L'OMICIDA

Orme di sangue scorgo sulla ghiaia.

Seguo, in silenzio, la sinistra pèsta.

L'aria è pesante. Il ciel cova tempesta,

basso così che tocca la petraia.

 

Sotto l'immota ansia del ciel, le chiazze

conto, ancor calde, ancor dolenti, e spio.

Nessuno.—È tutto morto, forse.—Ed io

unica resto sulle spente razze.

 

Ma di pietrame dietro un grigio ammasso

terminan l'orme—e un uomo s'accovaccia.—

Uomo, chi sei?... Perchè celi la faccia?...

Ben fu il tuo sangue a far vermiglio il sasso?...

 

T'hanno ferito?... ov'è il tuo male?... Lascia

ch'io ti lavi la piaga, ch'io t'assista.

Guardami....—ah!... mai non vidi su più trista

faccia l'orror di più feroce ambascia.

 

Comprendo. Non è tuo quel sangue. L'hai

versato in altri. Oh, meglio assai se fosse

tuo!... Non farebbe di sè tanto rosse

la terra e l'aria, adesso, e ovunque andrai.

 

Ma non temere della mia presenza.

Io sono fuori della legge. Accanto

stanno, e si guardan, sole, ignude, in pianto,

la tua coscienza con la mia coscienza.

*

Uomo, io so come il germe d'un delitto

s'abbarbichi, per odio, in fondo al cuore.

Forse, un giorno, il corrusco odio fu amore:

fiamma più accesa, arma più aguzza. È scritto.

 

Uomo, io so come cresca e s'aggrovigli

nel mistero dell'anima il malvagio

istinto, e vi serpeggi a spire, adagio,

celando in ombra il tossico e gli artigli.

 

Io so l'indeprecabile, funesto

sogno che mostra l'avversario, intriso

di sangue, a terra.—Ognun, nel sogno, ha ucciso.—

Ma il braccio non potè compiere il gesto.

 

V'è tra pensiero ed atto un divïeto

supremo. Dimmi, o ignoto—se ti basti

la forza—come e quando tu varcasti

nella tua rabbia il limite secreto.

 

Dimmi il lampo e lo stridere e il gioire

fra costa e costa, del coltello. E il getto

purpureo, da quel petto sul tuo petto

allora e sempre, e il vano tuo fuggire:

 

e il subito cader dell'odio, a piombo

sul corpo offeso: e il dopo : stupefatto
vuoto silenzio, ove il terror dell'atto

compiuto fremo come un sordo rombo.

*

Ma tu non parli; e un tremito convulso

dalla radice dei capelli ai piedi

ti scrolla; e guardi tu, ma non mi vedi,

o dai fratelli, per tua mano, espulso.

 

Colpa e castigo impressi io vedo a un punto

sulla tua faccia disperata: e l'uno

l'altro divora, e poi rigetta: e niuno

scorger da essi ti potrà disgiunto.

 

E s'anco non ti fulmini del mondo

la vendetta, l'Ucciso è in te: qual sasso

nel ventre il porti, infin che al peso il passo

non ceda, e tu con lui non piombi al fondo.

 

Io, randagia indomabile, che il giogo

degli uomini gettai, che ne respinsi

la legge, e dell'orgoglio mio mi cinsi

come Brunilde del divino rogo,

 

io sol padrona a me, solo a me schiava,

non ti condanno, nè ti assolvo. Penso

che soffri. E accolgo il tuo soffrire immenso

in me, qual getto di bollente lava:

 

di me lo impronto, in me il trasmuto, al cuore

tuo lo ridono in pura insonne fiamma

converso. Or parti, col tuo chiuso dramma

assunto a luce—e ti conduca amore.—

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