La federazione nell'impero.

Per qualche tempo l'impero resistette, impedendo e sventando le rivolte coi benefizi della propria democrazia cesarea. Siccome gl'imperatori trattavano le provincie meglio che la capitale, tutti i moti intesi a resuscitarvi le vecchie nazionalità fallirono: ma, sottomessi quei primi ribelli e reso indiscutibile l'impero, i popoli insorsero contro l'unità cesarea reclamando la propria autonomia colle forze stesse della civiltà romana. L'antica lotta degli italioti contro Roma ricominciò su tutti i punti dell'impero: i sudditi si agitarono come cittadini malcontenti, subornarono le legioni accantonate nei loro territori, le spinsero alla ribellione, le avventarono su Roma. Galba, primo fra gli imperatori imposti da una provincia insorta, distruggendo l'unità plebea sulla quale si era invano appoggiato Nerone suo avversario, affettò di rialzare il senato e di ripristinare l'antica libertà violata dalla famiglia di Augusto. Era questo il sogno e la rivincita delle provincie ancora credenti nell'impero e nemiche di Roma. Ma l'usurpazione diventò a mano a mano il solo modo di elezione all'impero; i generali vi succedettero ai generali, non fu nemmeno più necessario essere romano: Nerva era di Creta, Traiano di Spagna, Antonino di Nimes. Non importava essere nemmeno generale; la virtù era inutile come il genio per conciliare l'unità dell'impero colla libertà delle provincie, inefficace ogni mostruosità di ferocia per atterrire le ribellioni. Così, mentre la civiltà dei romani si estendeva, il loro dominio scemava, Roma decadeva e i municipii s'alzavano. Il federalismo barbaro del regno di Commodo oltrepassò quello inaugurato da Galba; ogni provincia, ogni legione proclamò i propri cesari, che si distrussero a vicenda. L'impero fu un dramma, in ogni scena del quale moriva un imperatore. Dopo Galieno si contarono in quindici anni nove imperatori, dei quali otto uccisi, e le insurrezioni continuarono.

Quindi, mutata la scena, la politica imperiale non potendo più contare nè sulle Provincie, nè sull'equilibrio fittizio di Adriano o sulle virtù distributive degli Antonini, nè sul tesoro esausto delle naturalizzazioni, s'appoggiò unicamente sull'esercito. La vera capitale dell'impero era l'accampamento: il suo governo assomigliava già ad una invasione. Se Caracalla toglieva ogni differenza fra i sudditi dell'impero romano, Commodo aveva già aperto a tutti le proprie legioni, nelle quali i soldati combattenti come gladiatori dovevano mutarsi presto in conquistatori. E allora i barbari associati con essi sfondano improvvisamente tutti i confini; la guerra rugge incessante alle frontiere, nelle provincie, alla capitale, negli accampamenti; il mondo, più forte di Roma, impone a Diocleziano di spezzare l'impero in quattro immense provincie. Da questo momento il senato non discute più leggi in Roma abbandonata dalla politica e dai Cesari; altre città come Treviri, Antiochia o Milano stanno per superarla. La federazione, stanca della lunga guerra e appagata dalla enorme vittoria, concede una tregua all'impero, ma per romperla dopo pochi anni e trionfare di Massenzio con Costantino, che decapita Roma e crea Bisanzio.

L'unità e il governo di questo secondo impero, non essendo più che di palazzo, rispetta tutte le forme politiche conquistate dalla federazione contro Roma, a cominciare dall'ultima e più importante, la divisione di Diocleziano. Tutto cede al cristianesimo, cui Costantino dà la forza di una rivoluzione sociale; vi affluiscono tutti i diritti, vi si accatastano tutte le ricchezze. Poichè nella battaglia contro il paganesimo i cristiani si sono divisi in varie sette, Costantino tenta di riunirli coi concilii, perseguita eretici e pagani, identifica la fede in Dio colla fede in Cesare. Ma alla sua morte le divisioni e le suddivisioni proseguono; l'eroismo di Giuliano l'apostata nel tentativo di una doppia risurrezione del paganesimo e dell'impero fallisce; la libertà propagata dal cristianesimo frantuma con rinascenti ribellioni la stessa divisione delle quattro provincie; Roma colla proclamazione di Nipote si contrappone a Bisanzio, finchè scoppia come un incendio l'arianesimo, che scindendo l'unità cristiana raddoppia le energie separatiste della federazione. Intanto i barbari, assoldati dall'impero e naturalizzati dal battesimo, secondano inconsciamente o volontariamente la multipla rivoluzione federale; prima coloni, poi ribelli, quindi liberatori percorrono liberamente la gamma loro assegnata dalla storia. Seduzioni irresistibili li circondano; incaricati di difendere la porpora imperiale, ne tagliano lembi per rivenderli stupidamente o per cingersene la fronte con orgoglio selvaggio.

Con Arcadio ed Onorio si entra finalmente nella fase degli imperatori ancora più inetti che immobili. Si adottano le invasioni per dissimularne le vittorie, si vezzeggiano le ribellioni per placarne i furori e nascondere la decadenza; il palazzo imperiale non è più abitato che da statue e da paralitici. L'inondazione barbarica straripa da tutti gli argini: quindi l'impero arruola intere nazioni di barbari contro altri barbari, distribuisce regioni ai goti, ai vandali, agli eruli, ai turcilingi, agli alani, negoziando incessantemente coi re assoldati, opponendo i primi agli ultimi, sostenendosi col maneggio delle invasioni.

Ma l'anarchia prorompente da questa diplomazia imperiale, costringendo le provincie a pagare le imposte per essere poi saccheggiate, presto suggerisce loro di voltare contro l'impero l'immane federazione dei barbari e di trattare direttamente coi singoli re dell'invasione: così la Spagna si dà ai goti, l'Africa ai vandali, la Gallia ai franchi, l'Italia ad altre nazioni.

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