Fra tutti questi torbidi moti l'Italia domina però ancora, opponendo la rivoluzione del regno all'impero di Bisanzio. Prima che le orde discendano le Alpi e sorga la stessa Bisanzio, Milano guida già la sommossa federale contro Roma, e il suo S. Ambrogio ne soverchia i pontefici; S. Agostino, scolaro di questo, gitta un appello sublime di coraggio e di eloquenza a tutti i barbari perchè accorrano d'ogni parte a rovesciare l'antica capitale. Quindi i barbari arrivano tumultuando. Ravenna, fondata tra la doppia inimicizia di Roma e di Milano, diventa la nuova città del regno dopochè Stilicone ed Ezio vi hanno invano mescolato eroismi e tradimenti; Ricimero tratta gli ultimi cesari come schiavi, Gundebaldo suo nipote lo imita, tutta l'Italia applaude ed asseconda, meno Roma ancora unitaria che resiste. Ma Nipote, impostole da Bisanzio, viene scacciato da Oreste, già segretario di Attila, che vi nomina il proprio figlio Romolo Augusto prontamente spodestato da Odoacre generale degli eruli. Questi è il primo re della prima Italia. Frazionata in Provincie, abitata da vari popoli, disforme di civiltà e di clima, soggiogata dai romani, associata con loro nella conquista del mondo e smarritavisi prima di loro, essa non aveva mai avuto nè vita nè storia nazionale. Tutto vi era stato importato. La sua prima civiltà etrusca era già greca in gran parte: la sua seconda civiltà romana diventò troppo presto mondiale atrofizzando fatalmente i pochi germi, che avrebbero potuto in una lenta fusione di popoli e di costumi darle carattere originale ed italiano.
Odoacre, insorgendo contro l'impero, è costretto ad intitolarsi re d'Italia. Nell'organizzazione del suo regno appare subito il principio della rivoluzione italiana, che frangendo l'unità della conquista romana nel nome delle eterne insurrezioni federali intende conservare le idee sociali e civili di Roma. Quindi le leggi vinte dai plebei sui patrizi e la democrazia cesarea restano indelebili sul suolo italiano, mentre l'imperatore di Bisanzio alzandosi nella unità spirituale dell'impero non è più che un pontefice del diritto, e il papa di Roma come capo del cristianesimo comunica alla grande urbe abbandonata la propria inviolabilità. Ma Odoacre va più innanzi, e, ariano, protegge i pontefici romani contro Bisanzio, che vorrebbe imporre loro nuove eresie, e li costringe ad essere solidali col nuovo regno sostituente una nazionale unità a quella formale dell'impero. Così la federazione trionfa col nuovo istinto indipendente dei barbari, che ringiovanisce quello ormai esausto della vecchia libertà e supera l'altro delle insurrezioni militari sempre circoscritte nella formola imperiale; senonchè una reazione rovescia prontamente il nuovo regno. Bisanzio scarica i goti sugli eruli, avventando Teodorico su Odoacre; Teodorico vince, ma per tradire anche più vastamente Bisanzio, slargando e consolidando il sogno di Odoacre. Il nuovo re aduna intorno a se stesso tutti i superstiti elementi della civiltà, moltiplica i monumenti, conferma l'indipendenza di Roma, vuole essere indigeno, federato e romano, re e vicario, conquistatore e console, dominatore e protettore della nuova libertà. Ariano come Odoacre, ne imita la politica religiosa e decide la nomina di Simmaco al pontificato contro Lorenzo candidato di Bisanzio: protegge vescovi, plebi, arti, redimendo l'Italia dall'impero colla doppia formula della monarchia a Ravenna e della republica a Roma fra tale uno splendore di gloria, che tanti secoli dopo confonderà ancora la fantasia di Machiavelli coi bagliori ingannevoli di una visione. Se il mondo antico aveva progredito coll'unità, il nuovo progresso derivato dal suo esaurimento deve invece attuarsi colla federazione, per determinare le individualità delle razze e degli stati, delle provincie e delle città, delle famiglie e degli individui entro le due idee universali della chiesa e dell'impero. Laonde dalla conquista irresistibile della republica attraverso le naturalizzazioni dei primi cesari, l'equilibrio di Galba, la democrazia militare di Commodo, le divisioni pacificatrici di Diocleziano, la democrazia cristiana di Costantino, le naturalizzazioni barbariche di Onorio, sorgeranno finalmente i regni indipendenti e federati dei barbari. L'embrione della storia moderna è già trovato; le leggi del suo primo momento saranno quelle di tutto il suo sviluppo.
Ma l'Italia non può come la Spagna appartenere ai goti fondendosi nella loro unità nazionale; Roma republicana e cristiana lo vieta. Quindi, emancipatasi da Bisanzio nella fondazione del regno, incomincia la propria guerra contro Ravenna rappresentante la nuova unità monarchica colla nobiltà ariana. Le differenze politiche e religiose fra le due città sono inconciliabili: il progresso sociale di Roma riassunto nel diritto romano e nel cristianesimo esige il sacrifizio di Ravenna, che contiene l'unico germe di progresso politico. La guerra scoppia, ma la vittoria è già prestabilita. Roma disarmata, alla testa di tutte le forze federali, di tutte le tradizioni e di tutte le idee, aiutata dalla stessa Bisanzio, prevarrà a Ravenna sconfiggendo nei goti gli ultimi invincibili soldati dell'epoca, annullando successivamente il genio di Teodorico diventato crudele, la clemenza di Amalasunta, l'impostura di Teodato, il suicidio regio di Vitige, il tradimento patriottico di Ildebaldo, i supremi eroismi di Totila e di Teia. Mentre i goti migrano dall'Italia per perdersi nelle paurose foreste germaniche, S. Benedetto arriva con un altro esercito di monaci e alza a Montecassino la magnifica ed imprendibile rocca, nella quale ripareranno tutte le arti e le scienze dalla tempestosa notte medioevale. La milizia cristiana ingrossa ora per ora, e si espande, conquista, si fortifica; i vescovadi italiani salgono a 145: ogni vescovo è un capitano pel quale sacerdoti e credenti possono trasformarsi in soldati; ogni fondazione vescovile è al tempo stesso un baluardo e un accampamento contro l'arianesimo al quale scemano moltitudini e guerrieri, generali e pensatori.
L'istinto politico di Roma non ha fallito; l'impero di Giustiniano e del suo successore è ancora una negazione della barbarie regia e una protezione delle vecchie libertà republicane. A Venezia, rispettata e protetta da Narsete, si costituiscono parlamenti cantonali; ogni isola ha un tribuno e un'assemblea: Eraclea è il centro delle deliberazioni generali. Napoli ha un'eguale libertà, Roma conserva il proprio senato, che può opporsi ancora al generale bizantino proseguendo la lotta fra il regno e la libertà, entrambi necessari alla vita italiana e non pertanto inconciliabili nelle proprie essenziali conseguenze. Quindi denunzia Narsete a Bisanzio; ma questi, ammaestrato dal dramma di Belisario, piuttosto che credere secondo una leggenda agli ordini insultanti dell'imperatrice Sofia, chiama i longobardi, che discendono le Alpi per rinnovare in Italia il regno dei goti. La loro conquista si compie però con metodo opposto; se i primi erano un esercito, essi sono un popolo e colonizzando dove si fermano, non mirano che all'Italia Cisalpina, ultimo campo del goto Ildebaldo, improvvisano un'infrangibile rete di fortezze intorno alle grandi città dei romani. Mentre i goti avevano rispettato le leggi e le magistrature romane, i longobardi invece sottomettono tutto e tutti alla propria legge militare. Il cittadino diventa servo della gleba, aldio, hospes; un decano regge ogni riunione di dodici uomini, uno sculdascio ogni riunione di dodici decani, un capo superiore ogni riunione di dodici sculdasci, e il re sovrasta a trentasei duchi sparsi nel regno. La faida, vendetta, è la gran legge dei longobardi, che simile all'ebrea discende al settimo grado di parentela e regola successioni e diritti di proprietà; qualunque uomo ha il proprio guidrigildo, meno i romani considerati come senza valore. Ogni longobardo è libero e soldato; ogni italiano è escluso dall'esercito, tributario e servo. I goti riconoscevano la supremazia formale di Bisanzio, i longobardi la ricusano. L'idea del regno, come negazione dell'impero, sale dunque con loro di un grado nella scala della libertà; ma i longobardi ariani essi pure s'accentrano a Pavia e vi si fortificano, come i goti a Ravenna, contro le due grandi città cristiane di Roma e di Milano. Però se questa è già vinta, quella invincibile infliggerà loro la sconfitta finale.
Intanto l'altra metà libera dell'Italia si volge contro il loro regno colla rivoluzione. Ravenna e Roma unite oppongono la più salda fortezza e il centro mondiale ancora più glorioso e ricco d'idee, mentre Bisanzio colpita a morte dalla negazione longobarda può tuttavia prestare gli eserciti di cui esse mancano; l'Italia meridionale, oltre Benevento estrema punta del dominio longobardo, è naturalmente federale; Venezia romita fra isole e paludi rimane al di fuori della lotta; tutte le città romane emancipate dalle prime battaglie fra Roma e Ravenna si stringono federalmente intorno ad esse con una somma di energie originali e incalcolabili, che la differenza di religione moltiplica esasperandole. La guerra fra cattolicismo ed arianesimo ricomincia più serrata e complessa, perchè il regno longobardo, superiore a quello dei goti, esige per essere vinto maggiori forze e diverse.
Il tempo longobardo si divide in tre periodi militari riuniti da una catastrofe: nel primo i longobardi conquistano mezza Italia, nel secondo il cattolicismo li conquista, nel terzo Roma li distrugge. La loro subita espansione supera quella dei goti, ma colta, si direbbe, istantaneamente dal contagio federale italiano, alla morte di Alboino subisce un interregno di dieci anni, nel quale i trentasei duchi regnano come tanti re. Poi nuove guerre costringono all'unità regia di Autari; vittorie si alternano a sconfitte, finchè l'eroismo di Pavia e l'abilità della sua politica trionfando con Agilulfo condensano il regno longobardo nella sola Lombardia. Nullameno l'Italia romana lo sorveglia implacabile. Mentre l'esarca di Ravenna non rappresenta che una specie di unità bizantina contro l'unità longobarda, la vera Italia dei Romani inerme è tutta nella rivoluzionaria federazione dei popoli, che odiando la barbarie del regno si serrano convulsivamente intorno alle vecchie libertà coll'ardore di una fede religiosa in lotta con un'altra.
In quest'epoca il vero capitano del popolo è già il vescovo, protettore delle moltitudini, elemosiniere dei poveri, semidio della città. La sua rivolta contro i duchi e gli esarchi per seguire il pontefice è l'origine e la forza persistente di questa guerra federale d'ispirazione e alimentata da alleanze, finchè S. Gregorio, nominato papa, non la rianimi con entusiasmo di apostolo, dirigendola con vera sapienza di statista. Di carattere bizzarro, amministratore esatto, caritatevole fino alla prodigalità, poeta e cerimoniere così da regolare le decorazioni del rito e il canto degli altari, egli è il politico più attivo del proprio secolo: e confedera tosto tutte le diocesi sfuggite ai longobardi, le dichiara suburbicarie da Tivoli a Siracusa, consiglia, dirige, sovrasta ai franchi, scatena l'impero contro Agilulfo. Quindi, reso più forte dalle contraddizioni, si rivolta con agile tradimento contro la stessa unità bastarda di Ravenna e di Bisanzio, cui si appoggia; nomina i generali, ravviva quotidianamente la rivoluzione indigena, centuplica i miracoli della religione col miracolo di una coscienza capace di credere alla propria fantasia; mentre, miracolo maggiore di tutti quelli narrati ne' suoi Dialoghi, l'Italia riunendo i risultati politici e sociali di questa lotta riesce a svolgere contemporaneamente in se stessa l'unità del regno e la libertà della federazione col grandeggiare simultaneo dei re di Pavia e dei pontefici di Roma.
Ma se il principio federale italiano raddoppia col proprio contagio la riottosità federale dell'aristocrazia longobarda sino a sollevarla contro i re, il cattolicismo più possente dell'arianesimo sulle terre italiane penetra nella corte di Pavia e la dissolve. Paolo Diacono, longobardo, storico dei longobardi, si perde nel mistero della loro conversione al cattolicismo, che oggi una critica più dotta ed acuta ha potuto scoprire. Teodolinda, bavarese cattolica, sposa di Autari e poscia di Agilulfo, appare la prima a conciliarli con donnesca abilità alla propria religione, voltandoli contemporaneamente contro l'indipendente feudalità dei duchi ariani. Nella nuova lotta dell'aristocrazia contro la monarchia, questa deve fatalmente ripiegarsi sul cattolicismo contro l'arianesimo, finchè Teodolinda vedova e sovrana, imponendo a Pavia la religione dei pontefici, permette a Roma di proseguire la vittoria colle stragi dei grandi tentate da Adeloaldo, colla divisione del regno concessa da Ariberto, coll'avvelenamento di Grimoaldo, ultimo eroe ariano, al quale succede indarno nella guerra contro i pontefici il cattolico Liutprando, marito di Guntrade, seconda Teodolinda.
Ma senza l'egida dell'arianesimo Pavia deve fatalmente soccombere a Roma. I pontefici sovrastano ai suoi re, dei quali governano la coscienza e le moltitudini, gli eserciti e le leggi. La federazione italiana sgretola ora per ora l'unità longobarda; ogni conversione è tradimento, ogni idea civile diventa deleteria in un regno, che non avendo tradizioni non può crearsi collo stato una patria, e, convertito a una religione nemica, aggiunge alle proprie contraddizioni di straniero tutte le insufficienze di un barbaro.
Le crisi imperiali di Bisanzio e le ponteficie di Roma possono sole ritardargli la caduta. Infatti Roma, alle prese coi greci, deve difendere se stessa da rinascenti eresie e da continui agguati, nei quali i pontefici fanno da selvaggina. La destrezza, la perfidia, la passione sono uguali da ambo i lati, ma la rivoluzione sostiene Roma e guadagna Ravenna, ribella questa al proprio esarca e all'imperatore. Quindi tutta l'Italia romana, fraternizzando colla insurrezione di Roma, pare trascinata istintivamente verso una indipendenza longobarda come ad un'ultima gloriosa conseguenza del cattolicismo in progresso, mentre invece il trionfo di Roma su Bisanzio riaccende fatalmente la guerra fra quella e Pavia.
Così nel periodo seguente un'ultima insurrezione esplosa contro Bisanzio su tutti i punti, a Roma, a Ravenna, a Napoli, in Sicilia, fra i veneti, colla formula dell'indipendenza nazionale, non basta alla rivoluzione federale, quando il regno longobardo ingrossa minacciando di schiacciare tutto e tutti. La lotta, complicata al punto di sembrare assurda nel processo e impossibile nel risultato, conclude nullameno al trionfo della rivoluzione. La contraddizione cattolica paralizza la politica longobarda. Il papa, benchè soccorso momentaneamente da Liutprando contro gli iconoclasti bizantini, diffida del re, lo denunzia, lo costringe a dichiararglisi nemico, fomenta contro di lui tutte le ribellioni, lo gitta in braccia all'imperatore, invoca Carlo Martello, guadagna nel proprio disastro un piccolo patrimonio, pel quale si trasforma in sovrano. I papi si succedono, ma la loro politica prosegue inflessibile. Ratchis vuole seguitare il combattimento di Liutprando, ma percosso da religioso terrore ripara in un convento; Astolfo, suo successore, si arresta in mezzo a vittorie insperate, colto dallo stesso spavento, sulla via di Roma; e allora Stefano II, sublime di ardimento, viene a minacciarlo sino nel suo castello di Pavia, passa le Alpi, consacra Pipino re dei franchi e patrizio di Roma, lo trae seco, gli fa sconfiggere due volte Astolfo e disfare il regno longobardo, mentre l'esarcato e la pentapoli cadono in mano del pontefice, cresciuto a doge politico come quelli di Napoli e di Venezia.
Allora Desiderio, ultimo re scelto al trono dalla chiesa come un vassallo, tenta col disperato eroismo di tutte le decadenze una suprema rivincita; ma la stessa scomunica lo isola, il medesimo appello ai franchi lo prostra, e Carlo Magno scende dalle Alpi per cominciare nella storia un'epoca nuova.