Adesso io toccherò molto brevemente degl'imitatori del Manzoni e del suo romanzo. Ve l'ho già detto, Signori, sui Promessi Sposi bisognerebbe fare un ciclo di conferenze, dove ognuno prendesse un personaggio, un episodio. Allora con coscienza tranquilla si potrebbe dire d'aver trattato questo tema per noi così caro, poichè si tratta del libro più glorioso che ha dato l'Italia al mondo in questo secolo; e ce ne sono pochi degni di potergli stare accanto. Quando avete preso Dante, l'Ariosto, il Tasso, e il Petrarca, metteteci subito vicino i Promessi Sposi e non osate mettervi altri libri perchè scapiterebbero.
E scapiterebbero sovrattutto i suoi imitatori. Perchè il Manzoni non ha avuto successori degni di lui, o Signore? La risposta ve la darebbe, se fosse qui, uno dei personaggi del Manzoni, quel Don Ferrante, il quale, perchè aveva nel cervello tutta la filosofia di Aristotile, credeva che con quella si spiegasse tutto. Ed egli spiegherebbe forse anche questo fatto; ma io, che non sono Don Ferrante non ve lo posso dire. Accennerò a un grande difetto della nostra schiatta italica, questo proprio bisogna convenirne; [69] ed è la furia dell'imitazione. Appena uno fa una bella cosa, eccoci tutti dietro non ad ispirarci, non ad emularlo, ma a decalcare servilmente sopra le sue formule, a ripetere fino alla stucchevolezza, fino alla noia ciò che quello ha con un rapido accenno d'invenzione posto innanzi ai nostri sensi e ai nostri occhi.
Certo è, o Signore, che quando s'incontrarono Walter Scott e Manzoni, e Walter Scott complimentava l'autore italiano lombardo del suo lavoro, Manzoni modestamente disse: «I Promessi Sposi sono opera vostra» accennando allo studio che Manzoni aveva fatto del romanziere scozzese. E allora lo Scozzese con arguzia gentilissima rispose: «In questo caso i Promessi Sposi sono il mio miglior romanzo.» Non si poteva più cortesemente rispondere.
Ma Alessandro Manzoni non avrebbe certamente potuto dire una cosa simile nè al Grossi, nè al Cantù, nè al d'Azeglio, nè al Carcano e nemmeno a quell'Ippolito Nievo, in cui forse era riserbato all'Italia un grande romanziere, se giovine ancora non fosse scomparso nel Mediterraneo quando si sfasciò il vecchio bastimento dove egli salpava dalla Sicilia all'Italia. Passiamo dunque su questi imitatori; rendiamo loro il merito che hanno, ma convinciamoci [70] che rispetto al gran modello essi sono pallide ombre. Dimentichiamo gl'imitatori e torniamo al maestro! Torniamo a questo grande, che tanta luce ha diffuso sulla prosa e sulla poesia italiana; torniamoci senza feticismi, anzi come disse opportunamente nel suo recente volume Arturo Graf, torniamoci rinfrancati e fortificati da quella stessa libera critica che per venti anni abbiamo fatto al lavoro immortale di Alessandro Manzoni, specialmente per opera di Giosuè Carducci. Torniamo come vi è tornato lo stesso Carducci, il quale da ragazzo lesse per cinque volte i Promessi Sposi, poi pareva che non volesse più leggerli; ma l'anno passato interrogato da un amico che cosa leggesse, disse: rileggo i Promessi Sposi; e quando con una concezione gagliarda volle ricongiungere la poesia e l'arte al suo principio morale e civile e stringere la mano del vecchio Parini, sentì che il gran Lombardo alzava la sua e aveva diritto, e voleva essere anche egli in quella stretta immortale. Tornate al Manzoni massimamente voi, giovani; tornateci, ripeto, senza feticismi, con libero ossequio, per attingere specialmente da lui il senso nobile, geniale, umano dell'arte, di quest'arte alla quale ora tutti si prosternano con inni paradossali come ad unica Deità della vita.... Parole, parole, parole!...
Quando siamo al fatto, questa Augusta, Divina, [71] quest'anima dell'anima umana, noi la vediamo ancora trascurata per le alcove, per i manicomi, per i postriboli, come se tale fosse un suo destino ineluttabile, e come se la sua tanto decantata libertà non fosse che la fatale selezione del male.
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