LA VECCHIA ITALIA

CONFERENZA

DI

GUGLIELMO FERRERO.

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Mezzo secolo addietro la vecchia Europa sentì a un tratto tremarsi sotto la terra. In un impeto di audacia, che anche oggi, dopo tanti anni, sembra a noi miracoloso, gli uomini insorsero quasi dovunque contro l'ordine che si diceva costituito per volere di Dio; e, in pochi mesi, i governi più antichi rispettati e temuti parvero distrutti per sempre o vicinissimi all'estrema rovina.

Questa rivoluzione del grande anno, unica in apparenza, fu in realtà molteplice; perchè ogni popolo meritò un premio suo, con le proprie audacie rivoluzionarie. In Italia i rivolgimenti del 1848 parvero mirare specialmente alla liberazione nostra dalla signoria straniera; ma chi fruga un poco addentro nella storia della società italiana, dal 1830 al 1848, vien fatto di accorgersi presto che, sotto [44] la guerra tra austriaci e italiani, si nascose allora, come dopo, il conflitto tra una società che esisteva e l'idea, il disegno, il proposito di una società nuova. Non è possibile comprendere la storia italiana di questo ultimo mezzo secolo, se non si comprende il carattere sociale della rivoluzione del 1848; ma la natura di questo terribile rivolgimento si può a sua volta capire solo studiando la società della vecchia Italia dal 1830 al 1848; nella quale maturò la discordia, che doveva scoppiar poi nella aperta guerra durata dal 1848 al 1870.

La vecchia Italia era uno degli ultimi avanzi, e dei meglio conservati, della vecchia Europa aristocratica e teocratica, nemica di quel complesso di cose materiali e morali, che noi chiamiamo la civiltà moderna. I diversi governi ricostituiti in Italia dopo la caduta di Napoleone si affaticarono intorno a una impresa di conservazione, empia e stolta secondo le idee nostre, ma alla quale non mancò una certa avvedutezza e coerenza, derivatale dall'aver quei governi capito quale sia il primo principio dell'arte di conservare gli Stati; che cioè le istituzioni non durano a lungo, se le idee degli uomini non restano eguali; e che gli uomini mutano tanto più facilmente di idee, quanto più sono mutevoli le condizioni della loro esistenza. L'instabilità [45] delle idee e delle istituzioni, e l'instabilità dei destini individuali e delle fortune si accompagnano sempre, come gli effetti alle cause; sono ambedue i segni esteriori della interna elaborazione vitale delle società che si rinnovano; onde la vera politica conservatrice deve cercare di distruggere questa plasticità vitale della società, quasi direi pietrificandola in tutti i suoi organi. L'opera a cui attesero principalmente i governi italiani dal 1830 al 1848 fu quasi di pietrificare tutti gli organi della società italiana, per modo che questa non fosse più un animale vivente, capace di malattie e di guarigioni, di crescite e di invecchiamenti; fu di mummificarla per sempre in una forma morta, tenendola lungamente immobile entro un bagno di ignoranza, di bigottismo, di pregiudizi e anche di virtù modeste e di ragionevoli saviezze.

Le virtù modeste, le ragionevoli saviezze che dovevano essere tra i primi elementi di conservazione della vecchia Italia, furono la semplicità e parsimonia del vivere, universale in Italia sino al 1848; in una società nella quale i bisogni erano meno numerosi e le spese di apparenza minori che nella nuova. Le città, salvo qualche monumento di lusso pubblico, qualche teatro, qualche chiesa, qualche palazzo gentilizio, erano costruite dimessamente; [46] strette le vie; pochi e miseri i giardini; trascurata la pulizia e ogni altra cosa nelle strade; scarsa la luce di notte. Gli uomini erano contenti di vivere in case più piccole, più buie, nelle quali parevano lussi molte cose che ormai sono diventate bisogni volgari. Tutto era solido e durevole: le mura delle case, granitiche e secolari; la mobilia robustissima, costosa ma capace di servire a molte generazioni; i vestiti, tagliati in stoffe solidissime, che passavano di padre in figlio e facevano parte dell'asse ereditario. La spesa per il mantello ricorreva una o due volte nel corso di una esistenza; nè era ancor noto il moderno divenire continuo della moda. Il commercio non conosceva ancora quelle teatralità goffe, quelle grandiosità posticcie, quella prodigalità burlesca di ori e marmi falsi, quel barocco da poco prezzo che hanno ridotte le vie delle nostre città grandi a orribili imposture della bellezza, grandezza e ricchezza. I caffè e le botteghe erano in stanze piccole e basse, come se ne vedono ancora a Venezia e a Mosca, i caffè soprattutto non arieggiavano a falsi fôri romani, ad Alambre di cartapesta.

Anche i bisogni erano molto meno numerosi. Pochissimi i giornali; pochi i libri e letti solo da un piccol numero; rari i viaggi. Nè ferrovie nè tranvai. [47] I signori avevano le ville per l'estate nei pressi della città stessa dove abitavano. Le alpi non erano state ancora inventate; pochi i luoghi di bagnature celebri, poche le acque e famose per una reputazione di secoli. Non esistevano ancora le macchine da cucire, le biciclette, il gaz illuminante, il petrolio; non si conoscevano ancora gli innumerevoli prodotti chimici, quei surrogati e quelle falsificazioni, che hanno poi tanto complicata e popolata di insidie la nostra esistenza. Un uomo si faceva fare il ritratto, forse una sola volta durante tutta la sua vita. Il vivere insomma era più semplice e rozzo, ma anche più schietto; i divertimenti erano pochi di numero, lo sport ancora in fasce; le abitudini dei figli ripetevano quelle dei padri, che a lor volta avevano ereditate quelle dei nonni. Una generazione passava, prima che un nuovo bisogno si fissasse nelle abitudini di tutti; lo spirito della tradizione reggeva la famiglia e la vita privata, come il governo dello Stato.

Non crediate che, riferendosi a cose così umili, queste considerazioni siano futili. Esse hanno invece una importanza capitale: perchè la differenza essenziale tra la vecchia Europa e la nuova, tra la vecchia e la nuova Italia, il mutamento essenziale da cui derivarono gli altri fu proprio questo: che [48] nella vecchia Europa ed in Italia vigeva un tenor di vita semplice, con bisogni sempre eguali o lentamente crescenti; nella nuova, un tenor di vita con bisogni crescenti indefinitamente e rapidamente. Un governo unitario ha potuto alla fine costituirsi in Italia, perchè trovò un sostegno in questa nuova maniera di vivere, divenuta comune nel popolo dopo il 1860; mentre gli antichi governi avevano capito che non avrebbero potuto reggersi a lungo, se le antiche forme del vivere, semplici e parsimoniose, sparivano; e avevano in vari modi cercato di salvare i loro popoli dalla seduzione della nuova civiltà, che prosperava in Inghilterra e in Francia.

Molti furono i mezzi; primo tra tutti, la oppressione della classe che sola poteva farsi veicolo della nuova civiltà forestiera, la borghesia istruita; oppressione esercitata per mezzo di una curiosa alleanza della aristocrazia e del popolino. I re si fecero i tutori della canaglia; l'aristocrazia, che rappresentava la ricchezza fondata sulla proprietà della terra, la devozione alla Chiesa e alla monarchia assoluta, l'orgoglio gentilizio che vuol sovrastare alle capacità personali, prese a proteggere l'infimo popolino, a mantenerlo grasso e ignorante. Madre per la plebe, la monarchia aristocratica era invece matrigna per il ceto medio; che essa cercava di [49] umiliare in ogni modo, impedendogli di crescere, di imparare, di arricchire; consentendogli appena di vivacchiare oscuramente, con l'elemosina di magri impiegucci o con l'esercizio di professioni, ma a condizione di andare a messa e di esser fedele al re: permettendogli al più di darsi a studi punto malsani e pericolosi, come decifrare iscrizioni latine o annotare vecchi testi di lingua. A elaborare questo disegno bizzarro di una società aristocratica e plebea, fanaticamente conservatrice in ogni cosa, più che ad altro, hanno faticato, nei diciotto anni che precedettero il 1848, gli Stati italiani, dall'Austria a quel Ferdinando II, tipo curioso di re ingegnoso e ignorante, abile e ingenuo, che ha impersonato forse meglio di ogni altro sovrano questa idea dello stato monarchico lazzaronesco.

Quei 18 anni furono infatti il momento della suprema fatica, per i governi della vecchia Italia. Correvano i tempi in cui cominciavano a fiorire in Inghilterra e in Francia i nuovi commerci e la nuova industria meccanica, che hanno contribuito tanto a convertire l'antico tenor di vita modesto e tradizionale, nel nuovo, sibaritico e con bisogni sempre più numerosi; che hanno mutato l'antico assetto delle fortune, rese labili tutte le ricchezze, ridotta l'essenza della società moderna a un divenire continuo. [50] Per queste ragioni gli antichi governi, soprattutto l'impero d'Austria e il regno delle Due Sicilie, si adoperarono a strozzare in culla le nuove industrie e i nuovi commerci. Non era lecito aprire un opificio senza permesso speciale del governo; ma le formalità erano tante, tante le condizioni, le restrizioni, i rinvii, le diffidenze e le cautele delle amministrazioni, che introdurre una industria nuova era quasi così difficile come costituire una società segreta. Inoltre, come sempre succede, la legislazione improntava di sè il sentimento pubblico, il quale era portato a riguardare con diffidenza ogni impresa industriale. Così in Lombardia si notano, sino al 1848, solamente progressi agricoli, nella coltivazione del gelso, ad esempio; ma nessun progresso industriale. Ancor più ostinata fu la resistenza del governo borbonico, che durò sino all'ultimo; onde le concessioni industriali di quegli anni si possono contare tanto sono poche; e qualche volta sono motivate con ragioni bizzarre, che mostrano l'intima natura di quel governo; come quel permesso dato al marchese Patrizi, nel 1858, di costruire due molini sul Sebeto, ma a condizione [51] di far dire un certo numero di messe in suffragio delle anime dei terrazzani. E la concessione era data, dice espressamente il decreto, «avuto riguardo ai vantaggi spirituali degli abitanti di quella pianura».

Dallo stesso ordine di idee nasceva la politica doganale della vecchia Italia, anche essa uno dei tanti processi di pietrificazione applicati alla società italiana. A differenza dell'Italia contemporanea, gli Stati italiani di prima del 1848 fecero libera la importazione del grano; o la tassarono di diritti minimi, imposti per fini fiscali, non per favorire come si fece dopo un «ordine privilegiato dalla fame pubblica.» Così la Toscana, che nel 1842 aveva stabilito un leggero dazio sul grano, sopravvenuta la carestia nel 1846 lo abolì senza tanto cavillare e tergiversare, come fece, cinquant'anni dopo, un altro governo; perchè il popolino doveva vivere ben pasciuto; le derrate dovevano vendersi a prezzi vilissimi; i pericoli delle carestie esser ridotti a meno che si potesse da saggie misure di previdenza pubblica. Il Duca di Modena accumulava nei granai pubblici, durante gli anni di abbondanza, per sovvenire [52] al popolo negli anni magri, e salvarlo dagli usurai e dalla fame. Pane in piazza, era il primo principio di quell'arte antica di Stato.

Ma al liberismo agrario corrispondeva un fiero protezionismo industriale, soprattutto negli Stati austriaci, nel regno delle Due Sicilie e nello Stato pontificio. Nel 1846 un cardinale dichiarava in Roma allo Zobi che la libertà di commercio e il giansenismo erano due forme di errore sorelle; tanto è vero che il solo Stato che inclinasse un poco alla libertà di commercio, la Toscana, era quello che aveva dato motivo di maggior scandalo, con le inclinazioni di alcuni suoi prelati agii errori del giansenismo. La libertà di commercio era considerata come una teoria funesta allo Stato; ciò che ci spiega facilmente come mai l'Italia rivoluzionaria sia stata tenuta al fonte battesimale del libero scambio; fede dalla quale essa doveva fare così presto apostasia.

Sennonchè il protezionismo industriale della vecchia Italia era ben diverso dal protezionismo industriale dell'Italia contemporanea. Questo è la [53] conclusione di una politica nello stesso tempo oligarchica e rivoluzionaria, plutocratica e sovvertitrice; che aggrava la disuguaglianza delle fortune; che affretta la formazione di una oligarchia di milionari e di un proletariato industriale ammucchiato e turbolento al nord dell'Italia; che porta con sè l'aumento dei bisogni, la crescente costosità della vita, la universale avidità del denaro, l'idolatria delle apparenze, la dissoluzione morale delle classi medie, la miseria delle plebi rurali, la fermentazione di tutti gli spiriti di progresso e di rivoluzione, di tutte le audacie buone e cattive, l'instabilità sociale, la contradizione tra i desiderii e la realtà, lo sforzo violento della invidia che tenta colmare l'abisso tra gli uni e l'altra.... Il protezionismo della vecchia Italia era invece un procedimento di mummificazione della società; mirava a salvare l'antico artigianato dalla concorrenza delle grandi manifatture inglesi e francesi, l'antica semplicità del vivere dalle seduzioni alla nuova varietà e molteplicità dei consumi. L'industria era allora in Italia esercitata da un ceto di artigiani, lavoranti in casa o in piccoli laboratori; e il commercio dei manufatti era quasi un privilegio ereditario di poche famiglie di mercanti. Un ceto operaio ignorantissimo, che si serviva di un macchinario rozzo, che [54] applicava ostinatamente una tecnica tradizionale; nemico, per stupidità e misoneismo, di qualunque ragionevole novità industriale; quasi dovunque violento e facile al sangue, tale era la popolazione urbana nella vecchia Italia. Questi artigiani fabbricavano cose di qualità buona ma costosissime, perchè la rozzezza della tecnica era causa di un grande spreco di lavoro; in compenso però essi stessi erano un popolo di grandi fanciulli, violenti, imprevidenti, ignoranti, fanaticamente conservatori, pronti al coltello, che potevano facilmente esser governati da un regime di beneficenza e di terrore alternati. Difatti, proprio in mezzo a questo popolino, che odiava ogni cosa nuova, la vecchia Italia trovò quei settari che, specialmente negli Stati della Chiesa, pugnalavano i campioni delle idee liberali. I vecchi governi italiani erano dunque portati dalla forza stessa delle cose a proteggere questo ceto di pretoriani del vecchio regime; onde, quando la industria forestiera cominciò, tra il 1831 e il 1848, a voler portare in Italia, contro la solidità tradizionale e costosa dei lavori dell'artigianato, la brillante caducità a buon mercato delle cose sue, studiando di comunicare al pubblico quella volubilità di gusti divenuta ora universale, i governi corsero subito al riparo, inasprendo il protezionismo.

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Di questa politica che rendeva difficili le rivoluzioni industriali e commerciali, era ad un tempo conseguenza e parte integrante tutta l'opera sociale e morale di quei governi, intesa a mortificare una delle passioni, cresciuta poi a dismisura nella nuova Italia, come nella nuova Europa: la cupidigia dei subiti guadagni. Il self-made-man non era punto l'eroe di quella società, nella quale lo Smiles, il Plutarco dell'êra borghese, sarebbe stato giudicato autore di libri malsani, atti a corrompere l'immaginazione e il cuore dei giovani. La società della vecchia Italia era come una chiesa antica e venerabilissima, nella quale tutto è stato santificato dalla pietà dei fedeli; le lampade vecchie di secoli, le pietre del pavimento sconnesse e logorate da milioni di piedi, dove nulla si può toccare senza commettere sacrilegio; onde la virtù vera consisteva a quei tempi in rassegnarsi al grado di fortuna toccato in sorte nascendo, in saper rimpiccolire in ogni modo il proprio essere. Lo spirito di avventura, la ambizione di ingrandire sè e la propria fortuna, l'energia personale che vince gli impedimenti della nascita oscura; tutte queste che poi furono considerate come le prime virtù dell'uomo sembravano allora tentazioni del diavolo, perchè contenevano un principio di rivolta contro l'ordine delle cose vigente.

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Così si capisce perchè la vecchia Italia si sia mostrata tanto diffidente contro le nuove banche che si fondavano in Inghilterra e in Francia; e si sia contentata di conservare gli storici banchi del medio evo, istituzioni mirabili e prettamente italiane, ma che potevano soltanto bastare alla conservazione di traffici tradizionali, non al crescere di un nuovo commercio. È curioso a questo proposito che il trapasso alle istituzioni bancarie moderne sia segnato in Italia dal cambiamento di sesso della parola che le indica, che da banco, come era nel vecchio italiano, diventa banca, alla francese. Basti dire che non ci fu mai modo di persuadere Ferdinando II a fondare una sola succursale del Banco di Napoli fuori di Napoli, salvo due casse istituite nel 1843 a Messina e a Palermo, neanche quando il Banco aveva nel suo tesoro più di 120 milioni. Così successe che tra il 1830 e il 1848 l'Italia godè di una inutile abbondanza di capitale, che giaceva ozioso, nascosto in fondo alle calzette, sotto i materassi e sepolto nei forzieri. La popolazione era più scarsa; la terra rendeva discretamente; i governi sprecavano poco; il vivere era meno caro perchè più povero di bisogni: l'Italia poteva così risparmiare: ma gli impieghi industriali [57] e finanziari essendo pochi, il capitale ristagnava. Erano intatti gli anni in cui a Torino si dovevano puntellare le vòlte della tesoreria, perchè i sacchi di marenghi non le sfondassero; i tempi in cui in Lombardia i proprietari di terre mutuavano facilmente al 4% senza ipoteca, onde prima del 1848 si poterono dissodare molte terre e diffonder per la Lombardia la coltura del gelso e l'allevamento dei bozzoli; erano i tempi in cui, intorno al 1840, Leopoldo II si risolveva a intraprendere la bonifica della maremma, specialmente in considerazione di una grossa somma di denaro che dormiva nelle casse del tesoro, e che parve giusto di impiegare in qualche modo.

Insomma nessuno aveva ancora gridato all'Italia la frase del Guizot, la parola della nuova alla vecchia Europa: Enrichissez-vous. Gli incantesimi spesso pericolosi con cui la borghesia degli affari è riescita a svegliare dal lungo sonno e a far prorompere di sottoterra le fontane della ricchezza, erano ancora ignoti o detestati. I grossi mercanti di prima del 1848, la prosperità delle cui case era spesso opera [58] di molte generazioni, consideravano le cambiali un poco come i ponti che il diavolo delle leggende costruisce sopra gli abissi; che da lontano paiono solidi, ma quando il peccatore orgoglioso ci monta sopra, il ponte sparisce in niente e il peccatore precipita. Firmare una cambiale era per essi quasi un disonore. Eguale prudenza, e, diciamolo pure, prudenza onesta ben maggiore di quella che la nuova Italia ha mostrato, usavano i governi di allora nel trattar la moneta pubblica; in modo che essa non fu mai falsificata e adulterata da nessuno di quei disonesti artificii, che divennero dopo così comuni. La vecchia Italia usò sempre moneta d'argento e d'oro; e nel regno delle Due Sicilie le fedi di credito del Banco di Napoli, come allora si chiamavano i biglietti, valevano più dell'oro, come succede ora ai biglietti della banca imperiale germanica, ma come non è mai successo ai biglietti di banca della nuova Italia.

Questo differente stato morale della vecchia Italia si manifesta mirabilmente nella corruzione amministrativa di allora, così diversa da quella presente. Gli alti funzionari di allora erano quasi tutti nobili e ricchi, che amministravano per onore e che per [59] un senso di probità e fierezza gentilizio non rubavano, ma lasciavano invece per buon cuore rubacchiare i piccini, che non potevano fare gran danno e che così si ingegnavano a viver meglio; mentre nella amministrazione borghese successa dopo, più colta ma formata da una classe in cui erano stimolate tutte le ambizioni e tutte le cupidigie, i piccoli doverono rispettare i centesimini, ma i grandi rubarono i milioni.... In questo consiste tutta la filosofia della storia del Banco di Napoli. Sotto il governo borbonico i piccoli impiegatucci del Banco si ingegnavano per spillar qualche quattrino dai clienti rendendo quei piccoli servigi che un impiegato può rendere ai clienti di una grande amministrazione; spesso anche trascuravano il loro ufficio per altri lavori. Ma l'amministrazione del patrimonio, affidata a grandi personaggi, era così rigorosa, le regole per gli sconti così severe, e così osservate, che dal 1818 al 1861 sopra una media annua di 69 milioni di sconti e prestiti su pegno, le perdite furono in media di 65,000 lire l'anno. Dopo il 1860 gli uscieri e gli scribi poterono ingegnarsi meno; ma si ingegnarono troppo intorno al Banco altri amministratori, ben più avidi e malefici.

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È facile capire come questa corruzione spicciola contribuisse a conservare lo Stato, perchè giovava agli umili e non metteva a repentaglio la prosperità pubblica. Cotesta era una corruzione conservatrice; mentre quella che successe poi fu una corruzione rivoluzionaria, che generando la miseria di molti, mettendo in mezzo alla società lo scandalo di poche grandi fortune fatte col furto, dissestò la fortuna pubblica e turbò il senso morale del popolo e fu uno stimolo a desiderare forme più perfette di Stato.

Se dunque anche la corruzione amministrativa contribuiva alla politica della stabilità eterna, che fu propria della vecchia Italia, la politica intellettuale le portò il compimento. Che la vecchia Italia fosse poco amica della istruzione popolare è notissimo, e lunghe dimostrazioni sarebbero inutili, se anche nella Toscana, che pure tra il 1830 e il 1848 fu il più civile degli Stati italiani, si trovavano dei borghi di 10,000 abitanti senza scuole. Sennonchè questa politica intellettuale, fatta di semplice astensione, era possibile rispetto al popolino, che poteva restare illetterato e ignorantissimo; ma non rispetto alla classe media e all'aristocrazia, [61] che qualche cosa dovevano pure studiare, per la necessità stessa della loro funzione sociale. Che cosa poteva dunque esser dato a studiare a costoro, tra il 1830 e il 1848, senza che gli studi fossero veicolo di idee empie, stimolo di ambizioni malsane? I vecchi governi avevano stabilito censure più o meno rigorose; ma tutti sanno che il contrabbando delle idee è il più facile di tutti. Perciò quei governi apprestarono un'altra difesa, più potente: l'istruzione classica, con carattere specialmente letterario. Nelle scuole frequentate dalla classe media e dalla aristocrazia (collegi, il maggior numero, e sempre con ecclesiastici per insegnanti) si insegnavano soprattutto il latino e l'italiano: si insegnavano bene, ma non si insegnava altra cosa. I nostri nonni imparavano davvero a leggere il latino e a scrivere l'italiano, l'italiano pretto dei classici, la pura lingua letteraria, la cui tradizione era conservata con molto zelo nelle scuole dei vecchi governi, anche di quelli stranieri, come l'austriaco. Fedeli in tutto alla tradizione, i vecchi governi erano in filologia puristi: cosicchè sino al 1848 tutte le scritture degli uomini colti furono scritte in pretto italiano, dalla requisitoria del poliziotto austriaco che voleva mandare sul patibolo il Confalonieri, ai libri dei medici, [62] degli scienziati, degli eruditi. La rivoluzione nazionale imbarbarì poi la lingua in quel gergo bastardo in cui oggi si scrive ogni cosa: le leggi, i giornali, il maggior numero dei libri, e dal quale bisognerà trar fuori una nuova lingua letteraria, nostra e bella, viva e limpida, che non sia nè la lingua arcaica ora in uso in una certa letteratura, nè il miscuglio fangoso in cui si appesantisce il pensiero del maggior numero degli altri scrittori. Era quella dunque una coltura tutta letteraria, che insegnava a curare una forma la quale doveva restare vuota di ogni contenuto di idee vive e di cui il maggior numero degli uomini colti del tempo si accontentava; perchè gli uomini si appassionavano per le questioni sostanziali nei tempi di rapidi e molteplici mutamenti sociali, per le questioni formali nei tempi di universale osservanza delle tradizioni. D'altra parte l'educazione puramente letteraria, il culto della forma, il classicismo, cioè l'ammirazione delle opere antiche professata secondo certi canoni fissi, convengono interamente a una società che vive di tradizioni, perchè sono una scuola eccellente dello spirito di conservazione. Gli uomini hanno immaginato mille prigioni per serrarci dentro la infinita energia espansiva e sovvertitrice del pensiero umano; le carceri, la povertà, l'infamia, la [63] morte; sempre invano però! perchè una sola è la prigione capace di contenere il pensiero: il carcere di formole irrigidite, la gabbia di parole che hanno perduto il loro significato, il sepolcro di antiche scritture ormai vuote di senso. Dal momento in cui le classi colte di un paese si danno a curare la propria lingua come una lingua morta e a lavarne continuamente il cadavere; quando esse prendono a considerare certi capolavori della loro arte antica come i tipi perfetti soli ed eterni della bellezza, che si devono ricopiare indefinitamente, senza tentar cose nuove che sono di per sè inferiori alle antiche, il loro spirito si chiude alle novità sostanziali, ripugna ai rivolgimenti ideali che precedono o almeno accompagnano i rivolgimenti sociali. Il Settembrini si meravigliava che il governo borbonico lasciasse il Puoti, il celebre purista di Napoli, insegnare a 300 giovani l'amore dei trecentisti, dimostrando ancora una volta la nobile ingenuità del suo animo e la abilità del governo borbonico; il quale sapeva che quei limatori di aggettivi, quei futuri puristi che sarebbero caduti in convulsioni a udire un francesismo, sarebbero stati quasi tutti buonissimi conservatori, salvo pochi così perversi che sarebbero usciti liberali anche dalla educazione del più fanatico prete. In un certo senso, i più formidabili baluardi [64] della vecchia Italia contro l'avvenire erano allora l'Accademia della Crusca e la Rettorica di Aristotele; perchè gli studi letterari servirono fino al 1848 a cristallizzare le idee degli Italiani, come lo studio del Corano serve a cristallizzare quelle dei Turchi. Negli studi della letteratura classica si preparava il personale delle amministrazioni italiane di quei tempi, come adesso con lo studio del Corano si prepara la burocrazia turca; e così quel personale riesciva facilmente pieno di un fanatico spirito conservatore, che metteva in armonia l'amministrazione con il governo.

Infine la vecchia Italia trovava le ultime seduzioni alla neghittosità sociale, nella universale pigrizia e gaiezza. La vecchia Italia era poco laboriosa e allegra; sapeva asciugar presto le lagrime e non conosceva quegli esaurimenti ereditari che hanno tanto incupito, dopo, il carattere italiano. I proprietari abbandonavano le terre ai fattori e ai coloni, non passavano in campagna che qualche mese di autunno, ma non per sorvegliare i contadini in un lavoro di cui essi del resto non sapevano nulla, ma per convitare gli amici e divertirsi; poi tornavano, alle prime nebbie invernali, in città, a oziare tra il caffè, la piazza, il salotto e il teatro. Un principio di rivolta contro questa neghittosità si [65] nota qua e là tra il 1830 e il 1848; ma sono voci solitarie che ammoniscono un popolo di sordi. Nel 1845 si istituisce a Ravenna una società di agricoltura, di cui fu presidente il conte Pasolini; tra il 1840 e il 1848 si discusse molto in Toscana nella Accademia dei Georgofili, e il Salvagnoli rimproverò aspramente ai «possidenti di ogni classe» la loro «vita oziosa e improduttiva»; anzi il marchese Cosimo Ridolfi volle dare un esempio, ritirandosi sulle sue terre a istruire i contadini. Proposito ed esempi singoli, che non trovavano imitatori, mentre la classe media - professionisti e impiegati - imitava l'ozio dei grandi, lavorando dolcemente, attendendo soprattutto al teatro, al giuoco del pallone o del biliardo. Il popolino degli artigiani applicava per conto suo un regime igienico di lavoro, senza intervento di ispettori governativi e di leggi sociali, ribellandosi a ogni disciplina rigorosa di lavoro, prolungando al lunedì le baldorie della domenica, osservando tutte le feste sacre e profane.... Innumerevoli erano del resto le feste di rito, quelle in cui i lavoranti riposavano, i mercanti chiudevano bottega, gli impiegati e gli [66] scolari restavano a casa: tutti i momenti interveniva dal cielo qualche santo o santa a concedere per un giorno amnistia da quella pena del lavoro, a cui Dio condannò l'uomo nel paradiso terrestre. Forse solo la Turchia può oggi esser paragonata alla vecchia Italia, come società in cui le feste si seguano fitte, e in cui la vacanza sia una delle istituzioni cardinali dello Stato. L'ozio infine era tanto considerato come la condizione regolare della vita, che la vecchia Italia tollerava con indifferenza torme immense di mendicanti. L'elemosina era, nella vecchia Italia, una istituzione sociale organizzata da usi e leggi nelle case dei ricchi, nei conventi e nel governo, in grazia della quale prosperava un numerosissimo ceto di mendicanti. Nelle grandi città, nelle medie, nelle piccole, nelle grosse borgate di campagna vivevano torme di proletari oziosi, senza terra, senza arte, senza volontà di lavorare; vagabondi un poco per necessità, un poco per elezione; che si facevano nutrire e vestire dai ricchi, dai conventi e dal governo; che si aiutavano con furtarelli e professioni immonde, quali il lenocinio e la prostituzione: torme superstiziose e violente che i governi accarezzavano e fustigavano, [67] che a più riprese aizzarono sui novatori: vero semenzaio di criminali, che provvedeva il miglior personale alle bande di briganti, numerosissime e audacissime nelle campagne di quasi tutta Italia; e alle associazioni di malfattori, a volte, come la camorra, potentissime nelle città. Questa miseria oziosa, palude di abiezione che la nuova Italia, riescì in parte a prosciugare, non pareva ai vecchi governi dovesse esser curata, cercando di indurre quei vagabondi al lavoro; essi si credevano invece tenuti a sovvenir loro con le elemosine, a incoraggiarne cioè le inclinazioni all'ozio.

Tempi bizzarri! Perfino le ferrovie, che proprio in quei tempi cominciarono a comparire in Italia, non furono, prima del 1848 e specialmente nel regno delle Due Sicilie, che un pretesto di elemosine al popolino. Pochi fatti possono far meglio capire la natura di quei vecchi governi e mostrare come da un paese all'altro si possa falsare il carattere di una istituzione, che l'amministrazione delle ferrovie borboniche prima del 1848, e il modo con cui esse furon ridotte a esser quasi una succursale dei conventi e un pretesto per distribuire zuppe al popolo. La prima linea di ferrovie, la Napoli-Torre Annunziata risale al 1840: da questo anno al 1848 si costruirono in Italia solo 223 chilometri [68] di ferrovie, di cui 113 nel regno delle Due Sicilie, 45 in Lombardia e 65 in Toscana. La vecchia Italia diffidava delle ferrovie; Ferdinando II le considerava come funeste al popolino, cui avrebbero rincarato il vivere, promuovendo l'esportazione dei generi agrari; il governo pontificio resistè lungamente a ogni proposta di costruzione. I pochi chilometri costruiti nel regno delle Due Sicilie, erano come un giuocattolo per divertire il popolino: consistevano di poche linee nei dintorni di Napoli, di cui una, quella da Napoli a Caserta, congiungeva le due reggie e serviva soprattutto alla corte; le altre erano usate dal popolino specialmente per scampagnate domenicali. In conseguenza, l'amministrazione si era data cura di togliere dal divertimento le occasioni di scandalo: tutte le stazioni erano provviste di una cappella; per espressa volontà di Ferdinando II non si ammettevano tunnels, i pertusi, come egli diceva, perchè immorali; nelle terze classi i viaggiatori in giacca e coppola, quelli cioè che avevano il cappello e la giacca, godevano di un ribasso negato agli scamiciati, allo scopo di far viaggiare il popolino vestito decentemente. La stazione era una specie di fôro, dove il re, al partire o arrivando, dava udienza al popolo. Gli impiegati delle ferrovie erano tenuti in conto [69] di sudditi fedelissimi; formavano una aristocrazia tra la plebe napoletana, distinta con un segno di favore speciale dalla Corte e dal Governo. Non i bisogni del servizio o la capacità, ma la protezione di persone potenti faceva ammettere tra quel personale; mancavano i ruoli dei funzionari; accanto agli ordinari si ammettevano indefinitamente i soprannumeri, accanto a questi gli aspiranti al soprannumerato. Il re li considerava come i suoi protetti e beniamini, ai cui capricci più fanciulleschi qualche volta, nei momenti di buonumore, amava piegarsi. Una volta i capisquadra della officina dei veicoli gli chiesero che concedesse a ogni squadra di costruire a piacere un vagone, perchè si impegnasse una gara di immaginazione e di abilità tra le varie squadre; avendo il re accolta la domanda e dato il denaro, questi operai si baloccarono per diversi anni a fabbricare vagoni di forme strane, di cui uno era ancor in uso dopo il 1860, tutto noce e ferri cesellati, con i propulsori che uscivano da gole di leoni. Così uno dei trovati più rivoluzionari del secolo diveniva per quei governi un balocco buono per trastullare il popolo.

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Ecco adunque chiaro che la opera vera della rivoluzione italiana fu di convertire una società dove tutto era tradizionale, in una società dove tutto fu instabile e mutevolissimo. È stato perciò un grande errore credere che la rivoluzione cominciata nel 1848 e finita nel 1870 sia stata solamente una rivoluzione nazionale; mentre il suo vero merito, quanto essa conteneva di pericoli e di possibilità future di grandezza, fu piuttosto nell'essere stata una rivoluzione antinazionale, che snazionalizzò il carattere della società nostra da quello che era stato negli ultimi due secoli. La rivoluzione fu nazionale in parte, in quanto si adoperò a rovesciare la signoria austriaca; ma in quanto si adoperò contro gli altri governi essa fu rivoluzione antinazionale. I governi della vecchia Italia erano per certe parti assai cattivi, ma non si può negare che fossero prettamente italiani, che rappresentassero tradizioni sociali e una forma di governo tutta nostra, che cercassero di conservare incontaminate la lingua e la coltura italiana. Come abbiamo visto, faceva parte dei loro stessi disegni di conservazione sociale l'avversione contro le istituzioni, le idee e le invenzioni quasi [71] tutte straniere, che formano la civiltà moderna. La gloria appunto della rivoluzione italiana fu di aver rotto in guerra contro la tradizione locale, di aver parteggiato per istituzioni, idee e costumi forestieri; per le diverse filosofie razionaliste contro i rammodernamenti della scolastica tradizionali nelle scuole delle vecchia Italia; per il romanticismo contro il classicismo; per le ferrovie, la grande industria e la vita a larghi consumi, contro il modesto sempre eguale e ozioso vivere della vecchia Italia. La società della vecchia Italia, pur essendo prettamente italiana, si era mummificata, aveva ridotta la sua esistenza a una eterna e vuota ripetizione; come avrebbe potuto l'Italia rinascere e rivivere, se quella vecchia società non cadeva? Aver cominciato questa opera necessaria di distruzione è stata la gloria dei rivoluzionari del 1848. Lo so: questa rivoluzione fu compiuta in modo ben doloroso e con terribili sprechi e turbamenti di tutte le cose; ma è meglio si sia fatta così che se non si fosse fatta. I popoli hanno bisogno, di tempo in tempo, di questi rivolgimenti di istituzioni, costumi ed idee che rinnuovano il loro carattere. Come la merry England del secolo XVI è diventata la melanconica e puritana Inghilterra del XIX; come l'Italia del 500 non è più quella [72] del 300, così l'Italia del secolo XX non dovrà esser più quella della prima metà del nostro secolo.

La vecchia Italia, ignorante, allegra e pigra non è più; l'Italia vuol farsi più laboriosa, più colta, più seria; più consapevole dei fini supremi della vita. Purtroppo noi siamo ancora lontani dal profondo e soave riposo del rinnovamento compiuto; noi siamo esausti dal sostenere l'immensa fatica del rinnovamento in via di farsi dentro di noi. Chi riconoscerebbe più nell'Italia contemporanea l'Italia grassa e gaia e triviale, la pingue comare che sino al 1848 divertì con i suoi carnevali l'Europa? La pingue comare è diventata esile come una santa dedita a discipline estenuanti. La terribile fatica la ha consunta; le sue mani si sono fatte diafane; le sue guancie si sono infossate, i suoi occhi scintillan di febbre, il suo spirito esausto è tormentato di tempo in tempo da allucinazioni terribili; il suo corpo da piccole ma dolorose convulsioni periodiche. È la prova da cui essa potrà uscire a una condizione superiore di salute, se non si avvilirà sotto la sofferenza presente e se saprà espiare utilmente gli errori passati.

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