Egli solo della vasta rivoluzione federale restava all'Italia perchè solo non s'era impicciolito in nessuna delle sue contraddizioni politiche. La sua vita, che doveva riassumere in più lungo corso quella d'Italia creandone l'unità politica, pareva allora avvolta nella leggenda; un inesplicabile entusiasmo precedeva e seguiva i suoi passi: il suo valore non più grande di quello di tanti eroi morti nell'insurrezione suscitava speranze e fedi indefinibili, mentre la sua vita d'avventure sull'oceano e oltre l'oceano lo rendeva più italiano di quanti l'avevano intrepidamente passata nei rischi delle permanenti congiure. Mazzini più eccelso illuminava ma abbacinando, e coloro che non sopportavano la sua luce chiudevano gli occhi accusandolo di fuorviarli dalla grande strada della storia italiana; Garibaldi, vivente personificazione del sistema mazziniano, ne attenuava gli eccessi e ne velava le incandescenti chiarezze pur illuminandone le ombre: era l'istinto più infallibile del genio, il buon senso più sicuro della scienza, il cuore più vasto dell'intelletto. Tutto il popolo guardava a lui, viveva in lui.
Nullameno la sua vita non aveva ancora tali grandezze storiche da giustificare questo inesplicabile accordo di tutta una nazione con un individuo. Si sapeva che egli era nato a Nizza (1807) da una famiglia di marinai verso il fondo del porto Olimpio, e che, ricevuta la più mediocre delle educazioni, cedendo alla vocazione del mare come tanti suoi compatriotti, s'era fatto marinaio. La sua prima nave si chiamava Costanza: aveva corso il Mediterraneo, approdato nel mar Nero, poi visitato Roma. Giovane, poeta, eroe, egli non vi aveva veduto nè le tracce dei Cesari nè quelle dei papi, ma un'altra Roma lontana nell'avvenire, nuovamente regina d'Italia, ancora capitale del mondo. Mentre ferveva la grande poesia del romanticismo, ricostruendo e lamentando il passato, egli inconsciamente profetico si appuntava nell'avvenire: la sua non era visione o sogno, ma presentimento e giuramento. Annibale fanciullo aveva potuto giurare indarno la distruzione di Roma, Garibaldi giovanetto ne giurò a se medesimo la redenzione. Quindi viaggiò ancora facendo il precettore di ragazzi a Costantinopoli, tendendo febbrilmente l'orecchio ai confusi rumori della insurrezione greca, raccolto in se medesimo come aspettando la chiamata del destino. Un incontro con un ligure in una bettola a Taganrog, decise della sua vita: gli fu rivelata la Giovane Italia, scoperti segreti e propositi di rivoluzioni contro tutti gli stranieri e i tiranni d'Italia. Egli stesso con lirica ingenuità paragonò l'entusiasmo cagionatogli da tali rivelazioni a quello di Cristoforo Colombo nello scoprire le prime prode d'America. Garibaldi e Mazzini, sconosciuti l'uno all'altro, s'incontrarono nella stessa idea di libertà: oramai la fortuna d'Italia diventava sicura attraverso gli innumerevoli e ancora ignoti frangenti.
Tornato in patria, Garibaldi si getta impetuosamente nelle cospirazioni. Al primo incontro in Marsiglia con Mazzini, che già preparava l'infelice spedizione di Savoia, con occhio sicuro glie ne indica tosto il difetto capitale: era meglio cominciare da Genova più frequente di liberali, più forte di plebe, calda ancora di odio municipale al Piemonte. Era il primo dissidio fra i due eroi del pensiero e dell'azione, d'ora innanzi sempre divisi nel metodo e congiunti nello scopo, egualmente sicuri l'uno nella idea rivoluzionaria che oltrepassando la rivoluzione italiana la violava e talvolta l'impediva, l'altro nell'istinto di guerra e di rivolta che non gli farebbe perdere una sola occasione di battaglia, e gli assicurerebbe la vittoria anche quando la sconfitta fosse momentaneamente inevitabile. L'impresa della Savoia fallì. Garibaldi, inteso ad aiutarla da Genova con una formidabile insurrezione per prendere l'odiata monarchia di Carlo Alberto fra due fuochi, potè a stento salvarsi in Francia perseguitato da una condanna a morte, perchè a meglio secondare l'insurrezione si era messo volontario subalterno nella marina regia, e ne aveva subornato parecchi soldati.
Tale terribile disastro era allora così comune che pochi vi badarono, primi fra essi i medesimi cospiratori.
Ma Garibaldi non poteva logorare la propria vita nelle congiure; dimenticò la condanna a morte, valicò l'oceano e andò ad arruolarsi volontario sotto le insegne della repubblica di Rio Grande, allora in guerra col Brasile. Colà crebbe avventuriero, corsaro, ammiraglio, generale in una vita di battaglie, di assedi, di naufragi, d'incendi, senza paghe, quasi senz'armi, improvvisando navi e legioni, ricostruendo sempre all'indomani le opere distrutte da un nemico troppo forte, fidando sempre nella vittoria e strappandola con prodigi di genio e di valore. Il giovane avventuriero non somigliava a nessuno dei tanti che ingombrano ancora l'America, o cresciuti nel suo vergine suolo dalla mistura delle razze di tutto il mondo, o gettati dalle tempeste d'Europa sulle sue spiaggie lontane ad accelerarvi la storia coi ricordi e colle passioni del vecchio mondo.
Un'indomabile convinzione repubblicana lo sottometteva ai servigi delle republiche di Rio Grande e di Montevideo contro l'esosa tirannide di Rosas: una poesia inesauribile gli dava la fede degli antichi neofiti cristiani purificandogli l'anima negli spettacoli di una natura, sulla quale il quadro della storia non aveva ancora potuto imprimersi. Ma lontano, fra gli splendori e i pericoli di una gloria, che valicando presto l'oceano echeggiava in tutto il mondo, egli non pensava che all'Italia e ne difendeva l'idea nelle republiche americane e nelle loro ancor giovani tumultuanti democrazie. Questo guerriero di ventura non aveva alcuno dei caratteri comuni ai venturieri: irresistibilmente impetuoso ed assurdamente intrepido, detestava le passioni sanguinarie della guerra e tutte quelle efferate virtù dell'odio, che ne accompagnano le vicende e ne assicurano le vittorie: nessuna avidità di guadagno o di nomea deturpava il suo volontariato soldatesco; adorava la libertà, e combatteva contro i tiranni per distruggerli senza odiarli personalmente: non credeva che alla democrazia, ed era pronto a subire la volontà delle maggioranze anche se inclinata a servitù. I suoi compagni, esuli d'Italia o raminghi di tutto il mondo, lo seguivano ovunque, come cavalieri di un ciclo fatato o fanatici di una nuova religione: la varietà delle loro passioni generose o criminali s'unificava nel suo sentimento addensandosi paziente sotto il suo comando. Alcuni eroi sconosciuti come Rossetti ed Anzani, raddoppiavano con incomparabili virtù di guerra o di politica la sua opera; tutti gli altri gli morivano intorno, quasi nella soffocante fretta di un dramma, affidando al miracolo della sua incolumità il ricordo della loro gloria, e alla virtù della sua vita la redenzione del loro nome.
Un indescrivibile tumulto di eventi sembra agitare per quattordici anni Garibaldi nell'America quasi a prepararlo per la grande imminente impresa d'Italia. Libero, prigioniero, torturato, sempre povero, sempre improvvido di sè e votato corpo ed anima alle proprie gesta, subalterno malgrado le continue vittorie, apprende tutte le indefinibili virtù che gli saranno poi necessarie all'improvvisazione d'Italia. Politica e guerra lo gettano nei più difficili frangenti, abituandolo a tutti i rovesci, armandolo contro tutte le illusioni, temprandolo a tutti i disinganni, arricchendolo di una energia inesauribile e di una fede democratica, che nemmeno la sconoscenza parricida della patria potrà poi scrollare. I compagni, che gli si rinnovano incessantemente d'intorno, gli dànno l'ascendente fatale di un predestinato; la mobilità della sua condizione gli aggiunge la perfezione cosmopolita dell'uomo moderno.
Sulle sponde del grande Plata ogni estancia diventa per lui un arsenale, ove fabbrica barconi e garopere; da corsaro cresciuto tosto ad ammiraglio trionfa nella laguna di Santa Caterina e vi si innamora di Anita, che diventa poi la sua meravigliosa eroina, come l'Olandese del Vascello Fantasma s'innamora di Senta; con un espediente di storia antica carica due barconi sopra un traino e con duecento buoi li trascina per cinquantaquattro miglia dal lago Dos Patos al lago Taramandahy; frequenti e terribili naufragi lo forzano a minuti ed obliati eroismi; costretto da un ordine del generale Canabarro a saccheggiare il paese di Imiriu, la sua anima di cavaliere si rivolta così che volendo frenare gli eccessi delle proprie truppe ne rimarrebbe quasi vittima, se un irresistibile prestigio non lo proteggesse. Ma il nemico gli distrugge irrimediabilmente la piccola flottiglia, ed eccolo ancora capitano di terra a cavallo, con Anita al fianco, la spada in pugno, un neonato sulla sella.
Quindi le battaglie si avvincendano ancora; si traversano foreste per le quali bisogna aprirsi il varco colla scure, si compiono ritirate, si osano scorrerie che rinnovano tutti i prodigi delle antiche guerre barbariche. Poi la fortuna di Rio Grande declina, e Garibaldi passa alla difesa di Montevideo. Quindi mercante di buoi, sensale, maestro di matematica in un istituto privato, daccapo corsaro, ammiraglio, lotta coll'inglese Brown comandante la squadra di Buenos-Ayres e lo costringe all'ammirazione. Sciaguratamente la guerra civile fra i generali Ribera ed Ourives, aspiranti alla presidenza, complica nella piccola republica la guerra contro Rosas tiranno di Buenos-Ayres; come in Italia la lotta imperversa fra unitari e federali, ma in America come in Italia Garibaldi è unitario. Quindi perdute in mirabili combattimenti sui fiumi le ultime flottiglie improvvisate, comincia l'assedio di Montevideo che durerà quanto quello di Troia. Ourives al soldo di Rosas si avanza vittorioso, l'aristocrazia e la borghesia della grossa città allibiscono, solo il popolo insorge: si organizza la difesa, si rinnovano le flottiglie, si formano legioni straniere. Garibaldi ne stringe intorno a sè una d'Italiani, e malgrado difficoltà di ogni maniera doma caratteri, rianima gli spiriti, improvvisa nei propri soldati perfino il coraggio, li muta in falange d'eroi. Gli americani, che Garibaldi ammira come i primi soldati del mondo, lo ricambiano di pari ammirazione: i matreri, cavalieri banditi delle foreste, accorrono alle sue insegne; le sue vittorie spesseggiano, mentre a Montevideo l'insurrezione di partiti cittadini ne compromette il frutto. Un intervento diplomatico anglo-francese per la pace vi fallisce; il Salto, conquistato e mantenuto da Garibaldi con miracoli di valore, è nuovamente perduto dacchè egli è stato richiamato a Montevideo; oramai della republica non resta che la capitale stretta d'assedio, e Garibaldi colla legione italiana, che ne difende ancora le opere avanzate.
Ma sui primi del 1848 le notizie delle rivoluzioni italiane giungono sul Plata.
Con una sessantina di compagni Garibaldi, immemore dell'America, veleggia tosto per Genova: la sua preparazione è compita, l'opera sta per cominciare. Ma appena sbarcato in Italia gli equivoci della rivoluzione federale lo arrestano; Mazzini fremente della tregua da lui medesimo concessa all'impresa regia, così infelicemente condotta da Carlo Alberto, non vorrebbe che Garibaldi portasse al re l'aiuto dell'opera propria. Carlo Alberto, incapace di comprendere la magnanimità del grande condottiero, che aveva dimenticato persino la propria condanna a morte, diffida dell'antico ribelle, lo stanca nell'inazione, lo paralizza nella guerra. Il governo provvisorio di Milano, peggiore del re, gli lesina gli aiuti, gli raddoppia le difficoltà; finchè i disastri della guerra precipitano, e Carlo Alberto sconfitto si ripiega su Milano, della quale Garibaldi deve difendere a Bergamo gli approcci con un pugno di soldati. Poi Carlo Alberto fugge tradendo la città, l'impresa regia si sfascia, gli austriaci incalzano vittoriosi il re già sicuro oltre il Ticino. Milano s'arrende, il popolo disarmato e titubante ammutisce, i governi provvisori s'umiliano e sfumano, ma Garibaldi cacciatosi fra i monti resiste ancora agli austriaci, li batte alla Beccaccia di Luino, li ferma a Morazzone e ripara nella Svizzera.
L'Italia non si è ancora accorta del grande condottiero, che uno dei generali austriaci ha saputo indovinare.
Finalmente la rivoluzione di Roma rivela in Garibaldi il primo soldato d'Italia. Se la gelosia di Mazzini lo inceppa e la rivalità di Rosselli gli annulla la fortunata vittoria sul re di Napoli, che sarebbe rimasto prigioniero: se la republica romana deve fatalmente perire, perchè ammalata di tutti gli errori del federalismo contrasta col proprio fatto alla stessa unità d'Italia, che vorrebbe e dovrebbe proclamare e non può; quando la republica soccombe e Roma s'arrende, Garibaldi, solo nella fede dell'unità d'Italia che nessuno in quell'ora conserva (2 luglio), raduna le proprie truppe per uscire da porta S. Giovanni a nuova guerra. Il suo disegno è semplice: gettarsi all'Appennino, sollevarne le forti popolazioni, vincere le prime battaglie, onde tutte le città rinnovellino le proprie rivoluzioni, e circondando tutti i nemici sopraffarli, annientarli sotto l'impeto irresistibile della nazione. L'anabasi incomincia: tre eserciti lo cingono, lo perseguono. Garibaldi li cansa, scivola fra i loro vani, li delude: guadagna i monti, vi si perde sempre inseguito e sempre in salvo, moltiplicando stratagemmi ed eroismi, lasciando ad ogni tappa un ricordo ed una speranza. Il popolo non si muove: le campagne aizzate dal clero sono ostili, i villaggi diffidenti, le città chiudono le porte. Le diserzioni assottigliano la piccola truppa alla quale i villani del vescovo di Chiusi osano fare prigionieri: la miseria spinge i resti di quella falange a vessazioni, che sono rappresaglie e le provocano. Ma l'Italia, esaurita dallo sforzo infelice della rivoluzione federale, si è già ricoricata nell'antica servitù per ristorare le proprie forze. Garibaldi, giunto di monte in monte sino alla piccola repubblica di San Marino, vi discioglie il resto dell'esercito, non conservandone che un ultimo drappello per drizzarsi con esso su Venezia assediata. Senonchè, imbarcatosi su tredici bragozzi a Cesenatico, è sorpreso da un brigantino austriaco: egli solo scampa colla moglie incinta e un capitano. L'epopea si muta in romanzo; la ritirata è finita, il pellegrinaggio incomincia. Riparato nella pineta di Ravenna, Garibaldi vi perde Anita, che non può nemmeno seppellire e della quale i cani vaganti rosicchiarono a notte alta le ossa; ma protetto da oscuri popolani, dopo lunghi rigiri e continui pericoli è salvato a Modigliana da don Giovanni Verità, semplice ed eroica figura di prete, che riconcilia così la coscienza religiosa colla coscienza rivoluzionaria nella coscienza del popolo. Quindi traversa la Toscana incontrando ad ogni passo un salvatore, sfuggendo alla ricerca delle polizie, insino al deserto delle maremme, al golfo di Sterbino, donde salpa per la Liguria. Quivi il generale Lamarmora, commissario regio a Genova della quale ha domato l'insurrezione, lo incarcera; l'opposizione parlamentare ne tempesta, il ministro Pinelli dichiara che Garibaldi suddito piemontese avendo preso servizio senza autorizzazione sotto la repubblica romana ha perduti tutti i diritti di cittadinanza e non può più invocare il favore delle franchigie costituzionali; D'Azeglio presidente del ministero non se ne vergogna, la Camera vota contro il ministero e Camillo Cavour contro Garibaldi.
Così nel regno piemontese, il solo tuttavia che avesse tentato un'impresa italiana e conservato lo statuto, era poco vivo il senso dell'italianità.
Poi fu imposto a Garibaldi di scegliersi un luogo d'esilio: Garibaldi elesse Tunisi.