LA PLEIADE MUSICALE

CONFERENZA

DI

EUGENIO CHECCHI.

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Signore e Signori!

La sera del 3 agosto 1829 - data memorabile per la storia dell'arte - il pubblico parigino chiamato a giudicare la nuova opera, che fu anche l'ultima, di Gioacchino Rossini, sentenziò quasi unanime, che il Guglielmo Tell era una troppo audace innovazione, e accennava a qualche cosa di troppo rivoluzionario e di troppo anormale nei tranquilli dominii della musica. E l'opera grande e immortale fu accolta in quella sera e nelle sere successive con sospettosa freddezza.

Alla distanza di sessantotto anni, nella sera del 26 dicembre 1897, il pubblico romano del teatro Argentina riudì ancora una volta il capolavoro rossiniano, e sentenziò con mirabile disinvoltura che anche le opere del genio risentono le offese del tempo, e che il Guglielmo Tell più non risponde ai nuovi [42] bisogni, ai nuovi gusti: doversi perciò rimandare ai Conservatorii e agli Istituti musicali, perchè, tutt'al più, sia argomento di studio nelle classi di alta composizione. E l'opera si trascinò faticosamente per un lieve corso di rappresentazioni, fra la indifferenza e gli aristocratici sbadigli di spettatori scarsi di numero.

Oggi dunque, se le manifestazioni della così detta opinione pubblica hanno da contare per qualche cosa, oggi il Rossini non sarebbe che un classico: impeccabile quanto si voglia, ma niente più che un classico: nel 1829 invece un redivivo Voltaire avrebbe potuto ripetere del Rossini quel che si disse dello Shakspeare, che fu un barbaro non privo d'ingegno. Come è possibile mandare insieme a braccetto i due giudizi?

Il pubblico di Parigi d'allora e il pubblico di Roma del decorso anno, ugualmente sinceri, ma ugualmente rei di spropositate sentenze, subivano la influenza di cause che forse sarebbe curioso ed opportuno di esaminare e di riassumere, se non temessi di sconfinar troppo dal tema cortesemente assegnatomi.

Se non che appunto cotesta freddezza del pubblico parigino, a cui ho accennato, se non fu la principale nè l'unica fu certamente una delle ragioni [43] per le quali il Rossini spezzò la penna di compositore melodrammatico. Consapevole della propria gloria, egli si ritirò, tra sorridente e sdegnoso, dalle battaglie della scena: si ritirò a trentasette anni: nè i pentimenti troppo tardivi dei pubblici, nè le cospicue offerte che dalle grandi metropoli dell'Europa gli pervenivano valsero a vincere quella sua serena pigrizia, in cui si sarebbe cullato, con tutte le seduzioni fascinatrici della celebrità, per quarant'anni di seguito.

Iniziatore di una riforma, Gioacchino Rossini non ebbe soltanto il merito di aprir nuove vie all'arte melodrammatica, ma tutte le percorse da sovrano conquistatore, in tutte impresse la incancellabile orma propria. E perchè il genio ha qualità, quasi direi, assorbenti, e la luce che da lui emana par che riassuma in sè, compenetrandole, tutte le altre luci minori e le attenui e le spenga, appunto come il sole che non può esser vinto da nessuna illuminazione artificiale, così accadde che nel silenzio dell'autore del Guglielmo Tell si credette che la musica italiana avesse pronunziata l'ultima sua parola.

Di quali altri capolavori si sarebbe arricchito il repertorio melodrammatico, se nel Rossini la volontà e la fantasia fossero state in ugual misura obbedienti, [44] è ricerca che a nulla gioverebbe. L'immortale maestro, che impegni contrattuali col grande teatro di Parigi obbligavano per un corso non breve di anni, si sentì a un tratto disorientato in quella rivoluzione del luglio 1830, che dava alla vita politica, alla vita letteraria ed artistica della Francia indirizzi nuovi. Come il Mefistofele del Goethe, che non comprende le classiche finzioni della greca mitologia nella simbolica evocazione di Elena, così l'autore dell'Italiana in Algeri, del Turco in Italia, del Barbiere di Siviglia dura fatica a raccapezzarsi in quel moto degli spiriti vagheggianti ideali nuovi, in quelle irrequietezze delle fantasie giovanili che anelano ad orizzonti fino allora inesplorati. Rimane intatta e splendente la sua musica, perchè segnata col marchio indistruttibile del genio, ma il suo linguaggio si crede o pare che non risponda più ai bisogni, alle aspirazioni, ai desiderii dell'universale. Spira nelle regioni dell'arte un soffio di modernità che non si acquieta ai facili sorrisi dell'abbondante produzione dell'opera giocosa; e le menti, fatte serie e cogitabonde, drizzano per così dire la vela in oceani più sconfinati, dove par che baleni, tremolando sulle acque, la fata morgana dell'invadente romanticismo.

E frutto del romanticismo, imperante nella Francia [45] degli Hugo, dei Delavigne, dei De Vigny, è la musica dei maestri italiani succeduti al Rossini. Ai francesi compositori, come l'Auber e l'Halévy, ai tedeschi un po' infrancesati come Giacomo Meyerbeer, non valse la imitazione rossiniana, in principio servile e poi alquanto più libera, per potere essi raccogliere la eredità creduta giacente. La divina Euterpe spiccò il volo rivalicando le Alpi, e tornò da Parigi nella sua vera patria l'Italia, di dove più non si mosse.

Qui era nata, qui aveva raggiunto lo splendore suo massimo, qui erano sbocciate le immortali cantilene dei Pergolese, dei Paisiello, dei Cimarosa; e qui avrebbe dovuto fatalmente riallacciarsi la fulgida tradizione che la partenza del Rossini dalla patria un po' ingrata non era riuscita ad interrompere. Onde gli occhi di tutti si volsero là dove nuovi germi sbocciavano, dove le nuove manifestazioni dell'arte fiorivano, dove il genio della musica ci apparecchiava le nuove grandi sorprese del periodo che oggi studiamo.

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* * *

Singolari tempi cotesti: quasi ponte di passaggio fra le due rive di un fiume frettoloso, avviato verso una mèta iperbolicamente lontana. Dopo un lungo riposo di quindici anni, un riposo conquistato a prezzo di tanto sangue inutilmente versato nelle guerre del primo Napoleone, cominciava ora quella feconda evoluzione degli spiriti e delle menti, che, come dianzi accennavo, prese il nome, anzi rinverniciò a nuovo quel vecchio nome di romanticismo: e se la Francia, seguitando l'esempio della Germania del Goethe e dello Schiller, sopravanzò gli altri popoli nella feconda produzione poetica e prosastica, l'Italia, non ostante i grandi fulgori del genio manzoniano, si restrinse, almeno per allora, nel campo della musica: anzi più specialmente della musica melodrammatica. Fosse mancanza di grandi ingegni letterarii, che avrebbero dovuto continuare l'opera iniziata nel '27 dal Manzoni col suo celebre romanzo, fossero le condizioni civili e politiche della penisola, fosse piuttosto, come io credo, la vivace rimembranza dei recenti trionfi musicali, fatto sta che l'Italia si restrinse per allora a una sola arte, e [47] gelosamente custodì e mantenne quel suo primato invidiato ed invidiabile della musica teatrale.

Chi studiasse un po' attentamente quel periodo di vita sociale, che si svolse in Italia dal '31 al '46, ne troverebbe rispecchiate alcune sue manifestazioni nella musica dei maestri d'allora: i nomi dei quali sono vanto imperituro nell'arte del secolo decimonono. Quella musica combatte in principio una tenace battaglia, per liberarsi dai fàscini e dalle seduzioni del grande mago che si adagia sorridente all'ombra dell'albero della sua gloria, e a poco a poco riesce a vincere: ma perdurano quelle ragioni, che avevano costretto anche il Rossini ad improvvisare in poche settimane, qualche volta in pochissimi giorni, le opere per le quali si era impegnato con le direzioni dei teatri. Il teatro è la più potente, la più geniale distrazione di quel tempo: è, per così dire, l'unica manifestazione chiassosa dello spirito pubblico, che si rivela in una incessante domanda di altre opere. E queste opere occorre rispondano alla smania di novità che agita le folle, occorre non interrompano ma anzi alimentino quella produzione artistica che deve diffondersi da tutti i palcoscenici d'Italia.

La schiera dei maestri, dico di quelli a cui non mancheranno i favori del pubblico, è troppo esigua [48] al bisogno, perchè ella possa corrispondere alle richieste che d'ogni parte si affollano: onde la necessità li costringe a lavorare rapidamente, talvolta con prestezza fulminea. Accade perciò che non sempre la miniera, quantunque inesausta, dia metallo purissimo, e che il genio rifulga sempre della medesima intensità di luce: tormentato e irritato, egli ha ogni tanto qualche abbandono, qualche cascaggine, qualche annebbiamento che lo offusca. Ma dalla fredda accoglienza fatta a un'opera nuova, o anche da un clamoroso insuccesso, l'autore si risolleva e risorge come stimolato a vendicarsi, e le sue vendette sono spesso capolavori: capolavori che hanno nome Sonnambula, Norma, i Puritani, Anna Bolena, Lucrezia Borgia, Lucia di Lamermoor.

C'è dunque un nuovo indirizzo, stavo per dire una nuova scuola che sorge, florida di giovinezza, ricca di speranze, cercatrice smaniosa di successi. La musica italiana, che s'era detto aver pronunziata col Guglielmo Tell la sua ultima parola, riprende il suo fatale andare, e parla ancora alle menti, eccita ancora le fantasie, commuove ancora ed esalta milioni e milioni di cuori. Vincenzo Bellini e Gaetano Donizetti, i due astri più luminosi della pleiade scintillante, procedenti per vie diverse ad una medesima mèta, con magnanima ostinazione resistono [49] alle prime avvisaglie della scuola tedesca, e dimostrano con l'esempio di voler serbare alla nostra musica la schietta italianità, che vuol dire il sentimento, la passione, la melodia, il canto.

Nei loro inizii, nelle inevitabili incertezze di chi, incominciando, sente di non poter camminare spedito se non si appoggia, come l'edera, a qualche robusto tronco, anche i due maestri s'ispirano e si scaldano al gran sole rossiniano: ma dopo quei primi esperimenti di una ginnastica intellettuale, quando la loro fibra si è ringagliardita nelle molteplici prove, ed essi hanno acquistata la coscienza sicura del proprio essere, ogni ombra d'imitazione scompare, ed essi raggiungono in brevissimo tempo la fama, la popolarità, la gloria. Sono l'uno e l'altro, e sinceramente lo confessano, una derivazione rossiniana: ma accade di loro, se mi è lecito di rapire una similitudine alla scienza astronomica, accade di loro come quando un bolide scoppiando si riduce in parti, e coteste parti, pur descrivendo ciascuna per conto proprio una traiettoria nello spazio, serbano in comune il punto primitivo di partenza: così i due grandissimi, quantunque di grandezza diversa dal loro autore e non ostante l'individuale cammino percorso, sembrano emanare da un apice comune, da Gioacchino Rossini.

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Ma della serena spensieratezza di quelli anni e di quella generazione, che affaticata dalle immani lotte napoleoniche cercava un riposo e una distrazione nelle prime opere del maestro di Pesaro, e rispondeva acclamando e ridendo alla squillante risata dell'autore del Barbiere di Siviglia, di cotesta spensieratezza non vedremo più che una traccia fuggevole. Se qualche cosa d'incipriato sopravvive all'ottantanove e ai trattati del quindici, se nella vita poco o punto affaccendata delle classi colte c'è ancora come un resto delle mollezze e delle morbide blandizie del settecento, e c'è una corruzione elegante che non sa risolversi a rendere le armi, pure aleggia nella parte sana del popolo un'aura più vivace, e già un concetto delle civili responsabilità a poco a poco la penetra.

Interprete dei sentimenti e delle aspirazioni nuove sarà l'arte della musica, che per la sua stessa indeterminatezza del linguaggio si piegherà volenterosa ad esprimere sentimenti, affetti, passioni tumultuanti nelle anime.

Una solenne e austera mestizia par che governi il mondo, e di quella mestizia è raccontatrice e commentatrice fedele la musica. Sorriderà ancora, in alcune geniali produzioni del Donizetti, la musa dell'opera giocosa, ma fra quei sorrisi vedremo pure [51] talvolta balenare scintillando le lacrime, e per arrivare al lieto fine di prammatica rasenteremo più d'una volta il dramma. L'arte non è più un semplice diletto, nè una blanda carezza di suoni armoniosissimi; ella deve invece tradurre tutto quel complesso di aspirazioni che sono tanta parte nella vita nuova del popolo, deve in certo modo riprendere e continuare per conto proprio l'opera iniziata altrove con la poesia, col romanzo, col dramma. Una invisibil catena avvince le genti fra loro, le genti oramai consapevoli dei propri diritti e dei propri doveri: e perchè l'arte è il linguaggio che tutti comprendono, toccherà a lei farsi divulgatrice d'idee e di propositi, che nel segreto dapprima, poi alla luce aperta del sole maturano.

Chi afferma che la musica di cotesti anni altro non è che la continuazione di quel che fu fatto nel primo trentennio del secolo, dà prova di non averne penetrata la intima essenza. Certo nè Vincenzo Bellini, nè Gaetano Donizetti furono gli antesignani di una rivoluzione civile e politica, alla quale essi mai non pensarono, e della quale sarebbe sfuggita a loro, perchè distratti in più serene contemplazioni, la ragione remota o prossima. Ma un qualche cosa che vibrava e fremeva intorno dovette persuaderli che sarebbe toccata alla musica una partecipazione essenziale [52] in quel grande rimescolìo degli animi e delle menti: e guidati da quell'istinto che è qualità divinatrice del genio, essi furono gli uomini del loro tempo, furono i gloriosi portabandiera di un piccolo ed elettissimo esercito, che combatte anche oggi battaglie non ingloriose nel campo dell'arte.

* * *

Vincenzo Bellini rappresenta, nella pleiade musicale di cotesti anni, il luminoso astro fuggitivo che brillerà d'intensissima luce per pochi anni, poi sparirà quasi consunto dal suo medesimo fuoco. Se egli ottenesse dalla natura il dono prezioso della fecondità, non è certo; ma si sa che le opere sue più belle, le tre opere magistrali che non morranno fintantochè almeno non si capovolgano le leggi eterne del gusto, rampollarono dall'accesa fantasia del giovane maestro con meravigliosa rapidità, e si sa pure che dopo il sublime suo canto del cigno, dopo quei Puritani che sollevarono un grido d'entusiasmo per tutto il mondo, egli, già colpito dalla fatale malattia che doveva spegnerlo all'età di trentaquattro anni, [53] meditava sopra due nuovi soggetti. Di lui veramente, meglio che del Rossini, sarebbe curioso e opportuno indagare quali nuove forme avrebbe assunte, a quali diversi atteggiamenti si sarebbe piegato il suo ingegno, se la natura, dispettosamente crudele, non avesse voluto dare apparenza di verità all'antica sentenza di Menandro: «Muor giovine colui che al cielo è caro.»

L'acutezza tutta meridionale della sua mente, in quei brevi mesi di soggiorno a Parigi, gli servì per penetrare addentro nei nuovi progressi della musica strumentale, che fu per lui come il dischiudersi di nuovi orizzonti; e forse non esagerano quei biografi i quali affermano, che prima di recarsi in Francia il Bellini non conoscesse che superficialmente la musica di quel maestro che il Rossini non dubitava di chiamare fra tutti il più grande, e che fu Ludovico Beethoven. Della profonda mestizia, qualità predominante nell'autore delle Nove Sinfonie, è facile riscontrare più d'una traccia nell'ultima opera del maestro catanese, come nè è più ricco, più nutrito, più vario lo strumentale. Egli che, nell'idilliaca Sonnambula, emulò la greca semplicità e la perfezione di Teocrito, e nella Norma si sollevò a grandezza epica, tocca, io credo, il massimo vertice del sublime con la dipintura delle cruente lotte fra i Puritani [54] ed i Cavalieri. Dalla favola montanara, tutta impregnata di agresti profumi, dalle foreste druidiche, di cui indovina, senza neanche darsi pensiero di approfondirle, le sanguinose tregende, egli trapassa alla contemplazione e alla riproduzione di un grande quadro storico: ma nella cozzante varietà dei soggetti che tratta, egli serba pur sempre lo spiccato carattere della individualità propria, della propria originalità.

Ascoltando la musica di altri maestri, rimarremo incerti talvolta nell'attribuire la paternità a questo od a quello: ma Vincenzo Bellini non è possibile confonderlo mai con altri. Le sue cantilene soavissime, le sue melodie, quasi tutte di prima intenzione, e una tal quale morbidezza raffaellesca di contorni, ce lo annunziano e ce lo rivelano presente sempre.

Egli non somiglia che a sè medesimo. Sentendolo, vien fatto di pensare che la sua musica, più che dalla fantasia, gli germogli dall'anima, e che quell'anima riassuma e traduca le troppo fugaci gioie e gli eterni dolori dell'umanità: vien fatto di dire che i suoi canti, più che col linguaggio delle note sono composti di lacrime, e sono le lacrime che raccontano le nostre miserie, le nostre intime ambascie.

Vincenzo Bellini ebbe principalissime, fra tutte le doti musicali, la schiettezza e la limpidezza, congiunte [55] alla più squisita semplicità delle forme. C'è stato perfino un tempo, nel quale non si dubitò di dirlo anche troppo semplice. Venti o venticinque anni fa il direttore di un teatro parigino, voglioso di rimettere in scena la Norma, propose a Giorgio Bizet, non ancora celebre, di rifare, secondo le nuove tendenze e il nuovo stile, la strumentazione dell'opera belliniana, e offrì al giovine maestro, bisognoso di lavorare, qualche migliaio di lire. Tutto lieto il Bizet portò a casa la partitura della Norma, stimando agevole impresa rimettere a nuovo la vecchia opera, vecchia allora di più che quarant'anni. Ma di lì a qualche giorno, con la partitura intatta sotto il braccio, egli andò a trovare il direttore di quel teatro, e restituendogli lo spartito gli disse che le opere del genio sono intangibili, che a mettervi le mani e ad alterarle si commette opera profanatrice e sacrilega. L'autore futuro della Carmen, grande artista veramente, respingeva da sè con ribrezzo la mostruosa complicità in un reato, rimasto fortunatamente uno sterile tentativo.

Ogni tempo ha l'arte che si merita e che gli si confà: e l'arte non ha efficacia immediata, se non in quanto rispecchia i gusti, le tendenze, le aspirazioni dell'epoca in cui ella sorge e fiorisce. La musica della prima metà del nostro secolo, discesa in [56] linea retta da quella del secolo precedente, mantenne intatta la tradizione, ma si arricchì di forme più belle, ma ebbe intenti più serii e più drammatici, ma penetrò anche più addentro nei segreti dell'anima umana.

Senza confondere l'arte con la scienza, ma senza ripudiare quest'ultima, rifiutò tutto quello che non germogliasse direttamente dalla fantasia. E appunto per questo fu grande e semplice; ed ebbe nome, per il momento, Vincenzo Bellini e Gaetano Donizetti, Oh non per loro certamente, non per le loro orchestre destinate ad accompagnare docilmente o ad abbellire di fregi modesti il canto della scena, non per le loro orchestre, come doveva accadere più tardi per il mistico Wagner, tutte le potenze della natura congiurarono favorevoli, nè la terra regalò quasi tutto il metallo delle sue miniere e il legname delle sue foreste per fornire le armi sonore destinate agli assalti irresistibili! La musica di quei nostri grandi, veramente nostri, scaturita come fonte viva di limpida acqua dalle viscere della montagna, non ebbe bisogno delle violente arginature artificiali che ne affrettassero il corso, ma si diffuse allargandosi come in azzurro tranquillissimo mare tutto bagnato di sole. Era il sole d'Italia, o signori, e non aveva nulla da invidiare alle nebbie germaniche.

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Diverso affatto dal Bellini fu Gaetano Donizetti, compagno suo ed emulo felice in quella gara che durò fino al 1835, fino all'anno in cui l'autore dei Puritani si spense. Di Vincenzo Bellini, tenuto conto anche dei primi tentativi melodrammatici, si contano nove opere soltanto: Gaetano Donizetti invece, fantasia più feconda, ingegno più vario se non altrettanto peregrino, e agitato dalla febbre continua del produrre, fornisce durante ventiquattro anni, dal '22 al '46, un così lungo cammino, e semina quel suo cammino, con una prodigalità che rasenta la spensieratezza, di così fulgidi capolavori, che basterebbe lui solo, io credo, a segnare di un'orma indistruttibile la storia dell'arte.

Egli fu veramente, per la grazia della espressione, per la originalità, la spontaneità, la vaghezza melodica, per una soavità e una delicatezza di cantilene non scevre di malinconia, egli fu il Mozart dell'Italia: non scevre di malinconia, ho detto, come fu divinamente malinconico il Bellini, sì che l'uno e l'altro pare che rispecchino, nella indole dei loro ingegni e dei loro animi, il virgiliano [58] sunt lacrimae rerum, che il Manzoni, forse inconsapevolmente, ha tradotto con la mestissima frase che «del dolore ce n'è, sto per dire, un po' per tutto». Se non che il Donizetti, fecondo e versatile come pochi, e superiore in questo al Bellini, ci lascia incerti anche oggi se riuscisse più felicemente efficace, appunto come Wolfango Mozart, nel melodramma serio o piuttosto nell'opera giocosa.

La popolarità e la fama rapidamente raggiunte lo avevano già reso celebre in pochi anni: il nome suo non pure famoso in Italia, ma nelle principali e più colte città dell'Europa, andava fino dal '37 congiunto ad opere che s'intitolano Anna Bolena e Elixir d'amore, Lucrezia Borgia e Lucia di Lamermoor, Marin Faliero e Parisina, per tacer delle altre: e sono opere che rimarranno lungamente vive, insieme con quelle degli ultimi suoi dieci anni: rimarranno vive anche nei pervertimenti frenetici del gusto, anche nei periodi delle così dette rivoluzioni musicali. Perchè il genio ha anche questo di buono, di salutare, di benefico: che sopranuota a tutti gli errori, a tutte le aberrazioni, alle storture d'ogni maniera: egli resiste sereno ed impavido ai mutabili capricci della moda, alle piccole e alle grandi ostilità, alle guerricciòle degli emuli, alle invidie degli impotenti.

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E notate questo, o signori: gli anni in cui il Donizetti imperò quasi solo nel campo della musica, furono gli anni delle aspettative pazienti: e perchè, nel silenzio di ogni voce un po' libera, e nell'abbattimento di ogni aspirazione generosa, gli astuti governanti d'Italia erano larghissimi nel favorire, nel secondare, nel provocar quasi i popolari entusiasmi per i grandi spettacoli teatrali, accadde che le fantasie, private per allora di ogni più vigoroso alimento, trovassero pascolo sufficiente e distrazione bastante per una nuova opera, per un giovane maestro che accennasse ad uscire dalla schiera dei volgari, anche per un artista, uomo o donna, che le imprese e le direzioni dei varii teatri d'Italia si disputassero.

C'era di mezzo l'arte; ma c'era anche, bisogna pur convenirne, il superficiale diletto dei sensi: e nel doloroso silenzio di cotesti anni fu possibile vedere, in quella città che doveva poi scrivere col proprio sangue una pagina immortale nella storia del risorgimento italiano, fu possibile vedere preso d'assalto, con manifestazioni quasi di delirio, il teatro della Scala da una folla tumultuante, perchè i due astri della danza, la Cerrito e la Essler, comparivano, per il momento non più rivali, in un medesimo, ballo e nella medesima sera; e fu anche possibile [60] vedere giovani patrizi e banchieri stagionati disputarsi non soltanto i favori ed i sorrisi delle danzatrici più celebri, ma anche i più minuti gingilli abbandonati dalle dive al servitorame degli alberghi; persino le maioliche intime di una Essler, ridotte in cocci, dividersi come reliquie fra qualche dozzina di adoratori, perchè potessero fregiarsene i candidi sparati delle camicie.

Ma non incrudeliamo soverchiamente sopra le debolezze di un tempo, la cui responsabilità non ricade che in piccolissima parte sulla cittadinanza italiana. Alle brevi aberrazioni succedevano ben presto i più durabili e fervorosi entusiasmi per le grandi rivelazioni dell'arte, e il Donizetti, morto Vincenzo Bellini, fu per allora l'unico sovrano intellettuale delle folle, l'unico inappellabile arbitro del gusto.

Nello spazio di ventidue anni, dal '22 al '44, egli scrive sessantacinque opere: due in ciascun anno, spesso tre, talora anche quattro. Gli accade più d'una volta di trovarsi a quindici e venti giorni di distanza dall'epoca fissata per la consegna di un'opera, e non soltanto non averne scritta neppure una nota, ma neanche sapere quale libretto gl'invierebbe il poeta: eppure nel giorno fissato egli mantiene scrupolosamente l'impegno.

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Una sua opera fresca e limpida anche oggi come un mattino di primavera, l'Elixir d'amore, egli la scrivo in quindici giorni; scrive in sei settimane la Lucia di Lamermoor, uno dei più squisiti capolavori musicali del secolo: compone in undici giorni il Don Pasquale, modello insuperato di commedia musicale: improvvisa in otto giorni la Maria di Rohan. Al cognato Vasselli di Roma, col quale mantenne sempre una fraterna e gioconda corrispondenza epistolare, così scriveva argutamente da Parigi nel 4 gennaio 1843:

«Il giorno 31 del passato dicembre passò non da questa all'altra vita, ma da una parte all'altra della Senna, il signor Donizetti, per essere nominato socio corrispondente dell'Istituto di Francia. E ieri sera, 3 del nuovo 1843, si diede al teatro Italiano la prima recita della sua nuova opera Don Pasquale. Non vi fu pezzo senza applausi: l'autore chiamato dopo il secondo atto e dopo il terzo. L'opera gli è costata una pena immensa: undici giorni. Ora a Vienna darà il Duello sotto Richelieu (che è la Maria di Rohan): otto giorni di travaglio: giorni contati. E siete pregato di non raccontare i miei segreti, perchè già il pubblico o non li crede, od immagina che sia musica buttata giù.»

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Nove anni prima, nel 1834 a Milano, una grave infermità d'occhi impedisce al Mercadante di scrivere l'opera che si è impegnato di consegnare al teatro della Scala. Mancano quaranta giorni allo scadere dei termini, e il Mercadante chiamato a sè il Donizetti caldissimamente lo prega di supplirlo, per evitare a se il pagamento di una grossa penale. Il Donizetti acconsente, in meno di trenta giorni consegna finita l'opera, e quell'opera ha nome Lucrezia Borgia.

Egli è fatto così: la sua produzione è fulminea. Basta che un soggetto potentemente lo attragga perchè egli se ne innamori, e subito gli trasfonda la vita immortale della sua arte. Indole arguta e di giocondissimo umore, lieto di trovarsi nell'amabile compagnia di parenti e di amici, egli non sfugge le allegre distrazioni della vita svagolata del palcoscenico, si trattiene perfino un po' troppo nei camerini delle prime donne; ma il pensiero fisso della sua mente è sempre rivolto a quell'opera, o meglio ancora a quelle opere che imprese, direzioni di teatri e pubblici con febbrile impazienza aspettano. E nei solenni momenti della geniale ispirazione egli si rinchiude, se così posso esprimermi, in quella parte del mondo ideale ove sorge il palazzo marmoreo dell'arte. Costì egli evoca intorno [63] a sè i fantasmi dei tempi e dei personaggi che furono, e scrive opere di argomento storico: cerca nei romanzieri, nei drammaturghi, nei commediografi l'abbozzo, la linea rudimentale di personaggi e di fatti immaginarii, ed egli li veste, li colorisce, dà loro la vita, il movimento, il colore della sua arte.

A queste due categorie di personaggi egli chiede misteriosamente il segreto della loro esistenza, dei loro amori, delle loro gelosie, dei loro odii, delle loro colpe, ed essi, come avrebbe detto Niccolò Machiavelli, per loro umanità gli rispondono. Nella storia e nella leggenda, nelle romanzesche avventure che i poeti immaginarono si svolgessero nelle antiche Corti, nei castelli medioevali, fra le montagne azzurre o fra le nevose della Savoia, nei poveri paeselli della campagna, nelle foreste della Scozia, nei grandi parchi dell'Inghilterra, il Donizetti si foggia per conto suo altrettanti mondi, e quei mondi, quasi rispondessero alla irresistibile chiamata di un dio, si risollevano dalle tombe come le suore peccatrici evocate dalla magìa di Roberto, scuotono la polvere dei secoli, palpitano e si muovono, perchè il genio di un uomo vi ha soffiato per entro il potente anelito della vita.

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* * *

Ma «la via lunga ne sospinge» e l'ora si affretta verso il suo termine. Guardiamo ancora. Ecco che sul nostro cammino.... diciamo meglio, ecco apparire nel nostro cielo un nuovo astro, non per ora d'intensa e continua luce come i due che lo precedono, fosco anzi e un po' tenebroso in principio, ma che scintillerà presto di splendori tutti suoi. E un giovine di ventotto anni, alto, magro, accigliato, con i lunghi capelli che gli scendono in ciocche abbondanti sul collo. La sventura lo ha colpito pochi mesi innanzi con la morte della giovanissima diletta compagna e di due figlioletti, e l'insuccesso clamoroso di una sua opera, la seconda scritta da lui, pare lo abbia allontanato per un pezzo dalla ingannatrice sirena melodrammatica. Dice a tutti di esser tornato dal nativo paese a Milano, non per cercarvi una gloria che pare il destino voglia negargli, ma per dar lezioni di canto e di pianoforte, giacchè egli ha bisogno di vivere.

Non ostante ciò, non può rinunziare a far vita [65] comune con gli artisti, a discorrere della musica degli altri non avendo niente di bello da raccontar della propria, e passa le giornate e le sere in quel mondo così vario, così turbolento, così incontentabile, che svolge le sue spire attorno alla piazza ove sorge il teatro della Scala: singolarissimo mondo che è come una Camera di Commercio del canto e della danza, mondo suddiviso in piccoli quartieri, in minuscole stanze a pian terreno ed al mezzanino, dove convengono ad ogni ora artisti, impresari, speculatori, faccendieri, buongustai, abbonati, pubblicisti, librettisti, maestri di musica, mezzani. Mancava allora la troppo celebrata galleria Vittorio Emanuele, sotto la cui cupola bighelloneggiano gl'irrequieti cercatori di scritture teatrali; ma c'era il portico del teatro della Scala, c'erano gli sgabuzzini degli agenti, i negozii di musica di Francesco Lucca e di Giovanni Ricordi, i caffè, le fiaschetterie, i camerini delle imprese, le quinte dei palcoscenici: e dappertutto era un rimescolìo di offerte e di domande, una animata, continua, febbrile conversazione, un protestare, un indignarsi, anche uno scambio di male parole fra chi vantava i propri meriti, e chi s'ingegnava a disprezzarli per pagar meno: e tutto questo accompagnato da squassamenti delle lunghe zazzere dei tenori spioventi [66] sui baveri, da movimenti drammatici dei pizzi prolissi dei baritoni, da voci cavernose dei bassi profondi, dallo scodinzolare leggiadro dei soprani, dei mezzi soprani, e dei contralti.

In quel mondo, al quale mancò finora - ed è veramente un peccato - l'arguto e verace istoriografo, si aggira inquieto e nervoso quel giovane di ventotto anni, che ascolta tutti e discute animato ed a scatti, che, nel facile contradire delle conversazioni al caffè, batte con violenza sul tavolino la mano larga e tozza, e con l'audacia di certi suoi propositi scandalizza i refrattari parrucconi del Conservatorio milanese: quei parrucconi che con una farisaica interpretazione dei regolamenti avevano respinta la sua domanda di parecchi anni prima per essere ammesso fra gli alunni di quell'Istituto musicale.

A cotesto giovanotto oramai maturo e già autore di due opere, che dice a tutti di non volere più scrivere per il teatro, e invece non pensa, non discorre, non palpita che per cotesto fantasma dei suoi trepidi sogni, a quel giovanotto occorre si presenti una occasione fortuita, occorre il mancato adempimento ad un patto contrattuale di qualche maestro, che so io? la necessità in cui si trovi un impresario di fare onore in qualsiasi modo agli [67] impegni assunti col pubblico: occorre questo, perchè gli occhi del giovine si ravvivino di speranze, perchè il tumulto della fantasia si ridesti, perchè il dio della ispirazione mandi il tonante grido della riscossa.

E il grido ci fu: la fantasia ebbe un sussulto: l'opera apparve luminosa nel cielo dell'arte. Quel giovinotto aveva nome Giuseppe Verdi, quell'opera s'intitolava Nabucco.

La storia anedottica del Nabucco l'ha raccontata lo stesso Verdi. L'opera doveva musicarla il maestro Nicolaj, e in una sera di decembre del 1841 l'impresario del teatro della Scala, incontratosi col Verdi, gli raccontò che il libretto della nuova opera non piaceva al maestro, che per la ristrettezza del tempo non era possibile averne altri, ma che lui impresario manderebbe al diavolo il Nicolaj se il Verdi accettasse di scrivere la musica del Nabucco.

La resistenza e le proteste furono vane: il giovane maestro, cacciatosi in tasca il manoscritto di Temistocle Solera, corse a casa: e aperto così a caso il quaderno, lesse i versi, rimasti celebri, dello stupendo coro: «Va', pensiero, sull'ali dorate,» che nella musica melodrammatica del nostro secolo è forse la invocazione più appassionata e più sublime [68] alla patria lontana, e che fratello maggiore del coro dei Lombardi, meriterebbe con più ragione si ripetesse di lui:

Che tanti petti ha scossi e inebriati.

Col Nabucco s'iniziano veramente i trionfali successi del Verdi: continuano con l'opera venuta dopo, I Lombardi alla prima Crociata, raggiungono il massimo dell'entusiasmo con l'Ernani: dal '42 al '44, il «giovane Verdi,» come allora lo chiamavano, avea acquistato in meno di tre anni un posto d'onore; e raro esempio nella storia dell'ingegno umano, non solo non ne discese più mai, ma di scalino in scalino, di tappa in tappa, se così mi è lecito esprimermi, salì alla fama, alla rinomanza, alla gloria. Egli rimaneva oramai quasi solo (l'astro del Donizetti si avvicinava rapidamente all'angoscioso tramonto), quasi solo egli rimaneva a rappresentare la grande, la nobile, la ispirata arte italiana.

Egli ebbe intenso dalla natura, e lo ha squisitamente affinato nel corso degli anni, l'istinto prezioso e incomunicabile dell'effetto teatrale; anche obbedì, in tutte le opere di quella sua prima [69] maniera, alla foga potente della ispirazione, e fu di un'abbondanza melodica che somigliò quasi alla prodigalità. Peccò qualche volta per dato e fatto della sua stessa virtù, peccò di trascuratezza. Simile forse in questo (me lo perdonino le ascoltatrici gentili) simile a una donna bella che osi, appunto perchè bella, presentarsi ai suoi ammiratori un po' scapigliata e in abito disadorno. Ma egli è che allora si scriveva musica per scriver musica, e con le sette note di Guido Monaco non s'intendeva di risolvere nè un problema d'algebra, nè un teorema di meccanica celeste: si voleva soltanto destare la commozione, il grande e il solo sentimento che possa chiamare le folle in teatro.

E di una commozione, trasportata fino alle regioni del parossismo, fu causa l'ultima delle opere che ho citata, l'Ernani. Il dramma audace dell'Hugo, simbolo di riscossa per tutta una scuola letteraria, diventa il vangelo altrettanto audace di tutti gli spiriti liberi. Venezia, dove la nuova opera fu per la prima volta rappresentata, e in breve giro di mesi tutta l'Italia acclamano il cantore di Doña Sol, come il rappresentante della musica dei tempi vaticinati. Pare quasi interrotta la tradizione; si direbbe che il maestro, spezzate le catene del convenzionalismo, si slanci a scoprire i nuovi orizzonti [70] dell'arte, illuminata da lui col sole del proprio genio.

Ernani è la protesta magnanima contro le tirannie, è l'odio della violenza alimentato dalla violenza, è il grido del popolo che si ribella alla signoria dei grandi e dei sovrani. Come suonano rimbombanti e armoniosissimi i versi del poeta francese, così l'alata schiera delle melodie del maestro italiano si libra a volo sul dramma, e tutto lo penetra e lo investe. C'è in quella musica qualche cosa di trepido, di convulso, di rapido, d'irrompente. L'ardentissima anima del Verdi non aveva avuto ancora, e forse non le ebbe mai più, vibrazioni musicali così gagliarde, non s'era mai slanciata a colorire con tanta esagerata potenza un immenso quadro drammatico. Io credo sieno pochi gli esempi di opera che, come l'Ernani, mantengano sempre viva, musicalmente, l'attenzione dalla prima all'ultima scena; e qui il dramma e la musica mirabilmente si fondono a raccontare in altissimo metro una pagina della storia eterna del cuore umano.

E così Giuseppe Verdi, con la stupenda produzione che va dal '42 al '46, schiude veramente le porte dell'avvenire, creando uno stile suo, manifestando una maniera tutta sua propria di concepire [71] e di svolgere un violento contrasto di passioni sulla scena melodrammatica. La fecondità di quelli anni, non dissimile dalla geniale rapidità donizettiana, nocque forse al maestro di Busseto per la materiale impossibilità di adoperare la lima: ma giovò alla espressione di una più grande sincerità in quei subitanei quasi selvaggi scoppi del genio, preludio ad avvenimenti che maturatisi nel silenzio, dovevano di lì a poco suscitare i fremiti delle balde giovanili speranze nel cuore improvvisamente svegliatosi della patria.

In quel medesimo anno, che è l'ultimo del periodo del quale le nostre Letture si occupano, e sempre nella città di Venezia, un'altra opera del Verdi scoppiò come fulmine e fu l'Attila: musica tempestosa che entrava difilato per le orecchie nelle anime, e di popolarità così clamorosa e così diffusa, che sopravvisse di qualche anno alla morte delle speranze italiane: come uno di quei canti che l'esule con accorata tenerezza ripete, perchè gli richiama alla mente le dolci valli della patria lontana.

È naturale quindi che in coteste opere della prima maniera del Verdi si volesse rintracciare un concetto politico: così nei Lombardi che sospirano al tetto natio e ricordano con sublime lamento i [72] ruscelli ed i prati della loro terra, parve di scorgere una anticipazione del quarantotto, quasi un simulacro di movimento nazionale: e nella celebre offerta dell'universo che fa Ezio ad Attila, purchè a lui, generale romano, rimanga l'Italia, c'era più che un pretesto per sollevare a rumore le platee, per far vibrare la corda dello spirito patriottico.

Si potranno questi chiamare gl'innocenti anacronismi della leggenda, ma non sono perciò inutili: tanto è vero che di lì a pochi mesi le più fortunate e popolari opere del Verdi si trasformarono in segnacoli di riscossa, i suoi canti ispirati furono gl'inni della nazione, e Gerusalemme diventò Milano con le sue cinque giornate. La musica è così fatta, che mirabilmente si piega ad esprimere il concetto dominante negli spiriti; e se un caldo soffio di poesia la ravvivi, ella diventa preghiera ed imprecazione, espressione d'infinito rammarico e di giubilante letizia, augurio, speranza, vaticinio. I poeti d'Italia cantavano in strofe roventi la rivoluzione prossima a trionfare; ma non bastava il ritmo poetico, ci voleva una risonanza più armoniosa e più vasta; e il popolo fremente e commosso ripeteva sulle pubbliche piazze il «Va' pensiero, sull'ali dorate» del Nabucco, e l'«Oh, Signore, dal tetto natìo» dei Lombardi. Con un [73] anticipato augurio di cinque lustri Alessandro Manzoni aveva inneggiato nella lirica patriottica del 1821 alle «giornate del nostro riscatto.»

Signore e Signori,

Attorno a quel gruppo di stelle, onde si compone la pleiade musicale che brillò nei puri vesperi dell'Italia dal '31 al '46, altri minori pianeti, come obbedienti satelliti, girarono e modestamente splendettero; ma la loro luce ebbe bagliori fugaci che ben presto si dissiparono. Nell'azzurro sconfinato del cielo gli astri di prima grandezza soltanto rimasero, ad attestare che il primato della musica è ancora nostro, e uno ancora vi rifulge solitario e lucente, come remota stella polare, speranza e guida dei naviganti che si affacciano ai mari inesplorati del secolo nascituro.

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