli uomini, al [136] portamento i due molto si diversificavano. Aleardo Aleardi composto, dignitoso, contegnoso. Con la sua bella chioma spartita sulla fronte e con la pettinatura impeccabile mi faceva pensare a un verso di Gaspare Gozzi, ove descrive i capelli dei damerini del suo tempo. Aveva il parlare sentenzioso, la frase rotonda, e volentieri batteva il pugno quando voleva asserire qualcosa di solenne. Aleardo Aleardi fu troppo lodato, e fu sventura per lui. Io mi ricordo che un critico, poco dopo il '60, metteva nientemeno che il nome di Aleardo Aleardi vicino a quello di Dante Alighieri; e io provai una profonda pietà per Aleardo Aleardi. Infatti egli dovette scontar poi, con un rapido rovescio della fortuna della sua fama e quasi con l'oblio, l'eccesso delle lodi prodigategli dai compiacenti contemporanei.

L'Aleardi lasciò scritto di sè che da ragazzo aveva provato una grande inclinazione per la pittura, e specialmente pel paesaggio; ma gli era stata così severamente interdetta e combattuta dal padre, che dovette abbandonarla. Questa sua inclinazione alla pittura di paese si riflette qua e là nei suoi componimenti in modo manifesto:

Ogni eminenza dopo la procella

Versa per cento conche

In curve e fuggitive

Cascatelle il soverchio de la piova:

Suonano le spelonche

A la cadenza di frequenti stille:

[137]

Brilla l'immenso verde,

E tutta di vaganti iridi piena

È la silvestre scena.

L'Aleardi ci dà molti di questi quadretti: veri paesaggi di poeta, ove si uniscono e s'armonizzano le voci e i colori in un tutto animato e vivente. E non mancano i paesaggi a grandi linee, entro le quali s'inquadrano dei drammi di pietà umana e tragici ricordi di storie e di leggende. Udite questo pezzo del carme Il Monte Circello, composto, si noti, nel 1845.

Vedi là quella valle interminata

Che lungo la toscana onda si piega,

Quasi tappeto di smeraldi adorno,

Che de le molli deità marine

L'orme attenda odorosa? Essa è di venti

Oblïate cittadi il cimitero;

È la palude, che dal Ponto ha nome.

Sì placida s'allunga e da sì dense

Famiglie di vivaci erbe sorrisa,

Che ti pare una Tempe, a cui sol manchi

Il venturoso abitatore. E pure

Tra i solchi rei de la Saturnia terra

Cresce perenne una virtù funesta

Che si chiama la Morte. - Allor che ne le

Meste per tanta luce ore d'estate

Il sole incombe assiduamente ai campi,

Traggono a mille qui, come la dura

Fame ne li consiglia, i mietitori:

Ed han figure di color che vanno

Dolorosi all'esiglio; e già le brune

Pupille il velenato aëre contrista,

[138]

Qui non la nota d'amoroso augello

Quell'anime consola, e non allegra

Niuna canzone dei natali Abruzzi

Le patetiche bande. Taciturni

Falcian le mèssi di signori ignoti;

E quando la sudata opra è compita

Riedono taciturni; e sol talora

La passïone dei ritorni addoppia

Col domestico suon la cornamusa....

Vi consiglio anche di leggere nelle Prime storie la descrizione del Diluvio universale, nella quale l'Aleardi ha saputo unire alla evidenza del quadro alcuni tocchi di fantasia che ne accrescono il mistico terrore.

* * *

I difetti della poesia di Aleardo Aleardi io non mi propongo qui di numerare e di analizzare partitamente. Vi dirò solo che dalla lettura dei suoi versi io ho ritratto il convincimento che in lui non fosse profonda la coltura letteraria e sufficiente la preparazione per dare sempre alla forma poetica quella sicura e precisa finitezza che le procaccia il duraturo suffragio degli uomini di buon gusto. Egli è spesso morbido, vago, indeterminato: il suo tocco, troppe volte non è sicuro e non coglie nel segno voluto; e allora cerca una simulazione di precisione in qualche immagine che non è sempre di buon gusto. Circa la novità, vuol [139] differenziarsi dagli altri, e principalmente da Giovanni Prati, di cui sente la rivalità perigliosa; ma la novità cercata è tante volte a spese del buon gusto. Le sue immagini sono talvolta troppo cercate e sconfinano nel barocco; come quando vi dice che una campana suona per la valle «limosinando carità di preci,» proprio come un frate o un mendicante qualunque! Oppure quando, compiacendosi, al solito, della sua botanica, vi dice che sul ciglio di un burrone, dei ranuncoli, delle passiflore e non so quali altri fiori, stanno brontolando fra loro parole di congiura contro la vita degli uomini!... Soprattutto io credo che la poesia di Aleardo Aleardi fosse malata di un femminismo estetico. Io non so trovare altro nome; ma un fatto, pur troppo, vi corrisponde. Vi sono troppe Marie in quei suoi componimenti! È venuto l'Epistolario, che ha messo in evidenza anche troppo, la soverchia, la stemperata amatività di lui. Io credo che se l'amore della donna è un prezioso coefficente per la poesia, e per l'arte, quando le donne sono troppe nella vita di un poeta, lo guastano.

La morbidezza dell'Aleardi voi la riscontrate subito nel suo modo di epitetare. Egli pone, i suoi epiteti, con sì frequente larghezza, che spesso è costretto a sostantivarne uno, perchè faccia da puntello agli altri; e ne esce qualche cosa di forzato e di equivoco. Per esempio, egli chiamerà un [140] Re in esilio «limosinante indomito e sdegnoso,» oppure dirà i principi italiani spodestati «pallidi coronati impenitenti.» Quale tra questi epiteti fa da sostantivo? Quando apostrofa le sue donne si serve ancora degli epiteti raddoppiati «povera grande, povera bella, bella superba!» e via discorrendo. Vi parranno minutaglie, o Signore, ma sono questi abiti artifiziosi che indicano, come certe piccole macchie sulla pelle, la tabe che invade tutto quanto nelle sue intime parti lo stile del poeta.

E questo artificio si manifesta massimamente nelle personificazioni. In esse Aleardo Aleardi è, permettetemi la frase, femmineo fino alla puerilità. La patria, l'Italia, la Musa; quale, tra i poeti, non ha invocato la Musa e l'Italia? E la invoca pure Aleardo Aleardi, anche troppo di frequente; ma queste grandi astrazioni, queste luminose entità che devono sovrastare alla mente, allo spirito del vate, e da cui egli deve attingere come dall'alto la luce, nello spirito aleardiano sovente si abbassano, si abbassano, e par che vadano a sedersi vicino a lui, accanto al suo letto, accanto al suo tavolino di studio. L'Italia non è più la grande e cara madre; è la sorella, è, direste quasi, un'amante: «Sorella mia, vieni, pigliati in mano il sapiente legno del Nazareno, mettiti in ginocchio sulla strada, e domandiamo la carità a quelli che passano!» Similmente, la Musa [141] per l'Aleardi non è la Dea a cui da Omero in poi si sono rivolti tutti i poeti! Egli la tratta alle volte come una segretaria, alle volte, non vorrei offenderla, mi ha l'aria di una sua cameriera!... Il più delle volte la chiama «sorella» ed ha per lei delle apostrofi varie; ora complimenti, ora carezze e baci, ora corrucci e poi rappaciamenti. Antropomorfismo morbido, disdicevole, e antipatico. Una volta il poeta si lamenta di essere abbandonato da tutti i suoi vecchi amici, e si rivolge alla Musa, e le dice: «Anche tu mi hai abbandonato, mi tradisci. Ah non a questo educato io ti avea!» Come vedete, qui le parti si invertono; non è la Musa che inspira, come da Omero in poi; è il poeta che inspira la Musa. Invertimento lezioso, che potè forse piacere come una novità, ma che adesso viene a noia.

Però, quando abbiamo detto tutto questo, o Signore, noi non possiamo chiudere gli occhi ai veri meriti del poeta. Commetteremmo una grande ingiustizia. Io, che così vi ho parlato, mi compiaccio di avere assistito commosso alla inaugurazione del monumento che i veronesi per gratitudine inalzarono ad Aleardo Aleardi. Egli ebbe una forte e schietta anima di poeta, e fece della poesia un uso generoso. Troppo femminismo in lui, lo abbiamo già detto, ma a lui anche non si può negare il merito insigne di aver forse più d'ogni altro poeta unito l'amore della cara donna e l'amore della [142] cara patria. Egli si studiò con nobilissimo intendimento di fondere insieme questi due sentimenti, e quando narra nel «Triste dramma» la storia del povero condannato dall'Austria che, appena giunto alla carcere, segna nelle pareti il profilo della donna amata, e in quel profilo si compiace di vedere la immagine della donna amata e la immagine d'Italia «che Dio fece insieme così belle e colpevoli,» noi, anche attraverso il suo cicisbeismo fantastico, non possiamo fare a meno di cogliere e sentire una idea generosa. Il poeta veronese immaginò la donna come mediatrice tra l'uomo e il Creatore, e ministra amabile e forte della volontà umana nell'adempimento dei più grandi ideali. E quando nel «Canto politico», uno dei suoi più infelici canti, di una lunghezza interminabile, fa salire lo spirito di una donna fino al trono di Dio a invocare pietà per la patria italiana in nome di tutto ciò che vi ha di bello, di nobile, di gentile nella umana natura, noi non possiamo difendere l'animo nostro da un senso di compiacenza e di ammirazione. Leggendo le liriche dell'Aleardi, anche le meno fortunate e le meno riuscite, il nostro pensiero corre spontaneo a quelle nobili gentildonne veneziane e lombarde, che tanto contribuirono a mantenere in Italia viva la fiaccola del patriottismo, e che ai campioni della libertà, e dell'unità della patria non furono larghe solamente di sorrisi, ma di santi consigli; non seppero [143] solamente amarli ma confortarli pietose e inspirarli magnanimi, facendosi ad essi compagne nei duri cimenti e nelle pene!

Sarebbe anche ingiustizia dimenticare che l'Aleardi si elevò ad altissime concezioni di patriottismo allargandole oltre i confini della sua patria, come quando in nobilissimi versi celebrò e compianse l'eroismo della Nazione polacca, ricordando le sue benemerenze verso «questa Europa ingenerosa» che la abbandonava alla tirannia moscovita.

* * *

E ora voi mi domanderete: si riducono solo all'Aleardi e al Prati i poeti insigni del periodo che voi avete l'assunto di illustrare? Essi sono certo i due più insigni. Ho accennato ad altri, e volentieri mi metterei a mostrare i loro meriti, se mi fosse consentito dal limite dato al mio discorso. Vi basti, o Signore, che io abbia accennato qua e là ad alcuni di essi. Non voglio però tacervi che quando il decennio dal '49 al '59 stava per chiudersi, studiava a Pisa un giovinetto maremmano, che aveva in sè e valorosamente ne' suoi propositi una grande poesia, umana e civile per la sua patria.

Ho nominato Giosuè Carducci. Egli dissentiva dagli altri; egli studiava profondamente e diversamente da quello che usavasi allora in Italia dai più; [144] non si contentava della pura forma, ma con la mente tenace e penetrante andava giù nella grande sostanza filologica e linguistica della nazione italiana, e accennava a voler risalire alle pure fonti della tradizione indigete e cavare da essa tutte le forme più precise e più plastiche di una nuova poesia. Un giorno egli comparve davanti a degli amici e lesse dei suoi versi, e anche nella scelta degli argomenti egli si diversificava dagli altri, non erano donne innamorate o lamentazioni sentimentali, o salici piangenti, o raggi di luna. Come un antico, come un pagano, di un fiero paganesimo però che non si tuffava nell'epicureismo e non divorziava da nessuna nobiltà di ideali umani, egli nel «Libero convito» cantava:

Beviam, se non ci arridono

Le liete muse indarno,

Or che lent'ombra nordica

Cuopre i laureti d'Arno.

A noi, progenie italica,

A noi, sangue del Lazio.

Bacco scintilla e Venere

E l'armonia d'Orazio....

Con questa superba e schietta intonazione il giovane poeta esordiva; e, ripeto, dal suo paganesimo nessuna alta idealità umana e sociale era bandita; e nel fervore del brindisi accennava alle grandi virtù civili che l'antichità classica ci raccomandava co' suoi esempi:

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Anch'ei Catone intrepido

La tazza al servo chiese

E ripensando a Cesare

Il roman ferro chiese:

E in quel che Bruto vigila

Su le platonie carte,

Cassio tra' lieti cecubi

Gli Idi aspettò di Marte.

Così, o Signore, Giosuè Carducci preparava a sè stesso un grande avvenire di poeta fino da allora; e accennava che per la poesia italiana ci sarebbero state ancora delle giornate di gloria. Lo chiamavano strano, contorto, oscuro; ma gli uomini di più fine intelletto e di gusto più squisito sentivano in lui il maestro di una forma più eletta nella quale si sarebbero potuti nobilmente rispecchiare le più nobili tradizioni dell'arte nostra e tutti i grandi ideali della vita. Terenzio Mamiani, letta la sua canzone a Vittorio Emanuele II, non solo offriva a Giosuè Carducci la cattedra di italiano nell'Università di Bologna, ma vaticinava in lui il poeta giovane della patria risorta. E voi e noi tutti abbiamo la prova che il vaticinio dell'illustre pesarese non è andato smentito dai fatti, e che la poesia, dopo il Cinquantanove ha continuato a dare alla vita italiana delle ispirazioni e delle consolazioni.

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