A Roma la grave minaccia non fu intesa che a mezzo.
Poichè la Francia parlava oscuramente di aiutare al tempo stesso il pontefice e la republica romana come mirando ad impedire gli eccessi dell'ultima vittoria austriaca sul Piemonte, l'illusione di un componimento indefinibile sviò il pensiero dei governanti incapaci di comprendere persino gli ultimi maneggi dei moderati, che guidati dal Mamiani e trattando simultaneamente con Parigi e con Gaeta avrebbero voluto abbattere la repubblica con una insurrezione di piazza per restaurare il loro governo costituzionale. Solo l'indifferenza delle popolazioni a tutti gli sforzi del clero, prodigante falsi miracoli e più falsi discorsi, impedì questa reazione interna.
All'infuori di Mazzini e di Garibaldi nessuno fra i governanti e i difensori di Roma sentiva la suprema ideale necessità della sua difesa: nella coscienza dei più Roma non era che una città conquistata contro il papa, l'ultimo episodio della rivoluzione e non molto più importante degli altri.
Mazzini avvampava di orgoglio in quest'ultima crisi italiana, ma troppo uso ad ammonire e ad ammaestrare, capitano indiscusso della propria parte e divenuto più grande ad ogni sconfitta, voleva essere tutto, provvedere a tutto, risolvere tutto. Il ricordo della fallita spedizione in Savoia e i propri vecchi opuscoli sulla guerra per bande gli persuadevano di possedere anche la scienza militare; quindi ricorreggeva i disegni a Carlo Pisacane, da lui stesso nominato capo di stato maggiore, e contendeva a Giuseppe Garibaldi, il più ammirato condottiero del secolo, il comando supremo dell'esercito per cederlo al generale Rosselli, onesta mediocrità, che la gelosia col suo grande subalterno doveva indurre ai più deplorevoli errori.
Quasi contemporaneamente Roma era presa fra quattro fuochi: i napoletani s'avanzavano dal sud, i tedeschi calavano dal nord, i francesi sbarcavano a Civitavecchia, gli spagnoli, ultimi ed inutili come una comparsa in una tragedia, discendevano a Fiumicino.
Crociata ed invasione parevano fondersi nella medesima impresa: invece il papa non si moveva da Gaeta nemmeno a benedire le armi per lui brandite, il clero non osava guidare la rivolta in nome della religione, le campagne si mantenevano inerti, le città indifferenti, l'Europa guardava distratta, Roma aspettava il proprio assedio. I pochi volontari, disposti a morire per difenderla, colla coscienza di morire indarno, si sarebbero detti stranieri italiani che si apprestassero a combattere stranieri d'oltr'alpe e di oltre mare, poichè marchigiani, umbri, romagnoli non erano più affratellati con Roma dei liguri, dei veneti, dei piemontesi accorsi sotto le sue insegne.
Già il 24 aprile Latour d'Auvergne, legato francese, approdando a Civitavecchia aveva annunziato lo sbarco amichevole del generale Oudinot: Mannucci, preside del municipio, scorato all'annunzio, dimandava tempo a rispondere, l'altro insisteva; quando l'armata francese giunge come d'improvviso; la città atterrita urge la propria magistratura, che cede; l'assemblea romana avvertita dell'invasione protesta a stento. Civitavecchia è occupata dai francesi senza colpo ferire; il generale Oudinot pubblica un manifesto equivoco, nel quale negando di riconoscere l'anarchico governo della repubblica assicura di rispettare il diritto delle popolazioni a costituirsi qualunque altro governo, e di non essere venuto che a salvare l'indipendenza del pontefice alla cattolicità e l'Italia dalla reazione straniera. Il municipio, forse ancora più timido che ingenuo, gli risponde con lungo proclama effondendosi in dichiarazioni di fratellanza repubblicana, ma quegli fa sequestrare la risposta, occupa militarmente tutte le stamperie, dichiara la città in stato d'assedio, disarma il battaglione romano del Mellara, impedisce lo sbarco ai 600 bersaglieri guidati dal Manara, che a stento possono toccare Porto d'Anzio e solo perchè il ministro Montecchi sopraggiunto ha giurato al fedifrago alleato, che essi non entreranno in Roma prima del 5 maggio: finalmente confisca 4000 fucili comprati in Francia e pagati dalla republica romana.
Nullameno a Civitavecchia la bandiera romana seguita a sventolare vicino a quella francese.
L'impossibile equivoco prosegue. Il triumvirato s'appresta calorosamente alla difesa sebbene poco assecondato dalle popolazioni: si requisiscono i cavalli dei privati, si ordina la demolizione del viadotto fra Castel Sant'Angelo e il Vaticano, si nomina una commissione delle barricate: per ingraziosirsi col popolo gli si gettano provvedimenti agrari e promesse di migliorie inattuabili: poi, con magnanima cortesia, si dichiarano inviolabili tutti i francesi residenti in Roma affidando la loro incolumità all'onore del popolo. La guerra è inevitabile. Ma Roma non vuole che difendersi.
Quindi l'Oudinot, persuaso con gallica burbanza di prenderla a un primo assalto, muove contro di essa con appena 7000 uomini e 10 pezzi di cannone: il triumvirato cedendo bassamente alle superstizioni del volgo, ordina l'esposizione del SS. Sacramento per «implorare la salute di Roma e la vittoria del buon diritto», che Garibaldi alla testa di pochi battaglioni ottiene con splendida ed insperata prontezza (30 aprile).
I francesi sono respinti dappertutto: Roma trionfa, ma invece di proseguire nella vittoria incalzando il nemico e tentando di gettarlo in mare, come Garibaldi proponeva con magnifica audacia, s'abbandona all'ebbrezza di una cavalleresca cortesia rimandando liberi tutti i prigionieri e invitando il popolo a salutare d'applauso fraterno i vinti prodi della republica sorella. Intanto tutte le provincie sono invase, Bologna e Ferrara s'arrendono dopo breve resistenza ad un piccolo corpo di austriaci, che attraversano tutta l'Emilia, le Romagne, le Marche, fino sotto ad Ancona senza incontrare battaglia. Ancona si difende per 27 giorni con un presidio di 5000 soldati e 100 pezzi d'artiglieria per capitolare anch'essa senza fortuna e senza gloria: gli spagnoli, discesi a Fiumicino, passano ad infestare l'Umbria come masnada di briganti; Ferdinando di Napoli col generale Winspeare accampa fra Velletri ed Albano con 16,000 uomini. Ma Garibaldi alla testa di appena 7000 soldati lo ributta da Palestrina, poco dopo lo sorprende a Velletri, lo sgomina, lo fuga lungo la via Appia, e lo avrebbe forse annientato se la gelosa incapacità del Rosselli generalissimo non lo impediva. Queste ultime rapide vittorie, dovute ad una prima tregua fra l'Oudinot e il triumvirato, infervorano inutilmente i pochi volontari: Garibaldi ammirabile d'intuizione guerresca e politica vorrebbe gettarsi su Napoli; gli Abruzzi parevano presso a prorompere, l'esercito nemico era demoralizzato, la Sicilia vinta non doma, re Ferdinando odiato ed inetto. Una insurrezione poteva, complicando la guerra, produrre inimmaginabili risultati, ma la rivoluzione concentrata e morente a Roma non sa nemmeno più concepirla. Mazzini fisso nell'illusione di un componimento colla Francia e diffidente dell'Oudinot, impone a Garibaldi di ripiegarsi su Roma.
L'eco della sconfitta toccata all'Oudinot il 30 aprile riscuote dalla torbida incertezza l'assemblea francese. L'insidia del governo le si schiarisce odiosamente alla coscienza, ma senza apprenderle l'energia d'impedirla. Il ministero, messo alle strette dai deputati più radicali, o ricusa rispondere, o imbroglia la risposta in una fraseologia altrettanto goffa e falsa. Invano Arago, Ledru-Rollin, Schoelcher con nobile insistenza parlano ancora a nome della democrazia francese, giacchè l'assemblea satura d'imperialismo napoleonico accorda i nuovi crediti per la spedizione romana, limitandosi a pregare il governo di richiamarla al primo scopo. E questo pure non era mai stato decentemente spiegato. Così il governo anzichè mutare proposito raddoppia di ambiguità diplomatica, manda a Roma Ferdinando di Lesseps, simpatica ed onesta figura di liberale divenuto poi celebre pel taglio degl'istmi di Suez e di Panama, con incerte intenzioni d'accordo, e scrive segretamente all'Oudinot di proseguire nella guerra.
Il Lesseps, forse non comprendendo bene il doppio giuoco della missione affidatagli, trattò cortese col triumvirato: Mazzini gli diede le più chiare ed eloquenti spiegazioni sul governo romano, ma soccombendo egli medesimo alla grandezza del proprio ufficio finì coll'accettare un compromesso che annullava ogni diritto d'Italia e ogni sovranità della republica romana. Le ignobili concessioni del papato alle potenze cattoliche si riproducevano collo stesso governo, che in nome del diritto nazionale e popolare aveva soppresso il papato; e Mazzini, ultimo e più superbo avversario del Vaticano, non ne comprendeva l'avvilente inutilità. Il compromesso diceva: «L'appoggio della Francia è assicurato alle popolazioni dello stato romano. Esse considerano l'esercito francese come un esercito amico che viene a concorrere alla difesa del suo territorio. L'esercito francese prenderà d'accordo col governo romano e senza intromettersi per nulla nell'amministrazione del paese gli alloggiamenti esteriori convenienti così alla difesa del paese come alla sanità delle truppe. Le comunicazioni saranno libere. La republica francese guarentisce contro qualunque invasione straniera i territori occupati dalle sue truppe. Resta convenuto che il presente compromesso dovrà essere sottoposto alla ratifica della republica francese. In qualunque caso gli effetti di esso non potranno cessare che quindici giorni dopo la notizia data ufficialmente della negata ratifica».
Peggior compromesso non era stato l'ultimo fra l'Austria e il papato per Ferrara.
Dopo le discussioni dell'assemblea francese e le risposte del ministero, il contegno dell'Oudinot, le allocuzioni di Gaeta, le invasioni spagnuole, austriache e napoletane, credere alla sincerità delle intenzioni francesi era follia, cedere con trattato all'occupazione straniera Civitavecchia era delitto di lesa nazione.
L'Oudinot dietro le proprie segrete istruzioni non volle riconoscere la convenzione, il Lesseps partì ingenuamente per Parigi a sollecitarne l'approvazione, e si vide sconfessato. Inutilmente all'assemblea voci generose si levarono ad accusare il governo di violata costituzione: più indarno il 13 giugno Ledru-Rollin con altri capitani di sinistra tentò sollevare il popolo di Parigi per rovesciare il disegno imperiale ormai troppo palese di Luigi Buonaparte, giacchè la sommossa fu presto soffocata nel sangue dal generale Changarnier, e l'immensa capitale dichiarata in stato d'assedio.
Ogni illusione per Roma, doveva quindi cessare.
Nullameno il governo francese proseguiva nelle inutili ipocrisie sostituendo il signor di Corcelles al signor di Lesseps per indurre il triumvirato ad un accordo, che cedesse Roma all'occupazione francese senza la pericolosa odiosità d'una conquista.
Le ostilità erano ricominciate, ma Roma nella tregua non aveva abbastanza pensato a munirsi; Garibaldi, ritornato vittorioso da Rocca d'Arce, in quel triste andazzo d'ogni cosa militare e politica chiese con ingenua sicurezza la dittatura: Mazzini ne inalberò, a tutti i retori dell'assemblea e del governo parve proposizione peggio che assurda.
L'Oudinot, denunziando l'armistizio, aveva promesso di non assalire che il 4 giugno; invece massacrò proditoriamente nella notte dal 2 al 3 gli avamposti romani: Monte Mario e Villa Pamphili furono occupati. I francesi sommavano quasi a 40,000 uomini, l'esercito romano non arrivava a 20,000. Erano quasi tutti volontari con colonnelli e generali improvvisati, che parvero e furono meravigliosi di valore. Era impossibile sostenere un assedio, resistere a molti assalti; nullameno i difensori sentirono che bisognava morire. Il 3 giugno al casino dei Quattroventi, occupato dai francesi per tradimento nella notte, si combattè la più lirica delle battaglie. Oudinot aveva addensato nelle prese posizioni i più intrepidi soldati d'Africa, Garibaldi scagliò sopra di loro i più invincibili dei propri eroi, e non potè vincere: vi furono assalti disperati, cariche deliranti di coraggio; Daverio, Dandolo, Mellara, Mameli, vi perirono; Masina bolognese, alla testa della propria cavalleria, più furioso di un uragano, penetrò nel vestibolo del palazzo e stramazzò col cavallo a mezzo la gradinata marmorea, dalla quale lo fulminavano i cannoni.
La giornata era perduta, ma le armi italiane avevano riconquistata la gloria degli antichi migliori tempi.
Intanto nella città l'effervescenza guerriera non cresceva. Si parlava di barricate e se ne costruivano ma la popolazione grossa di 160,000 uomini assisteva tra furiosa e avvilita alla battaglia. Il governo, invece di galvanizzarla con eccessi, non aveva fino allora badato che a mantenerle la calma dichiarando amici i francesi, predicando l'ordine nelle piazze e il rispetto a tutti i nemici della repubblica. Si fece persino un bando per restituire alle chiese pochi confessionali trascinati nelle strade a farvi barricate: non si era voluto odio civile, e mancò l'odio allo straniero, si era stati magnanimi, e si rimase deboli. I sacerdoti Gavazzi e Dall'Ongaro, che incitavano alla difesa della republica santa, nel popolo scettico di Roma facevano poco frutto, la plebe bastonava qualche gesuita, vociava, sequestrava per le barricate qualche carrozza signorile, senza passione per la improvvisata ed inintelligibile republica, senza avversione per i francesi stranieri come tutti gli altri stranieri che Roma aveva ospitato e cui aveva soggiaciuto. Un Zambianchi, volgare e truce assassino, aveva scorrazzato per qualche provincia arrestandovi alcuni sospetti di reazione, quindi chiusili nelle catacombe di S. Calisto li uccideva sommariamente: ma questo anzichè guerra civile era costume brigantesco. Lo scoramento cominciava anche nelle truppe vedovate dei migliori ufficiali: gli antichi papalini già ricalcitravano agli ordini; i comandanti pontifici passati ai servizi della republica e persuasi dell'inutilità di ogni resistenza non si preoccupavano più che di conservare con nuovo tradimento il grado ottenuto: gli stessi volontari più eroici si irritavano della indifferenza di un popolo che applaudiva alla loro morte come ad uno spettacolo.
L'assemblea sollevata da un irresistibile soffio di poesia aveva dichiarato la resistenza ad oltranza, poi non avendone preparati i mezzi e non volendone in fondo gli eccessi, si affrettava a compiere la propria costituzione: cura che parve epica in quel momento e non era se non l'irresistibile istinto storico di quella republica destinata a non essere che un verbo.
Il giorno 12 i lavori di assedio erano già terminati: al 21 la breccia squarciava le mura; solo il Vascello, immenso caseggiato, resisteva all'aperto colla legione del maggiore Medici che vi si mantenne prodigiosamente, e potè nullameno riparare a notte entro la città. Il 30 giugno i francesi penetrarono per le breccie; ultimi eroi caddero loro contrastando Emilio Morosini e Luciano Manara.
Roma era vinta.
La guerra alle barricate per le strade, che Mazzini in un sogno d'eroismo aveva fatto preparare, si chiariva impossibile in quell'atteggiamento spassionato del popolo, molto più che i francesi, contenti di occupare le alture, accennavano a bombardare la città o a ridurla, strema come era di vettovaglie, ad arrendersi. Non restavano che tre partiti: capitolare, resistere sino all'estremo e seppellirsi sotto le rovine, uscire da Roma trasportando seco il governo. Mazzini propendeva per quest'ultimo; Garibaldi lo appoggiava citando l'esempio della republica di Rio Grande: Avezzana ministro della guerra, reduce da Ancona, ove Mazzini lo aveva gelosamente inutilizzato, ed altri capi s'incaponivano alla difesa. L'assemblea, convocata in comitato segreto, scartò il disperato disegno di Mazzini e di Garibaldi per seguire quello di Enrico Cernuschi, che proponeva la resa. Il triumvirato piuttosto che trattarla col fratricida governo francese si dimise nobilmente dicendone le ragioni al popolo in un manifesto sfolgorante di fede e di poesia. A nuovi triumviri furono eletti il Saliceti, il Calandrelli e il Mariani per patteggiare coll'Oudinot. Questi spinse la burbanza oltre l'esosità imponendo condizioni così enormi, che lo stesso generale Vaillant sdegnato esclamò non dovere i francesi concedere a Roma meno di quanto gli austriaci avevano concesso a Bologna e ad Ancona. Gli oratori del municipio ricusarono i patti preferendo il pericolo di una resa incondizionata al disastro di una capitolazione senza onore, e l'assemblea dichiarò municipio e triumvirato benemeriti della patria. Decretò ancora sussidi alle famiglie povere dei cittadini morti combattendo; poi con magnanima teatralità promulgò dal Campidoglio la propria costituzione (3 luglio) mentre i francesi irrompevano trionfanti per le strade.
La republica romana era morta, ma il ritorno del papato a Roma non sarebbe più che una processione di funerale.
Allora tutti i rivoluzionari si sbandarono: vi furono proteste, urli feroci contro gl'invasori, un ultimo sogno di rivolta, quindi l'esodo cominciato dietro Mazzini parve ricominciare miracolosamente la guerra nella ritirata degli ultimi soldati con Garibaldi.
Roma era caduta sotto il governo militare: stato d'assedio e legge marziale. Nel dì anniversario della presa della Bastiglia, Oudinot annunziava al mondo la restaurazione in Roma del potere temporale dei papi. L'assemblea francese ne tenne una seduta memorabile, nella quale republica e papato si riavventarono l'una sull'altro: il napoleonismo oramai presso a trarsi la maschera fu cinico e spavaldo; Montalembert agitò la propria eloquenza come una fiaccola morente sul papato non illuminando più che un cadavere, mentre Victor Hugo, il maggior poeta della Francia e il miglior poeta del secolo, parlò per Roma e per la republica risollevandole, coll'infallibile fede del genio, alle vittorie di un indomani immortale.
Mazzini esule empieva già il mondo di proteste, Venezia resisteva tuttavia, Giuseppe Garibaldi ritentando il prodigio di Senofonte errava ancora armato sull'Appennino.