LA POLITICA DEGLI STATI ITALIANI DAL 1831 AL 1846

CONFERENZA

DI

R. BONFADINI.

[7]

Il Congresso di Vienna aveva dato all'Italia un ordinamento territoriale e politico assai ripugnante alle aspirazioni che la Rivoluzione francese e i regimi napoleonici vi avevano alimentato.

Restituendo la corona delle Due Sicilie a quel re Ferdinando che nel 1799 vi aveva esercitato così feroci vendette, la Santa Alleanza non gl'impose nessuna riserva, nè per gli antichi diritti costituzionali mantenuti costantemente, in maggiore o minore misura, nell'isola di Sicilia, nè per le nuove esigenze di civiltà amministrativa, sorte nella parte continentale del Regno, durante il governo del re Gioachino Murat.

Così pure, ricollocando sotto l'autorità del Papa i territorî dell'antico Patrimonio, le Legazioni, le Marche e l'Umbria, non si dava a quelle popolazioni [8] nessuna speranza che il vecchio regime sacerdotale potesse aprirsi a nessun miglioramento di legislazione o di indirizzo politico.

Ritornavano in Toscana i principi di Lorena; ed era forse quella la parte d'Italia meno offesa nei suoi sentimenti, vista l'antica e mite tradizione di governo di quella Casa.

Ma i ducati di Modena, di Parma, di Lucca, stabiliti solo per convenienza di principi e di principesse, rappresentavano la forma più acre del dispotismo, non temperato da nessuna responsabilità internazionale, da nessuna rispettabilità dei governanti.

Due repubbliche di antichissima origine, Genova e Venezia, invece di essere ricostituite come si ricostituiva quasi ogni cosa nelle condizioni anteriori al 1796, venivano aggregate a due grossi Stati; più fortunata Genova, che almeno serviva ad arrotondare uno Stato interamente italiano; più offesa nei suoi sentimenti e nel suo orgoglio Venezia, che diventava provincia di un Impero straniero, a cui si concedeva anche l'ambíto riacquisto della Lombardia.

La casa di Savoia, meno l'annessione di Genova, rientrava a un di presso ne' suoi territorî antichi; e per verità dalla Santa Alleanza avrebbe meritato [9] maggiori riguardi, in ragione dell'aspro trattamento subíto dal predominio francese e della costante fedeltà da essa serbata verso i governi di diritto divino.

Ma il Congresso di Vienna era stato, in ogni sua deliberazione, il trionfo dei forti. E il Piemonte non aveva potuto uscire più saldo da quelle stipulazioni, soprattutto per l'ostilità dell'Austria, che nutriva contro la casa di Savoia una diffidenza intuitiva, paralizzata ne' suoi effetti maggiori soltanto dalla benevolenza della politica russa.

L'Austria poi s'era assicurata una perfetta dominazione su tutte le cose della penisola italiana, vuoi pel possesso del magnifico territorio lombardo-veneto, così ricco di prodotti, di abitanti, di strade e di fortezze, vuoi per la stretta parentela della casa d'Habsburg con quasi tutti i principi minori d'Italia, vuoi per l'immensa superiorità delle sue forze militari, accresciuta da speciali trattati, che ponevano interamente a sua disposizione la politica, le armi e le polizie dei principati rifatti lungo la valle del Po.

In complesso, può dirsi che questo ordinamento rappresentava soltanto interessi di principi e di Case regnanti. Nessun interesse di popolo v'era stato consultato o contemplato. Fiera de' suoi successi [10] militari contro il colosso napoleonico, la Santa Alleanza s'era illusa che il mondo dovesse, d'allora in poi, essere governato dalla sola forza, e che questa sola meritasse d'avere organismi e guarentigie.

Non tardò a comprendere di essersi ingannata; ma intanto il suo inganno servì per molti anni a far persistere il governo austriaco, suo rappresentante in Italia, nell'uso, anzi nell'abuso della forza: e così sorse, quasi immediatamente nella penisola, il sentimento della resistenza contro gli ordinamenti politici e territoriali, imposti all'Italia dai trattati del 1815.

Com'è naturale, non avendo mezzi di esprimersi nè colla stampa, nè con forme di rappresentanza, gelosamente vietate dai regimi ristabiliti, il malcontento pubblico s'avviò verso i metodi della cospirazione. Trovatosi ad un tratto come chiuso in una camicia di forza, dopo avere passato parecchi anni sotto governi inspirati a principî più o meno tumultuosi di libertà, il popolo italiano non seppe acquetarsi a così improvviso e così duro mutamento d'istituzioni; molto più avendo la coscienza di essere stato anche prima piuttosto vittima che complice degli avvenimenti. Non potendo manifestarsi alla luce del sole, senza pericolo di prigione o di [11] capestro, cercò le vie sotterranee. E ne avvenne ciò che avviene di quelle terribili sostanze aeriformi, che, trovandosi chiuso il passaggio per le viscere della terra, prorompono e diventano terremoti.

Di lì quel carattere speciale di monotonia, che impronta di sè la politica degli Stati italiani, dal 1830, anzi addirittura dal 1815 fino al 1846.

Ad eccezione di uno solo, in tutti quegli organismi governativi non parve penetrare durante tutti quegli anni verun pensiero. Parve anzi che l'unica ed accanita preoccupazione di quei regimi fosse la guerra al pensiero, sotto qualunque forma e da qualunque compagine uscisse. Mentre tante novità sorgevano e si discutevano in Europa, dalla ricostituzione della Grecia a quella del Belgio, dalle insurrezioni iberiche all'insurrezione polacca; mentre tante questioni nuove di amministrazione e di governo balzavano lucidamente dalla virile eloquenza dei Parlamenti di Francia e d'Inghilterra, in Italia una sola attività prendeva il posto di tutte, un'attività di spionaggio e di polizia. Ricostituiti sull'unica base di un interesse dinastico, quegli Stati non ebbero dunque altro proposito che di mantenere la base. Purchè la casa del Principe fosse tranquilla e ben provveduta, l'interesse pubblico non esigeva di più. Se di questa situazione qualche Principe [12] abusava per uscire dal proprio diritto e violare, a danno dei sudditi, i doveri della moralità e dell'onestà, l'unica conseguenza era la necessità di una maggiore oculatezza, talvolta di una maggiore ferocia negli stromenti di polizia, per reprimere sdegni legittimi propositi di resistenza. Al postutto, le solidarietà nel male erano assicurate dall'interesse comune, e su tutte stendeva la sua indulgenza irresponsabile e sistematica la politica protettrice del principe di Metternich.

Nulla dunque distraeva quei ministri di Stato dall'esclusiva cura di perfezionare i metodi della polizia. E i dispacci di tutti quegli ambasciatori, quei consoli, quei diplomatici, diretti dalla suprema saviezza dei Canosa, dei Riccini, dei Lambruschini, arieggiano rapporti di questura, piuttosto che avvedimenti di uomini politici. Ora si tratta d'impedire un colloquio sospetto fra la marchesa Camerata e il prigioniero Duca di Reichstadt, ora di indagare le relazioni personali dei membri della famiglia Bonaparte in Roma, ora di vigilare perchè Achille Murat non si muova da Londra per lidi ignoti. V'è perfino un progetto di deportare tutti i liberali al di là dei mari europei; progetto che si ruppe unicamente contro la ripugnanza manifestata dai governi di Torino e di Firenze.

[13]

Centro di tutta questa reazione appassionata ed imprevidente fu soprattutto il seggio pontificio, sul quale, al principio del 1831, era venuto ad assidersi, per intrighi austriaci e spagnoli, un monaco d'illibati costumi, di mente corta e di pregiudizi fanatici, Mauro Cappellari della Colomba.

Rappresentato, ne' suoi rapporti di governo, da due personaggi, egualmente fanatici, il cardinale Bernetti e il cardinale Lambruschini, tutta la sua vita politica fu una lotta fiera e sanguinosa contro i suoi sudditi; sui quali fece pesare replicatamente l'onta dell'occupazione austriaca, richiesta ad ogni stormir di foglia e accordata anche più volonterosamente che non si chiedesse.

Di questa politica tutta a base di persecuzioni, di repressioni e di supplizi, si mostrava fiero censore un forte uomo politico italiano, Pellegrino Rossi; il quale scriveva al ministro degli affari esteri di Francia: «Se voi sapeste come tornerebbe agevole soddisfare i voti di queste popolazioni, senza nulla riversare, nulla snaturare! Tutta la parte sana non domanda che un poco d'ordine e di buon senso nell'amministrazione. Che s'impianti un governo assennato, e issofatto i demagoghi si troveranno isolati e impotenti.»

Ma questi consigli della ragione, dei quali parecchi [14] governi italiani, e prima e poi, avrebbero dovuto sentire l'opportunità, non tornavano a grado del governo austriaco, gran consigliere e gran protettore di Gregorio XVI; poichè il cardine fondamentale della politica metternicchiana in Italia fu sempre d'impedire che i principi indigeni accettassero progressi di legislazione; allo scopo di poter dimostrare che le provincie amministrate meglio erano quelle governate dalla Casa d'Austria, e trarne così, agli occhi dell'Europa, titolo a rendere sempre più durevole e più esclusiva l'influenza austriaca nelle cose della penisola.

Sicchè i metodi del Bernetti e del Lambruschini continuavano a trionfare contro tutti gli sforzi dei cospiratori interni e contro le timide rimostranze della diplomazia europea. Continuava lo scandalo delle dilapidazioni e dei favoriti, continuava la preminenza nelle cose dello Stato ora del barbiere Moroni, ora del colonnello Freddi, ora dell'agente austriaco Sebregondi, ora del prete Abbo, spergiuro e infanticida. In questa vergogna di cose s'andava rapidamente spegnendo ogni prestigio della sovranità temporale esercitata dal Sommo Pontefice; tanto che, fin dal 1837, l'inviato sardo a Roma, marchese Crosa, non si peritava di scrivere al conte Solaro della Margherita: «È qui comune idea fra [15] le persone che spingono lo sguardo nel lontano avvenire, il pensare che qualora prosegua in questo paese l'attuale ordinamento di cose, debba col tempo aver luogo qualche crisi essenziale; e la ipotesi la più plausibile sarebbe quella di vedere la gran Roma ridotta alla mera supremazia ecclesiastica, non conservando che l'ombra del temporale....» Il sagace diplomatico piemontese intravedeva già, fra gli errori e fra gli orrori del tempo, la soluzione soddisfacente, e, senza confessarlo a se stesso, tradiva il pensiero che, dalla tribuna parlamentare, avrebbe proclamato, ventiquattr'anni dopo, Camillo di Cavour!

Per allora, nulla si mutava e nulla si voleva mutare nello Stato Pontificio, a cui soltanto avrebbe dato una scossa, di proporzioni impreviste, il Papa futuro del 1846. Alle potenze europee, preoccupate di questa perpetua alternativa fra rivoluzioni e reazioni, la curia romana prometteva riforme, col preciso proposito di non attuarle; e i diplomatici d'allora si rassegnavano ad essere ingannati, come si rassegna sempre la diplomazia ad ogni inganno che serva alla pace d'un quarto d'ora.

L'Austria entrava ed usciva dai territorî papali come da casa sua; la Francia occupava Ancona, con gran fracasso di frasi, poi rimpiattava la sua sterile [16] iniziativa dietro le più umilianti dichiarazioni imposte dal cardinale Bernetti. Nel tutto assieme, trionfo di prepotenza, di reazione e d'ipocrisia, da cui la provvidenza storica si preparava a trarre i germi del fatto nuovo.

Poco al di sopra o poco al disotto della politica pontificia stava quella del duca di Modena, Francesco IV; al quale per rifare Cesare Borgia mancò l'audacia e per rifare Filippo II mancò l'intelligenza.

Dell'uno e dell'altro però ebbe l'istinto dispotico, le morbose ambizioni, l'animo freddamente feroce. Regnava da alcuni anni, quando scoppiò in Francia la rivoluzione del 1830. Una grande illusione s'era da quel rivolgimento diffusa nell'animo degli Italiani, specialmente del centro; l'illusione che da Parigi uscisse energico aiuto alle rivendicazioni liberali d'Italia. Il generale Pepe aveva capitanato queste illusioni, destreggiandosi presso il generale Lafayette, perchè accordasse alcuni soccorsi di fucili e di denaro.

Speranze simili erano penetrate anche in un uomo d'alto animo e di larghi concetti, Ciro Menotti, modenese e commerciante di professione. Poco fiducioso in moti popolari di carattere repubblicano, egli non aveva avuto difficoltà ad aprirsi politicamente [17] col suo principe, il duca Francesco IV, di cui conosceva la cupa indole, ma di cui aveva indovinato la segreta ambizione.

Sfiduciato di ottenere il trono di Sardegna, al quale per tanti anni aveva rivolto sguardi ed intrighi, Francesco IV suppose che la rivoluzione di Francia, riaprendo l'èra dei mutamenti italiani, gli avrebbe forse permesso di ricomporsi un trono più ampio, sui dominî dei principati vicini. Anche il titolo di re d'Italia pare sia balenato al suo pensiero. Sicchè, dimentico per un istante de' suoi fanatismi legittimisti, non respinse i discorsi di Ciro Menotti, che sembrava poter essere chiamato da prossimi avvenimenti a notevoli influenze politiche.

Però il prepotente atteggiarsi dell'Austria e il vacillante programma dei nuovi governanti francesi, la cui fierezza svampava nella rettorica parlamentare del generale Sebastiani, fecero accorto l'ambizioso duca della vanità de' suoi sogni. Sicchè, ritraendosi da' primi affidamenti, passò, come accade, a feroci vigilanze intorno al Menotti, di cui aveva sorpreso alcuni andamenti. Il Menotti s'era ingannato di vent'anni, supponendo maturo un popolo a concetti unitarî e fedele un principe ad impegni di libertà. Vistosi a un tratto circondato di diffidenze, dopo le prime larghezze lasciate al suo disegno, [18] non fu più in tempo a rompere le tese fila, e dovette anzi, per necessità di salvezza, precipitare lo scoppio. Il 3 febbraio 1831 l'avviso era dato, e una trentina di congiurati s'erano raccolti in casa Menotti. Ma l'avviso era giunto contemporaneamente anche a cognizione del Duca, il quale inviò soldati e cannoni, fece assalire la casa, uccidere alcuni complici e tradurre incatenato alle sue carceri Ciro Menotti. È del giorno successivo quel terribile dispaccio di Francesco IV al governatore di Reggio: «Questa notte è scoppiata una formidabile rivolta contro di me. I cospiratori sono nelle mie mani. Mandatemi il boja.»

Erano questi i pregiati autografi dei principi d'allora.

Del resto, il trionfo momentaneo delle insurrezioni romagnole e modenesi non riuscì a togliere una vittima alle vendette del duca di Modena. Il quale, fuggendo sul territorio austriaco e ritornando dopo la bufera, ne' suoi dominî, aveva trascinato seco in catene l'infelice Menotti. Il processo aperto da un tribunale statario contro di lui ebbe l'esito che non era difficile prevedere. La mattina del 26 maggio 1832 fu appiccato per ordine dell'implacabile Duca, a cui quell'uomo vivo rappresentava il rimorso d'una politica equivoca.

[19]

E questa politica fu anche l'unica, fu l'ultima che desse un qualche rilievo al Ducato di Modena. Il quale era poi cercato con affettata ignoranza sulla sua carta geografica dal re Luigi Filippo, un po' indispettito perchè il principe modenese si fosse impuntato a non riconoscere la sua sovranità. Tempi curiosi, nei quali i principi a cui una rivoluzione riusciva pretendevano essere accettati da sovrani legittimi; mentre poi i principi che in un tentativo di rivoluzione s'erano tuffati credevano disonorarsi riconoscendo principi a cui il tentativo aveva giovato.

Meno feroci, anzi punto feroci, perchè l'ambiente non consentiva ferocia, erano le pressioni esercitate dal gabinetto austriaco sulla famiglia toscana.

Nella casa di Lorena non era minore che in tutte le altre d'Italia la preoccupazione dinastica; ma poichè le miti tradizioni popolari non incoraggiavano tentativi settarî, quel governo cercava mantenersi con politica blanda, addormentando piuttosto che urtando, corrompendo piuttosto che offendendo, cercando di deviare verso istituti di benessere materiale quelle forze intellettuali bramose d'ideali, che nel paese sovrabbondavano.

Era, scrive il Tabarrini «la mediocrità in ogni cosa». Sicchè Gino Capponi patíva «le fiere malinconie [20] dell'ingegno inerte e costretto». «Il principato lorenese», afferma Giuseppe Montanelli «faceva degenerare il popolo toscano».

Il che non pareva sufficiente alla politica del principe di Metternich, il quale avrebbe certamente creato delle sètte dove non esistevano, per darsi la gioia di perseguitarle. Contro il granduca Leopoldo attizzava la diffidenza fra i potentati europei. Il non vedere erette forche in quell'angolo d'Italia gli pareva una debolezza, fomite di prossime rivoluzioni. Quando, nel 1835, il governo granducale mitigò la pena del carcere ad alcuni condannati per causa politica, l'ambasciatore d'Austria a Firenze consegnò un dispaccio ufficiale, in cui era detto che «il Sovrano della Toscana, così operando, incoraggiava il delitto».

Per una sommossa di studenti nell'Università di Pisa, il gabinetto austriaco consigliava riformare gli statuti della pubblica istruzione, sostituendo nella scelta dei professori al criterio della scienza quello della fedeltà politica. Chiese, e pur troppo ottenne, la facoltà d'istituire per suo conto un gabinetto nero per l'apertura delle corrispondenze private. Chiese, e pur troppo ottenne, che si sopprimesse l'Antologia e si sbandisse da Firenze Niccolò Tommasèo. Chiese, e pur troppo ottenne, crescendo colle [21] rassegnazioni le esigenze, che fossero arrestati il Guerrazzi, il Bini, il Salvagnoli, il Contrucci e parecchi altri, processandoli per aderenze settarie, che non furono mai potute provare. Perfino il Congresso dei Dotti, tenutosi in Pisa nel 1844, fu argomento di fieri rabbuffi alla debolezza del principe che lo aveva concesso. E quel filosofo del maresciallo Radetzki, scrivendo all'ambasciatore austriaco in Firenze, considerava il Congresso di Pisa come «un'istituzione destinata a travagliar gli animi in segreto per gettare le fondamenta dell'opera infernale della rigenerazione italiana».

Sicchè non è meraviglia se la politica austriaca avesse anche immaginato, circa la Toscana, ipotesi più ardite e più avide, quando pareva che al granduca Leopoldo mancasse la prole. Le manifestava senza ambagi l'imperatore Francesco al Granduca, dicendogli: «Mi spiace dirvelo, ma non avvi rimedio; la Toscana diverrà provincia austriaca». Fortunatamente - guardate di che avverbi deve talvolta servirsi la storia! - fortunatamente la granduchessa Marianna Carolina morì, e da un successivo matrimonio Leopoldo ebbe prole maschile. La «provincia» agognata dall'imperatore d'Austria era destinata a tutt'altra sovranità.

Di questa politica toscana, tutta a spinte e controspinte, [22] ebbe per moltissimi anni la responsabilità principale Vittorio Fossombroni, spirito arguto, scienziato eminente, uomo di Stato profondamente scettico, i cui ideali di governo non oltrepassavano i limiti d'un dispotismo bonario, e che, finite le ore d'ufficio, respingeva ogni affare, dicendo: «Il desinare brucia, lo Stato no».

Pure, così scettico com'era, si devono a lui quelle poche resistenze che oppose la Toscana così alle pretese austriache come alle esigenze chiesastiche. Sapeva di rispondere ad una vecchia tradizione di governo locale, equilibrandosi contro Vienna e Roma. Spento lui, prevalsero sulla fiacca indole del principe lorenese influenze tortuose e schiettamente retrive. Il suo confessore Balocchi gli negava l'assoluzione se resisteva alle domande della Corte di Roma; il suo ministro degli esteri, Hombourg, gli faceva firmare tutto ciò che piaceva al Gabinetto di Vienna.

Era con siffatte disposizioni che la dinastia lorenese si affacciava ai nuovi tempi. Erano queste le forze che preparava per resistere all'onda mossa dietro di lei da quella pleiade illustre di liberali colti ed energici, che dai Galeotti, dai Salvagnoli, da Ferdinando Andreucci giungeva a Gino Capponi, a Ubaldino Peruzzi, a Bottino Ricasoli.

[23]

Ci allontaniamo parecchio da questi nomi scendendo giù per l'Italia fino a Napoli, dove troviamo quelli di Ferdinando II, del marchese Del Carretto, di monsignor Cocle, confessore del Re.

Qui ritorniamo all'antitesi nella sua più cruda espressione; la prosperità dinastica fondata sulla pubblica umiliazione; i supplizi correttivi delle cospirazioni; la polizia e lo spionaggio, elementi dominatori dello Stato.

La polizia muta, pur rimanendo identica. Vuol dire, cioè, che nel sogno d'un despotismo più intenso, si cerca perfino di allontanare l'influenza austriaca, contrapponendovi ora influenze francesi, ora influenze sarde, purchè aiutino il programma d'una indipendenza del principato, unicamente volta a intera libertà di oppressione.

Questo parve essere infatti il pensiero direttivo del nuovo Sovrano, che saliva al trono l'8 novembre 1830. Ferdinando II, come fu più tardi giudicato da scrittori senza passione, non era uomo cattivo, ma sopraffatto da un'indole rozza e volgare. Apparteneva ad una stirpe regia, per la quale il giurare una Costituzione era fenomeno altrettanto consueto quanto il ritoglierla. Governava un'amministrazione, la cui corruttela formava il disgusto di tutti i diplomatici accreditati presso la Corte di [24] Napoli. Non voleva lasciar far nulla a nessuno ed era poi così inerte e svogliato, che non riusciva a far nulla da sè. Si stemperava in motti di spirito, in lazzi osceni o brutali. Ora toglieva la sedia di sotto alla regina, per farla sconciamente cadere a rovescio, ora frustava le gambe al cavaliere Caracciolo di Castelluccio, per vederlo saltare, gridare e piangere. Quando gli parlavano di modificare le uniformi dei soldati, rispondeva: «Vestili come vuoi, fuggiranno sempre». Quando gli additavano qualche ufficiale pubblico, arricchitosi scandalosamente colle concussioni, diceva: «Preferisco i ladri ingrassati ai ladri da ingrassare».

Al di sopra poi di tutto questo scetticismo e di tutta questa brutalità, appariva un furore quasi morboso di comando dispotico. Del principe di Metternich amava i principî di governo, se non accettava sempre volentieri i consigli. Al re Luigi Filippo, che lo aveva timidamente invitato ad allentare un po' le redini della tirannia, rispondeva senza ipocrisie: «Il mio popolo ubbidisce alla forza e si curva; ma la libertà è fatale alla famiglia dei Borboni, ed io sono deciso ad evitare ad ogni costo la sorte di Luigi XVI e di Carlo X». Non l'ha evitata al suo immediato successore. Dio ha permesso che gli giungesse all'orecchio, [25] prima di morire, il rombo dei cannoni di Montebello.

Con siffatto re e siffatta politica, i destini delle popolazioni meridionali apparivano chiari; oscillare fra le agitazioni e le repressioni.

Sbollite infatti le prime illusioni del nuovo regno, cominciarono i fenomeni del pubblico malcontento.

Nel marzo 1831, cospirazione in Abruzzo, due cospirazioni a Napoli nel 1832, cospirazione a Capua e a Salerno nel 1833, insurrezioni nel 1837, così nell'isola di Sicilia come sul continente. Poi, altra cospirazione nel 1838, pronunciamento costituzionale in Aquila nel 1841, moto insurrezionale nelle Calabrie durante il 1843, e finalmente spedizione dei fratelli Bandiera nel 1844.

Da tutti questi movimenti uscivano processi, combattimenti, fucilazioni, esilii; e si disperdevano pel mondo giovani divenuti poi stromenti vigorosi d'italianità nei successivi periodi, come Pier Silvestro Leopardi, Carlo Poerio, Giuseppe Massari, Benedetto Musolino, Giuseppe Ricciardi, Luigi Settembrini, Saverio Baldacchini, Francesco Paolo Bozzelli. La politica di Ferdinando II, come quella di tutti i governi persecutori del pensiero, preparava così a sè stessa gli elementi della sconfitta. Nessuno [26] sa dire che forze d'ingegno e che virtù di propaganda scompaiano pei supplizi politici; ma le carceri e gli esilii politici ingrandiscono sempre uomini, che forse, meno perseguitati, avrebbero avuto minori spinte all'azione e minori opportunità di rinomanza. Certo, l'eco mondiale dei dolori di Silvio Pellico, del Confalonieri, del Maroncelli ebbe per l'Austria, come diceva il Sismondi, peggiori conseguenze che una battaglia perduta. E la falange di esuli creata dalle persecuzioni politiche di Ferdinando II rese popolari nell'Europa, che prima non li conosceva, quei nomi e quegli uomini, da cui trasse Guglielmo Gladstone la coscienza di quella terribile invettiva, sotto la quale cadde prostrato il governo dei Borboni di Napoli.

È una delle leggi storiche più consolanti, una di quelle che più si ripetono e confermano nel tempo. E se il dispregiarla è carattere proprio dei regimi dispotici, che alle forze morali non credono e l'avvenire non curano, sarebbe fatale pei regimi liberali l'obliarne l'efficacia e la logica.

Del resto, - ed ora può dirsi - sarebbe stato un grande ostacolo per lo svolgimento normale del sistema italiano se Ferdinando II avesse ubbidito a consigli politici di altra natura. Questa tentazione era passata, nei primi tempi, per l'animo [27] suo: ed anche su lui, come sul duca Francesco IV, aveva tentato qualche pressione quel manipolo di liberali che in ogni regione italiana stava all'agguato per indovinare un principe.... diverso dagli altri. Il pericolo sarebbe stato grave se, cedendo alle influenze di Luigi Filippo, il re di Napoli avesse camminato per quella via delle riforme che lo aveva sedotto nei primi mesi del suo governo. Una iniziativa liberale partita dal mezzogiorno, negli anni fra il 1830 e il 1840, avrebbe potuto impacciare l'iniziativa liberale del settentrione e creato fra i patriotti italiani un dualismo forse esiziale per l'ideale politico.

Se le cospirazioni furono la ragione o il pretesto per cui la dinastia borbonica respinse ogni tentazione di liberalismo e si rifugiò paurosa nell'abbraccio austriaco, bisogna dire che queste cospirazioni hanno raggiunto il loro scopo. Le ultime soprattutto, perchè in queste spuntava nuovo e seducente il concetto unitario, a cui Giuseppe Mazzini, colla sua grande facoltà d'iniziativa, aveva ormai coordinate tutte le fila del movimento settario, staccandolo dalle antiche tradizioni di vendette locali.

Certo, non s'era mai visto prima che un drappello di giovani veneti chiamasse a rivolta popolazioni napoletane; si sarebbe visto non molto dopo [28] un generale napoletano chiamato a comandare rivolte venete. Erano i primi sintomi di quella felice fusione di sentimenti, che avrebbe dato alle popolazioni italiane un solo vessillo ed un solo programma.

La generazione contemporanea può discutere liberamente il fenomeno delle cospirazioni italiane, che sarà argomento di studio, non sempre facile, per le generazioni venture. Quando un paese, dopo mezzo secolo d'esercizio, s'è tanto inoculato il vaccino della libertà da credere piuttosto al diritto di abusarne che alla possibilità di scemarla, può essere anche impunemente ingiusto verso quei precursori, o efficaci o semplicemente ingenui, che a metodi diversi hanno dovuto ricorrere. Il collocarsi col pensiero negli ambienti giuridici, morali e politici del passato è uno sforzo che non sempre riesce neanche a storici pacati e desiderosi d'imparzialità. È proprio dell'indole umana giudicare altri da sè come esaminare i tempi alla stregua dei criteri contemporanei.

Sugli innumerevoli tentativi di movimento che hanno agitata l'Italia dal 1815 al 1848 si possono portare giudizi diversi, secondo gli scopi, secondo gli effetti, secondo gli uomini. Però il tentativo dei fratelli Bandiera ha ed è giusto che abbia un [29] posto a parte. La povertà dei mezzi coi quali fu condotto potrà sempre meritare, nell'opinione dei pensatori austeri, rimprovero di spensieratezza; ma le splendide idealità a cui s'inspirò quell'impresa, cominciata con tanto amore e finita con tanta pietà, hanno innalzato il sacrificio all'altezza di programma politico, ed hanno gettato su tutto il successivo movimento italiano quel profumo di giovinezza e di poesia, che, anche quando rimane leggenda, aiuta a render grandi le cose nobili e a mantenere nobili le cose grandi.

Ho detto, sul principio di questo discorso, che, ad eccezione di uno solo, tutti gli organismi governativi italiani respingevano volontariamente da sè ogni velleità di pensiero.

L'eccezione, voi l'avete indovinato, deve cercarsi nello Stato Sardo; che venne pigliando, attraverso molte contraddizioni, il suo preciso indirizzo, soprattutto dopochè, morto Carlo Felice, senza discendenti diretti, saliva al trono, il 27 aprile 1831, un uomo, contro il quale s'è per lunghi anni sbizzarrita un'aspra e ingenerosa polemica, Carlo Alberto, principe di Carignano.

È un nome che non può uscire dalla penna o dalle labbra, senza richiamare ogni animo gentile a profonde meditazioni. Fu nella vostra città, in [30] Firenze, ch'egli venne a cercare conforto de' suoi primi dolori; fu il vostro gran cittadino, Gino Capponi, che ne ottenne le prime confidenze di uomo e di principe. Chi lo ha chiamato Amleto, non ha riassunto che ima parte dell'anima sua; poichè Amleto ha ucciso di spada per vendicare la patria, Carlo Alberto s'è ucciso di dolore per liberarla; Amleto è morto nel dubbio, Carlo Alberto è morto nella fede, - in quella fede che sul campo di Novara gli aveva fatto indovinare Vittorio Emanuele II.

Più nel vero è il marchese Costa de Beauregard che lo chiama le plus grand des méconnus. È infatti questa l'amarezza che gli avvelena la vita: essere sempre giudicato a rovescio, - essere accusato di accarezzare sentimenti in diretta opposizione coi suoi. Ha il desiderio di allargare a' suoi sudditi le funzioni del governo, e lo chiamano reazionario; dirige tutta la sua politica allo scopo di render possibile una guerra d'indipendenza, e lo chiamano austriacante; abdica e muore per rimanere fedele alla sua missione, e lo chiamano traditore.

Sono le grandi ingiustizie dei contemporanei che la storia è sovente chiamata a rintuzzare. E dopo cinquant'anni sono ormai già tanto rintuzzati, che [31] ognuna delle pubblicazioni relative a Carlo Alberto aggiunge una giustificazione od un elogio per lui, nessuna riesce ad aggiungergli un biasimo od una colpa.

Il pensiero politico ch'egli porta al trono e con cui dirige lo Stato è il pensiero dell'indipendenza italiana. Nè, malgrado le difficoltà dei tempi, lo teneva talmente celato che non si avvertisse dai ministri suoi, più invecchiati nel sentimento dinastico e nella tradizione diplomatica del diritto divino. Quando infatti, sollecito di non tradir l'avvenire, nominava a suo ministro degli affari esteri un uomo innamorato delle vecchie forme, il conte Solaro Della Margherita, questi lasciava scritto fin dal 1835: «Non ebbi d'uopo di grande scaltrezza per iscoprire, che oltre al giusto desiderio d'essere indipendente da ogni influenza straniera, egli era fin nel profondo dell'animo avverso all'Austria e pieno d'illusioni sulla possibilità di liberare l'Italia dalla sua dipendenza. Non pronunziò la parola di scacciare i barbari, ma ogni suo discorso palesava il suo segreto».

Che a questo concetto dell'indipendenza della patria si associasse l'altro di ingrandire lo Stato, secondo le secolari tradizioni della casa di Savoia, non è difficile supporlo e non gli procurerebbe nessun [32] rimprovero dalla storia. Ma dal cauto suo labbro uscì pure una frase, la quale dimostra che non egoista e non angusta era in lui la previsione dell'avvenire; poichè all'inviato suo, conte Ricci, che gli poneva alcune obbiezioni di carattere dinastico, non esitò a rispondere fin dal 1845: «Conte, la forma dei governi non è eterna; cammineremo coi tempi».

Il 1821 e il 1833 furono le due epoche formidabili, che servirono a tante penne, alcune oneste, per dilaniare la memoria di Carlo Alberto. Nel 1821, fu detto, tradì i suoi amici, ai quali aveva promesso di aiutarli nel movimento. Nel 1833 perseguitò i liberali, condannandoli all'esilio od alla morte.

Ebbene, a settant'anni di distanza possiamo avere l'animo abbastanza calmo per esaminare queste due accuse.

Nessuno ha mai saputo dimostrare che cosa Carlo Alberto avesse promesso ai cospiratori del 1821 e in che modo quindi li avesse traditi.

Bisogna essere bene inesperti di congiure e di rivoluzioni per ignorare quanto sia facile a cospiratori illudersi sopra una parola o sopra un gesto, e come sia prepotente, negli uomini che si sono posti, anche per una causa nobile, fuori della legge, [33] il bisogno di aggrapparsi a qualunque filo che sembri legarli ad altri e maggiori cooperatori del loro proposito.

Gli uomini che s'erano illusi di poter dare nel 1821 istituzioni costituzionali al Piemonte, erano tutti amici commensali del principe di Carignano. Se dunque o il Lisio o il Balbo o il Santarosa o il Collegno, tutti insieme, come pare, disvelarono a Carlo Alberto i loro vincoli colle società segrete, chiedendogli appoggio per ottenere promesse liberali dal Re, doveva essere in loro fortissima la speranza che l'adesione di un personaggio così vicino al trono avrebbe nel tempo stesso dato guarentigie maggiori al successo della loro impresa e sopra tutto giustificata in loro un'attitudine, che, da parte di ufficiali e di funzionari pubblici, poteva sembrare passabilmente arrischiata.

Quale fu la risposta di Carlo Alberto? Una conferma dei sentimenti liberali manifestati nell'intimità di antecedenti colloqui; un serio ammonimento circa l'impossibilità che in quel momento l'impresa riuscisse; la più esplicita dichiarazione che in nessun caso egli avrebbe aiutata una soluzione, a cui il Re legittimo fosse contrario. Si sono potute ammucchiare contro Carlo Alberto centinaia di pagine; non s'è mai potuto accertare [34] che altre da queste siano state le sue dichiarazioni.

Ora, sia che i congiurati abbiano afferrata a volo la prima frase, dimenticando le altre; sia, com'è più probabile, che il moto li abbia trascinati, al solito, più in là delle loro previsioni, non avevano essi il diritto di affermare la complicità di Carlo Alberto in una impresa, uscita affatto dai limiti, nei quali egli avrebbe potuto accettarla.

E se, malgrado gli ammonimenti suoi, la congiura, prorompendo a rivoluzione, lo poneva nel bivio di diventare un ribelle o di restare un principe di casa Savoia, chi oserebbe, specialmente oggi, fargli una colpa d'aver voluto rimaner tale?

Non egli dunque tradì i congiurati; ma la congiura tradì lui e tutti, portando la situazione a conseguenze non prevedute, a scopi non proporzionati ai mezzi militari, finanziari e politici, di cui la congiura poteva disporre. E, del resto, questo compresero così bene, dopo le prime amarezze, i congiurati stessi, che poi ad uno ad uno si raccostarono al principe calunniato, e ridivennero prima ancora del 1848, i più fedeli suoi consiglieri, i suoi amici più cari. Nè a quel gran sofferente venne mai meno la generosità dell'oblio. Poichè, quando gli accadde, verso il 1846, d'aver bisogno d'un [35] segretario, offrì il posto e lo stipendio a quel poeta Giovanni Berchet, che lo aveva, pei fatti del 1821, flagellato di versi così crudeli. E il Berchet, declinando con animo commosso l'offerta, diceva all'amico suo Carlo d'Adda, oggi senatore del Regno: «Darei dieci anni della mia vita per non avere scritto quei versi».

E veniamo al 1833. In quell'anno, come è noto, un'altra congiura politica, a cui non erano pure estranei alcuni ufficiali, era stata ordita in Piemonte sotto le prime influenze della propaganda mazziniana, disciplinata nella Giovane Italia. Pioveva, come suol dirsi, sul bagnato; poichè soltanto due anni prima, all'epoca della proclamazione di Carlo Alberto, una setta repubblicana aveva reclutato tra le stesse guardie del Corpo alcuni proseliti disposti ad assassinare il Re. Scoperta la prima cospirazione, il Re fu clemente e si limitò a chiudere in Fenestrelle il capo della congiura. Scoperta la seconda, l'atteggiamento diventò severissimo e il Re deferì i colpevoli al giudizio dei consigli di guerra. Questi procedettero, secondo l'indole loro, inesorabili e le condanne a morte furono [36] più d'una. Nessuno affermò che con quelle condanne si fossero violate le disposizioni della legge stataria vigente, ma tutti deplorarono che Carlo Alberto non avesse usato più largamente del suo diritto di grazia.

E lo deploro anch'io. Però non si può non pensare che questo diritto di grazia costituirebbe nei nostri codici una bugia, se i Principi se lo vedessero sotto mano tramutato in dovere; se a loro non fosse mai lasciata nessuna libertà di considerare i tempi, le circostanze, le difficoltà dello Stato. Si possono desiderare i Principi sempre magnanimi; non si possono vituperare i Principi anche severi, se la giustizia non è offesa dagli atti loro.

Carlo Alberto si trovava ne' suoi primi mesi di regno. La sua condotta era gelosamente investigata dagli altri monarchi europei, nei quali non si poteva dissipare la nube di sospetti, addensata, pei casi del 1821, intorno a lui. Ebbe egli il sentimento che la severità legale fosse in quella occasione l'unico modo di uccidere quei sospetti per sempre e di lasciargli intera l'indipendenza de' suoi movimenti per l'avvenire? o fu veramente dominato dal pericolo che quei tentativi settarî, specialmente rivolti contro l'esercito, si riprendessero e scuotessero nella sua compagine la monarchia, di [37] cui divisava fare più tardi una macchina per l'indipendenza italiana?

Certo è che i procedimenti susseguiti a quelle agitazioni parvero eccedere ogni misura di colpa, e ne restò sulla condotta di Carlo Alberto lungo rimprovero di liberali. Ci vollero gli eroismi e le sventure del biennio 1848-49 perchè quelle impressioni rimanessero interamente dimenticate.

Del resto, non erano tempi facili, nè pei popoli, nè pei principi; difficili specialmente per quel principe, che voleva e diede più tardi al suo popolo istituzioni a cui nessun principe italiano contemporaneo si rassegnava di buona fede. Al duca d'Aumale, venuto alcuni anni dopo a visitarlo, Carlo Alberto diceva: «Je suis entre le poignard des Carbonari et le chocolat des Jésuites». Non è dunque storicamente giusto il biasimo inflitto dagli scrittori intransigenti alla contraddizione quasi tragica nella quale oscillò Carlo Alberto, prima della sua ultima e grande evoluzione politica. Quella contraddizione poteva essere in parte attribuita all'indole del tempo. Fra il Metternich, che minacciava di detronizzare Carlo Alberto a beneficio del duca di Modena, e il Mazzini che s'agitava per detronizzarlo a beneficio della Repubblica, la via sempre diritta non si vedeva chiara.

[38]

I sovrani hanno, anche più degli altri uomini, il diritto d'essere giudicati sopra l'insieme della loro vita, non sopra episodi passeggieri, di cui ordinariamente non si scoprono e non si misurano che assai tardi le varie responsabilità.

Nel 1821, un principe d'impulsi subitanei, ma di scarsa previdenza, avrebbe forse potuto strappare ai pubblicisti del tempo un grido d'ammirazione, rinunciando ai suoi diritti dinastici per combattere una battaglia disperata in nome della libertà. Ebbene? quale ne sarebbe stato l'effetto? ch'esso avrebbe dovuto, dopo la sconfitta, o andare a morire in Grecia, come Santorre di Santarosa, o trascinare per tutte le capitali europee l'antipatica figura di un principe spodestato. Il Berchet non avrebbe scritta la sua fiera apostrofe, ma sul trono sabaudo si sarebbe assiso il carnefice di Ciro Menotti, e forse l'Italia starebbe ancora meditando, per secoli, il problema della sua esistenza.

Carlo Alberto fu assai meglio inspirato. Affrontò, con mesto animo, ma con grande energia morale l'ingiustizia de' suoi contemporanei. Scelse Iddio e la storia a giudici suoi. E la storia certamente gli perdonerà qualche menda de' suoi primi anni, ricordando la grandezza degli ultimi; nei quali la sua lealtà non può essere pareggiata che dal suo ardimento, [39] e la semplicità del sacrificio è in perfetta armonia colla nobiltà della causa per cui lo fece.

In questa differenza tra il pensiero politico di Carlo Alberto e il pensiero, o meglio il metodo politico degli altri principi della penisola, sta il segreto dell'avviamento che prese la storia d'Italia dopo il 1846.

E poichè in una legge storica consolante già ci siamo imbattuti durante questa passeggiata italiana, vediamo di non isfuggirne un'altra, che pure al nostro pensiero si afferma.

È assioma di pubblicisti volgari e di menti isterilite da scetticismo, essere la politica fondata sulla furberia piuttosto che sulla lealtà, e doversi respingere dall'arte di governare i popoli ogni miscela di sentimento o di cuore. Tutto ciò risponde ai dettami di quell'egoismo, sul quale una falsa scienza sedicente positiva vorrebbe impernare le novità del mondo.

Ebbene, la politica dei vari principi italiani dal 1815 al 1848, fu essenzialmente egoista; una sola, quella di Carlo Alberto, ebbe virtù di espansione, carattere di altruismo. Questa rimase, trionfò e trionfa ne' suoi successori; dell'altra non restano più che ricordi, rattristati dalle catastrofi e illanguiditi dal tempo. In quegli anni di dolori e di speranze, [40] un solo principe buttò agli eventi la sua corona per capitanare due guerre d'indipendenza; uno solo giurò la Costituzione, senza ritoglierla. Che meraviglia se a quel solo l'Italia s'avvinse, indovinando dalla fede del primo la lealtà non mai smentita dei successori?

Non è dunque vero che la modernità debba uccidere gl'ideali per far vivere gl'interessi. La contraddizione fra gli uni e gli altri è l'ipotesi d'una dialettica artificiosa, non la formola uscita dalla logica degli eventi.

La morale pubblica non può essere, non è diversa dalla morale privata. Attingono entrambe la loro autorità dal sentimento del dovere, che non è mai in contrasto coi dettami della virtù.

Vi riuscirebbe difficile dedurre da qualche deplorabile eccezione che nella vita privata la disonestà produca dei felici. Potete affermare, senza tema di smentite, che, nella vita pubblica, la prosperità degli Stati è in ragione diretta dell'onestà dei Governi.

[41]

Share on Twitter Share on Facebook