Disastri militari.

Quindi la guerra, trascinata di fazioni in fazioni inutili anche nella vittoria, fu ripresa con intermittente energia, senza la strategica abilità di una guerra popolare. Radetzky, vigile nell'imprendibile Quadrilatero, spiava l'occasione di un grande errore nemico, ingrossandosi di continui rinforzi. Così assalito a Santa Lucia e rimastovi padrone malgrado il valore delle truppe piemontesi, mentre queste si ostinano contro Peschiera, sbuca improvviso da Verona col grosso dell'esercito, schiaccia (29 maggio) i toscani a Curtatone isolati, abbandonati, e allora si disse, nè forse ingiustamente, traditi dalla tattica regia; rattenuto a Goito dall'intrepidezza del duca d'Aosta, abbandona Peschiera alla vanità conquistatrice di Carlo Alberto, che entratovi trionfalmente vi canta il Te Deum; quindi, sfiancando per Legnano, si congiunge con Welden, si dirupa su Vicenza, vi batte, vi chiude, vi fa prigioniero Durando con 10,000 pontifici.

Il disastro è irreparabile. Padova e Treviso capitolano, Palmanova si arrende: solamente Venezia ed Osoppo rimangono libere, quella nell'isolamento della laguna, questa nella solitudine di una roccia. Carlo Alberto, atterrito dall'annunzio di tante vittorie nemiche, dimette il pensiero d'investire Verona, e ordina la ritirata, abbandonando senza pietà i nuovi sudditi veneti. All'annessione lombarda rispondeva tragicamente l'eccidio di Curtatone, alla dedizione veneta le nuove trattative diplomatiche, nelle quali Carlo Alberto, ridomandando le antiche offerte dell'Austria, accettava l'Adige per confine orientale del proprio regno.

Era il tradimento regio immediato ed inevitabile.

Ma l'Austria ringagliardita ricusa: la rivoluzione italiana è perduta, l'esercito piemontese scorato, le popolazioni disilluse, i volontari dispersi, le città frementi ma tremanti. Allora Carlo Alberto, sospinto ad una suprema battaglia dalla voce di tutta Italia che gli grida: tradimento!, riprende l'offensiva minacciando Mantova: scaramucce e fazioni stancano l'inutile valore dei soldati, finchè a Custoza la bandiera tricolore cade nel sangue di una irreparabile sconfitta. Tutto è perduto; il re dà volta per la Lombardia, giurando difendere Milano, che nullameno lascia scoperta. La grossa metropoli spaurita crea un triunvirato di difesa, affidandosi al generale Fanti, al dottore Maestri e all'avvocato Restelli: Giuseppe Garibaldi, tardi accettato, è finalmente a Bergamo e ne sbarra la strada con 3000 volontari, ma gli sperduti eroi delle cinque giornate non possono raccozzarsi per proteggere Milano dall'imminente invasione. Sotto l'emozione del disastro, Torino cangia ministero: il nuovo presieduto dal milanese conte Casati, che riceve così il premio della cessione di Milano, chiede ed ottiene pieni poteri. Il 2 agosto, assumendo il comando di Milano, vi delega commissari del re il generale Olivieri e il marchese di Montezemolo: i milanesi, credendo che Carlo Alberto stringa la dittatura per rialzare con un impeto di magnanima disperazione il vessillo e la fortuna d'Italia, lo accolgono festanti; ma questi, travolto dalla sventura, non preoccupato più che del proprio regno, inganna tutti, persino se stesso. Un'orribile commedia, raccontata poi da Carlo Cattaneo in un ammirabile libro, disonora la generosa città pochi mesi prima insorta fugando sola lo straniero; il re giura, abiura, finge una difesa militare che impedisce a quella popolare di organizzarsi; è acclamato, fischiato, minacciato di morte; firma una capitolazione che cede la città a Radetzky, e la disdice offrendosi pronto a morire coi figli e con tutto l'esercito sotto le mura di Milano; poi a notte fugge in mezzo a una compagnia di bersaglieri. Quasi contemporaneamente Mazzini usciva dalla vinta città a piedi fra una schiera di volontari, portando, semplice soldato, la bandiera col motto – Dio e popolo – che doveva fra poco sventolare sul Campidoglio. La monarchia era vinta, la repubblica stava per esserlo; un medesimo sbandamento disperdeva politicanti e combattenti, programmi e bandiere, per raggrupparli un istante dove maggiore fosse la gloria del passato e la speranza dell'avvenire, a Roma e a Venezia, perchè una stessa sconfitta vi dissipasse lo stesso errore, e l'ineffabile tragedia del genio, mescolandosi alla farsa di tutto un popolo ancora incapace di comprendersi, rivelasse i principii della storia futura.

Intanto l'esercito piemontese aveva ripassato il Ticino. L'armistizio che prese nome dal generale Salasco, pubblicato il 9 agosto, stabiliva l'antica frontiera dei due stati per confine ai due eserciti: le fortezze dovevano essere aperte agl'imperiali, sgombri in tre giorni gli stati di Modena, Parma e Piacenza, cedute Venezia e la terraferma veneta. Il Piemonte restava intatto, ma la sua recente egemonia veniva negata con implacabile brutalità.

Ultimo a ritirarsi e non compreso nell'armistizio fu Giuseppe Garibaldi, che, sbaragliata una colonna di austriaci a Luino e resistendo ad un'altra anche maggiore a Morazzone, potè toccare la Svizzera, lasciando i nemici stupefatti del suo valore. Il generale D'Aspre disse allora di lui con profonda intuizione guerresca: «Egli era il solo, che avesse potuto vincere!» I vinti generali di Carlo Alberto avranno certo sorriso a questa opinione del generale tedesco.

Ma come per togliere alla storia ogni dubbio sui tradimenti di Carlo Alberto, il 6 agosto, mentre questi ripassava il Ticino avendo già concluso l'armistizio pubblicato poi nel giorno 9, il generale Colli e il conte Cibrario prendevano in suo nome possesso di Venezia, per impedirle ogni generosa ribellione e cederla al nemico colla maggiore comodità. Dopo l'abbandono, l'agguato: la truffa diplomatica compiva il tradimento politico. Ma il popolo, esasperato da tanta perfidia e galvanizzato dalla stessa imminenza del pericolo, tumultua in piazza S. Marco gridando: Abbasso il governo regio, evviva Manin! Il ricordo di Campoformio lancina tutte le coscienze, il terrore dei tedeschi centuplica l'odio, mentre in quel cinereo deserto della laguna, fra i memori monumenti dell'antico valore, la repubblica riappare come evocata dalla storia alla solennità di un ultimo giorno. Venezia, sola, repubblicana, senza navi, senza territorii, senza senato, quasi senza popolo, rimane vivente rovina nella momentanea morte d'Italia: abbandonata contro tutti, si ravvolge nella propria millenaria bandiera come a minacciare anche morendo e a conservarsi incorruttibile nella morte. Ma, gridandosi novellamente repubblica e rianimandosi d'immortali memorie, non può ricreare l'ammirabile decorazione del proprio antico governo: le forme moderne politiche guastano la sua classica maschera; la nuova assemblea non sa che nominare una dittatura nella quale la tradizione del dogado lascia a Manin una indiscussa supremazia.

Il primo atto di quest'ultima repubblica fu un decreto di zecca: nelle monete alla data 22 marzo si sostituì quella dell'11 agosto col motto – Alleanza dei popoli liberi – Indipendenza italiana – e nell'esergo: – Dio premierà la costanza – . Il testamento di Venezia si mutava così in una profezia all'Italia; l'ultima parola della storia federale italiana affermava la futura federazione dei popoli liberi d'Europa.

Ma se Venezia resisteva condensando tutta la propria storia in un finale di tragedia alla Shakespeare, i ducati di Modena, Parma e Piacenza si lasciavano riconquistare dagli austriaci senza colpo ferire.

Sola la Toscana, sempre sospettosa degli aiuti tedeschi, invocava la Francia per guarentirsi l'autonomia nell'inevitabile reazione imposta dalla sconfitta nazionale.

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