Intanto in Piemonte governo e paese fremevano d'opposti sentimenti. Le diplomazie europee, spaventate da tante rivoluzioni simultanee, premevano sul piccolo stato sconsigliandolo dall'entrare nell'incendio per non farlo maggiore: la corte, già inquieta per le novelle repubblicane di Francia, si atterriva all'impreveduta insurrezione lombarda, che poteva costituire sul confine orientale un'altra republica, mentre il popolo, abbandonandosi alla propria avversione pei tedeschi, urlava d'entusiasmo. Carlo Alberto, sempre più piemontese che italiano, più tiranno che re, più ingordo di conquista che disposto a servire l'Italia formandola in nazione, tentennava. Quindi le sue misure oblique di governo confondono, poi esasperano la folla: ordina d'arrestare quanti volontari tentino guadare il Ticino per soccorrere i fratelli lombardi, ricusa di ricevere il conte Arese ambasciatore di Milano, e deputa il conte Martini al governo provvisorio e al comitato di guerra per offrire loro l'aiuto regio a patto di una dedizione incondizionata. Ma il Cattaneo gli risponde con nobile alterezza. Poi alla notizia che l'insurrezione è vittoriosa, Radetzky in fuga e Venezia in armi, Carlo Alberto si decide vinto dalla paura di un'altra ribellione piemontese. Genova già tumultuava, volontari armati passavano malgrado ogni divieto il confine, la stampa alzava la voce, l'ora delle esitanze era fatalmente trascorsa. Il re, che diceva segretamente all'Europa di entrare in Lombardia per impedirvi una repubblica, mandò quindi il proprio proclama agl'insorti chiamandoli fratelli e dichiarando che l'Italia questa volta avrebbe fatto da sè. Era questa una risposta a coloro che invocavano l'aiuto di Francia e di Svizzera, una dichiarazione regia colla quale Carlo Alberto si affermava aprioristicamente sovrano dell'impresa.
Il 25 marzo il generale Bes piemontese passava il Ticino, dando alle proprie truppe il vessillo tricolore; il 31 Carlo Alberto s'accampava a Lodi con 22,000 fanti, 2200 cavalli e 5 batterie. L'esercito era scarso, male agguerrito, guidato da generali inetti. Il re, lasciando il Piemonte, aveva ordinato al popolo di mantenersi quieto; la guerra doveva essere regia anzichè nazionale perchè la rivoluzione non soverchiasse.
L'insurrezione lombarda vittoriosa su tutti i punti, mentre le truppe piemontesi s'inoltravano nel suo territorio, lambiva il Tirolo: Trento si era profferta a Mantova per aiuti, ma non aveva avuto risposta; battaglioni di volontari occupavano già le valli dell'Adda e dell'Oglio, l'insurrezione veneta aveva dato in mano ai montanari della Carnia e del Cadore i passi dall'Austria all'Italia. Nel primo entusiasmo della rivolta una sottoscrizione aperta in Milano aveva fruttato in soli due giorni quasi un milione: i ruoli dei volontari si allungavano, mentre i soldati italiani al servizio dell'Austria disertavano. A questa non rimanevano che 50,000 uomini rotti e sbigottiti nel Quadrilatero.
Il resto dell'Italia infervorato scriveva di aiuti, affrettandosi a mandarli. Giuseppe Garibaldi, già salpato da Montevideo per confortare questa guerra santa colla propria mirabile abitudine della vittoria, stava per discendere a Genova. Una squadra di operai, reclutata a Londra e a Parigi dal generale Antonini, vi era già stata arrestata dal governo piemontese sempre più diffidente che mai della rivoluzione.
A Milano la lotta fra il comitato della guerra scioltosi volontariamente e il governo provvisorio si accaniva sotto le apparenze di un accordo patriottico. Cattaneo si era ritirato dall'arringo; Mazzini, entrato in Milano fra immense ovazioni, aveva dichiarato la propria neutralità perchè la nazione a guerra vinta decidesse poi della propria forma di governo; ma l'antagonismo politico della rivoluzione popolare colla conquista regia non poteva placarsi per riserve di capi o per espedienti di costituzionalismo. I rivoluzionari spingevano con tutta possa all'armamento del popolo per assicurare la cacciata dell'Austria da tutta l'Italia e, cooperandovi gloriosamente, essere poi in grado di resistere all'assorbimento della monarchia piemontese: questa, già accordatasi col governo provvisorio, più aristocratico che italiano e più monarchico che patriotta, contrastava ad ogni iniziativa popolare, persuadendo che Milano aveva già fatto anche troppo e al resto basterebbero gli eserciti piemontesi. Naturalmente la sincerità era scarsa in tutti i partiti: i radicali, per quanto più fervidi nell'odio all'Austria, non potevano così dimenticare i vecchi tradimenti di Carlo Alberto da sacrificargli in questa ora suprema ogni speranza di libertà e d'indipendenza: i moderati, consci della viltà mostrata nelle cinque giornate e della propria costante servilità all'Austria, diffidavano di una rivoluzione, nella quale sentivano che il primo atto avrebbe dovuto essere la loro espulsione. Il popolo si veniva raffreddando in siffatta lentezza di guerra e in quel dubbio umiliante che gli toglieva di riconoscersi una patria e un governo. Carlo Alberto sempre teatrale aveva dichiarato che non entrerebbe a Milano se non vittorioso, e perdeva gl'inestimabili vantaggi di un primo assalto contro Mantova ancora sguernita. I volontari capitanati da Teodoro Lechi, republicani i più, venivano lasciati senz'armi, senza vestiario, senza denaro: si cercava di limitare il numero delle loro iscrizioni; poi sospinti nel Tirolo, ai passi delle Alpi, impediti di combattere, forzati ad abbandonare quei luoghi e le insurrezioni nascenti, finalmente richiamati, furono con malvagia umiliazione disciolti. Si ricusavano gli esuli divenuti illustri combattendo per la libertà d'altri popoli: Mickiewicz con pochi volontari polacchi era tenuto quasi prigioniero nell'ozio increscioso di una caserma per timore di spiacere allo czar, e non fu poi chiamato al campo che per impedirgli di accorrere a Venezia: Enrico Cialdini, che diventò poscia generale del Piemonte, ributtato dal Collegno, dovette andare a Venezia per battersi, e vi cadde ferito; Giuseppe Garibaldi, generosamente dimentico della condanna capitale ancora sospesa sul suo capo, fu indarno stancato dal ministro Sobrero con ogni più bassa maniera d'infingimenti: il Fanti e il Cucchiari respinti, il Cernuschi e l'Anelli imprigionati.
Carlo Alberto, più facile a sperare in maneggi diplomatici che nella sorte delle armi, si acquetava già nel disegno segreto di un'Italia del nord dimenticando il Tirolo, diffidando di Venezia risorta republica, seguitando a trattare con Vienna, ordinando alla propria marina di non commettere ostilità contro le navi da guerra austriache e di rispettare tutti i bastimenti naviganti sotto bandiera tedesca. Il lavoro della diplomazia piemontese, allora presieduta da Cesare Balbo, mirava a precipitare le annessioni lombardo-venete senza offendere troppo l'Austria, per ottenere, secondo i consigli del Gioberti, un accomodamento fortunato. A ciò occorreva impedire la lega italica, della quale il papa farneticava ancora, e non ammettere alla guerra troppe altre armi.
Mentre la Toscana, sollevatasi all'annunzio della rivoluzione di Vienna e della prima giornata di Milano, apprestava un piccolo corpo di volontari esaurendosi nelle solite dimostrazioni patriottiche, il granduca Leopoldo con vecchia arte di governo intendeva a profittare del loro chiasso per occupare i territori estensi di Fivizzano, Massa Carrara e Pontremoli. Ma, poichè il fermento cresceva, dovette bandire la guerra nazionale carteggiando segretamente col Radetzky. I provvedimenti monetari di guerra furono derisorii: non s'impose che una tassa straordinaria sui fondi corrispondente alla terza parte dell'ordinaria, e una ritenzione progressiva dell'uno al 5% sullo stipendio degl'impiegati, entrate non esigibili che nel corso di un'annata: allora si era di marzo. Per l'esercito non si ordinò che una leva di 2000 uomini sulla coscrizione del 1819, lasciando sprovvisti di ogni bisognevole i volontari.
A Roma gli echi delle insurrezioni trionfanti nel nome del pontefice gettavano il suo governo nella crisi di problemi insolubili. Dopo le riforme gli statuti, dopo gli statuti la guerra. L'inesorabile logica della storia affrettava la catastrofe. Invano Pio IX credeva di poter resistere alla scissura della propria duplice sovranità spirituale e politica, coprendo la responsabilità del principe coll'infallibilità del papa. La marea della publica opinione lo soverchiò, imponendogli di concedere al ministro della guerra Aldobrandini la formazione di un piccolo esercito, e tre giorni dopo (23 marzo) l'apertura dei ruoli per l'iscrizione dei volontari, affidando la loro organizzazione al generale Ferrari. La folla fu tale alle iscrizioni che si dovettero chiudere entro 24 ore per mancanza di armi. Gli armati invece non superarono i 2300, e Giacomo Durando, generale piemontese mandato da Carlo Alberto, ne assunse il comando supremo. Erano preparativi di guerra, mentre si chiedeva scusa all'Austria degli stemmi imperiali abbattuti e bruciati dal popolo, che aveva scritto sul portone dell'ambasciata tedesca: Palazzo della Dieta italiana. Papa e ministri egualmente incerti non avevano più che l'assurda idea di combinare diplomaticamente una dieta italiana, quando la guerra ferveva contro lo straniero e alla guerra si sarebbe dovuto aiutare con ogni sacrificio.
Ma le Provincie papaline tumultuavano. Bologna, sollevatasi per aiutare Modena a cacciare il duca, era rimasta in armi per la guerra lombarda, traendo coll'esempio tutte le Romagne. La guerra era nelle fantasie, nelle coscienze, nei problemi, che sollevava ed imponeva, aggirando le teste, confondendo simboli e fatti, principii e espedienti. Pio IX, vinto ancora una volta dalla poesia del momento, dovette bandire ai popoli d'Italia un ultimo proclama altrettanto incerto nelle frasi e nelle idee, monito ed insieme benedizione che essendo di papa parve essere di Dio, e venendo dal principe persuase che egli pure si accordasse alla grande impresa contro lo straniero. L'entusiasmo crebbe: i volontari mossero da Roma ai confini settentrionali dello stato coll'ordine di difenderli, ma col proposito di varcarli. Era una festa, si parlava di crociata, si distribuivano croci per coccarde ai soldati, che per la maggior parte non credevano più nè alla religione del papa nè al diritto del re. Infatti a Roma l'agitazione rivoluzionaria aumentando di giorno in giorno forzò pontefice e ministero a scacciare i gesuiti. Non era ancora la rivolta allo statuto, ma era già la negazione del suo principio fondamentale ieratico.
Poco dopo, il Durando accampato sul confine di Ferrara, non riuscendo a frenare l'impeto dei volontari e giovandosi di un assenso confuso del papa e di un altro senza dubbio esplicito di Carlo Alberto, dichiarava in un proclama furbescamente mistico, cristiana la guerra all'Austria, e ne rigettava con molti fiori rettorici la responsabilità su Pio IX. Questi, indignato che un generale parlasse nel suo nome di pontefice protestò vivamente, senza accorgersi che il proclama di Durando fosse l'ultima fatale espressione del concetto sul papato messo in voga dal Gioberti e acclamato da tutti. Si era voluto il papato come strumento di rigenerazione politica, e doveva quindi partecipare alla guerra che ne segnava la prima crisi. L'anacronismo di un generale piemontese proclamante a nome del papa una guerra di religione valeva l'altro dello statuto concesso dal papa medesimo ai propri popoli e della lega fra i principi italiani, cui il papa si ostinava tuttora. Una irresistibile vanagloria lo faceva sognare questa lega, della quale Lamartine in nome della Francia lo salutava già presidente: quindi, credendosi corrivo, proponeva ingenuamente di ammettere al congresso anche i rappresentanti dei governi provvisori, senza avvedersi di urtare nella politica piemontese delle annessioni. Il granduca Leopoldo vi aderì per guadagnar tempo ad abbindolare i propri popoli; il Borbone di Napoli mandò una deputazione con ordine rigoroso di ricusare i ribelli deputati siciliani e di esigere la presidenza come per lo stato più esteso e potente d'Italia; Carlo Alberto dichiarò per mezzo del ministro Pareto che «in vista dello stato provvisorio di governo, nel quale si trovavano gl'Italiani sottrattisi al giogo dell'Austria, e per la guerra in corso la lega non si poteva stabilire». Ma questa confessione, che rompeva la neutralità giurata ai repubblicani milanesi, fu meglio intesa dall'invidia dei principi che dall'ingenuità del popolo.
Napoli, lontana dal teatro della guerra, si esauriva intorno al proprio problema costituzionale. Non si poteva credere, e da molti non si credeva, al re; nullameno non si osava compiere la rivoluzione detronizzandolo. La costituzione non funzionava; il ministro Bozzelli, rinnegando il proprio liberalismo, secondava gl'infingimenti di Ferdinando intesi a contristare la nuova vita politica. Così alle notizie delle rivoluzioni di Vienna e di Milano, mentre il popolo abbatteva gli stemmi austriaci e gridava armi per la Lombardia, Ferdinando atterrito aveva permesso l'arruolamento dei volontarii, scusandosene coll'Austria. Nella sua vecchia gelosia di tiranno soffiava una nuova invidia di re. L'astro araldico di Carlo Alberto che sembrava levarsi sulle Alpi lombarde, gli presagiva che una guerra piemontese vinta contro l'Austria avrebbe annullato tutti gli altri principi italiani: laonde contrastandovi intendeva a salvare se medesimo. Lasciò quindi partire i primi volontarii colla principessa Belgioioso, mise a presidente del nuovo ministero l'illustre storico Carlo Troya, di carattere onesto ma di scarso valore politico, accettò persino Pepe, tornato dall'esilio, a generale dei 14,000 soldati avviati verso il Po: ma, trincerato dietro tutte queste apparenze liberali, ordiva febbrilmente una congiura contro lo statuto e la guerra nazionale. Intanto a Pepe si era ordinato di fermarsi al Po aspettando nuovi ordini; e l'incorreggibile carbonaro, dimentico dei passati tradimenti, non solo credette ancora, ma consigliò al re di mettersi alla testa di 60,000 uomini per correre sull'Isonzo a dettare la pace all'Austria. Questo consiglio era l'ultima espressione del dualismo, che, dominando inconsciamente la politica di Napoli e di Torino, concordava la loro rivalità nell'interesse di un grande futuro stato italiano. Il Borbone vi si ricusò, ma Napoli cedette così a Torino la gloria di mutarsi in prima capitale d'Italia.
Napoli non era più che la più grossa città della penisola; Palermo, ribellatasi ai primi moti, le si erigeva dinanzi provocatrice nell'odio della riconquistata autonomia. Il parlamento, inaugurando il 25 marzo la propria costituzione con una solennità religiosa nella chiesa di San Domenico, avrebbe dovuto decidere finalmente della forma di governo; ma gli animi divisi, l'antica tradizione regia e i nuovi istinti democratici ne imbrogliavano il problema che sarebbe appena stato tale. Poichè la rivoluzione aveva cacciato i Borboni, assurde diventavano le pratiche tuttora aperte per trapiantare nell'isola un ramo della stessa dinastia. Il governo presieduto da Ruggero Settimo, il più insigne e popolare patriota, avrebbe dovuto gridarsi in republica, affrontando coraggiosamente l'opposizione della grossa aristocrazia propensa ad un re per conservare con lui gli antichi privilegi. Così consigliava con singolare intuizione di libertà il padre Ventura allora legato siciliano a Roma. Ma nonostante tutti i vantaggi d'aver guidato la rivoluzione e di tenerne ancora in mano i poteri, il governo non osò. Anche in Sicilia il moto era più separatista che rivoluzionario, senza vero concetto democratico; quindi rimase allo stato di accademia politica, perdendosi nelle più futili discussioni sul nuovo stemma dell'isola e sugli emblemi di fraterna concordia da mandare a Roma e a Torino, mentre tutta l'Europa era in preda alle rivoluzioni e in Italia inferociva già la guerra. Unico aiuto, come vergognando, si mandò in Lombardia un drappello di 100 siciliani comandati dal La Masa. Solamente più tardi a nuove minaccie di re Ferdinando il parlamento si riscosse e decretò la decadenza dei Borboni, per sostituirli con un'altra monarchia costituzionale. Il nuovo re sarebbe eletto dopo una necessaria riforma dello statuto, ma doveva essere italiano. Questo pomo di discordia gettato fra i principi, e il manipolo di La Masa erano la maggior concessione e il supremo sacrificio che la Sicilia potesse fare alla causa della nazionalità italiana.