E dite lo stesso di tutti gli altri sentimenti che governano i personaggi del racconto. Nei Promessi Sposi, per esempio, dove si passa a traverso a tante iniquità, dove la ragione e il cuore tante volte hanno motivo di ribellarsi, voi trovate che delle imprecazioni e dell'invettiva è fatto un uso moderatissimo. Appena un momento nel palazzotto di Don Rodrigo al termine del famoso dialogo fra lui e fra Cristoforo. Quando il ribaldo signorotto, non contento di avere meditato un'iniquità osa ancora alla presenza del frate di affermarla con una cinica alterigia, allora fra Cristoforo alza e inalza inveendo la mano che Rodrigo afferra di subito.... Ma egli non la dimenticherà più mai; quella mano alzata egli la vedrà ancora, sogno della notte terribile in cui dormendo avrà i presentimenti della peste che già hanno invaso il suo miserabile corpo. Poi via. Il frate è tornato padrone di sè; e il racconto rientra nella sua pacata sobrietà, nel suo andamento tranquillo. Ma quanto risalto, quanta potenza viene appunto da questa tonalità abitualmente calma [61] quando vengono quei rari momenti in cui l'autore assurge e si libra a qualche affermazione potente.
E così dite dell'enfasi. Voi l'enfasi non la trovate mai nei Promessi Sposi, e sì che di enfasi e di voli enfatici erano piene le carte ai tempi del Manzoni. Ho ricordato lo Chateaubriand e Ugo Foscolo, il quale era pure uno degli autori che il giovine Manzoni aveva letto e ammirato e che dominavano sul gusto dei lettori. Appena un momento, quando sono in presenza il Cardinale Federigo e l'Innominato l'enfasi si fa sentire. Il Cardinale parla a questo terribile uomo un linguaggio di ragione animato, ordinato, calmo. Ma quando si avvede di avere espugnato le ultime resistenze di quell'anima, quando vede la terribile testa dell'uomo del delitto chinarsi umiliata e vinta sopra le sue spalle, quando sente che le lacrime del peccatore pentito scorrono silenziose sulla castità della sua porpora, allora l'anima del sacerdote si effonde ed alza a Dio un'apostrofe, che potrebbe parere di una tonalità un po' inverosimile, ma non è. Voi sentite invece in quel momento l'uomo, anzi il prete, che ha l'anima piena della lettura dei libri sacri, del Vangelo, delle omelie; e parla a quel modo perchè sente a quel modo, nè potrebbe diversamente parlare. E così dite del patetico. Il [62] patetico aveva tante occasioni di sprigionarlo e farlo trascorrere a grandi fiotti, attraverso la sua narrazione. Ma se l'avesse fatto, io penso, la narrazione non avrebbe avuto nemmeno un decimo dell'efficacia che ha sull'animo nostro. Disse bene Cicerone: «le lacrime presto inaridiscono». Guai allo scrittore che abusa delle lacrime! Nelle emozioni più vive e profonde c'è qualcosa di sacro; e un vero artista deve accostarsi ad esse con rispetto e con mano sobria. L'anima umana ama di nascondere quello che è in lei di più intimo e di più geloso. Anche nei Promessi Sposi arriva il momento in cui il patetico trascorre. I due poveri giovani non hanno potuto raggiungere il loro intento. Si lasciano persuadere dalla buona vecchia a sorprendere Don Abbondio, a maritarsi per forza o per frode. Ma il vecchio prete, sorpreso in canonica, reso audace dalla sua paura, butta il tappeto del tavolino addosso alla timida Lucia e le impedisce di dire le parole sacramentali. Per il matrimonio mancato cresce in loro la paura di Don Rodrigo. La difesa di fra Cristoforo non basta più. Lo stesso Cristoforo dice: «Via figliuoli, non c'è tempo da perdere.... Andate.» E se ne vanno di notte, montano sopra una barca e si allontanano lungo il fiume per raggiungere la sponda opposta del lago. È una notte tranquilla, la luna illumina tutto [63] il paese. I disgraziati profughi, seduti nel fondo della barca, hanno l'anima occupata di terrore e tristezza. Lucia guarda dalla barca, vede il palazzotto di Don Rodrigo che lassù a mezza costa pare un ribaldo che in mezzo a dei poveri addormentati vegli meditando un delitto. La fanciulla ritrae inorridito lo sguardo e come per consolarsi cerca giù giù nel paesello la sua casa, e arriva a scoprire la cima dell'albero del fico che le sovrasta, e a scoprire la finestra della sua cameretta verginale.... Allora uno schianto di lacrime esce dal cuore di Lucia. Abbassa il volto sulla palma della mano, appoggia il gomito sulla sponda della barca e rimane silenziosa.... Allora il poeta interviene: «Addio, monti sorgenti dall'acque....» Chi di voi non ricorda quel passo delizioso per averlo letto o nel romanzo o in qualche raccolta? Ma notate che il Manzoni par quasi voglia farsi perdonare questo suo momentaneo abbandono di sentimentalità, e subito ammonisce il lettore: Badate, questi non furono veramente i pensieri della buona Lucia e degli altri due; saranno stati di quel genere. E quasi con una nota ironica verso sè stesso, il poeta rimette la narrazione nel suo naturale andamento e nella sua intonazione normale. Confrontate questo addio poetico col pietoso racconto di Cecilia, la povera madre che porta le figlioline morte sul [64] carro dei monatti. Avrete la medesima arte meravigliosamente efficace nella sua sobrietà.