Catastrofi costituzionali.

In tanto diroccamento di sogni e di fortezze l'idea nazionale e federale non si confessava vinta. A Torino il parlamento decreta la dittatura a Carlo Alberto, si muta ministero, si riprova l'armistizio punendone il generale Salasco: l'incomprensibile vergogna di centomila soldati guerreggianti senza una vittoria campale, respinti senza una sconfitta decisiva, e abbandonanti al nemico in pochi giorni una provincia grande quanto il regno del loro re, irrita tutti gli orgogli e confonde tutte le ragioni: si urla al disonore, si ridomanda la guerra. I lombardi traditi armeggiano con ogni possa per riaccenderla, fra i dispregi dei moderati che li accusano di compromettere il regno, e le invettive dei radicali che li tacciano di non comprendere la rivoluzione. La mediazione anglo-francese incoraggia le speranze, poichè l'Austria per cansare pericoli d'interventi militari simula consentire, procrastinando. A Genova una sommossa tenta proclamare la repubblica: Livorno impazzita s'insanguina nella guerra civile imprigionando e cacciando i propri governatori, finchè il governo del granduca con abbietta scempiaggine dichiara di troncare con essa ogni rapporto, e la denunzia all'Europa come un antro di assassini.

Tutti i governi sono fiacchi, ogni misura politica perde la giustezza dell'idea nell'impossibilità dell'applicazione. I parlamenti vaneggiano: quello di Napoli, conservato dal Borbone per squisito dispregio di desposta, avvalla nella più supina remissione, non rappresentando più nè il paese, nè il sovrano, nè la costituzione, nè l'Italia. A Roma i due Consigli non s'accorgono di essere appena un ingrandimento dell'antica Consulta, malgrado gli arbitrii quotidiani del pontefice che annullano simultaneamente Camera e ministero: il costituzionalismo, impossibile negli altri stati italiani per la perfidia delle corti, qui è assurdo per l'inconciliabilità dei due poteri. Si fa la guerra senza votarla, la si prosegue disdicendola, il ministero pretende esprimere la volontà del pontefice e ubbidisce a quella della piazza. Mamiani soccombe come filosofo, Pellegrino Rossi sarà ucciso come politico. Nel parlamento fiorentino il ministro Ridolfi si dichiara impotente a frenare le congiure austriache e gesuitiche, e confessa di non osare spingere il popolo alla guerra nazionale, per non assumere il carico di costringerlo a gravi sacrifici; Bettino Ricasoli e Gino Capponi si succedono indarno al ministero, fidando ingenuamente nel principe e più ingenuamente sperando arrestare la marea rivoluzionaria, che li rovescia incolpevoli e condannati. I fatti di Livorno impongono al granduca un ministero Guerrazzi-Montanelli, che pacifica la turbolenta città proclamandovi la Costituente italiana (18 ottobre). Contemporaneamente si raduna a Torino un congresso federativo presieduto da Gioberti piemontese, Mamiani romagnolo, Romeo calabrese; Rosmini ne tratta per incarico del Gioberti con Pellegrino Rossi a Roma. La lega non comprenderebbe che Piemonte, Toscana e Stato pontificio; Napoli vi si ricusa, quantunque il parlamento ne accarezzi l'idea e l'esponga in timido voto al sovrano; Sicilia, Venezia, Milano, i ducati vi sono ammissibili ma preteriti: senonchè le antiche gelosie dinastiche e le nuove antinomie politiche la rendono impossibile. La Costituente italiana proposta dal Montanelli sottometterebbe invece l'Italia ad una ricomposizione per arbitrio di popolo, che si organizzerebbe in singoli stati a seconda del proprio migliore interesse; ma, come pusillanime copia della grande costituente mazziniana, ne ha tutte le nobili difficoltà unitarie cogli inconciliabili egoismi della confederazione.

Il disastro militare del Piemonte, scemando ai popoli la credulità nei principi, attenua in questi la fede già scarsa nei destini della nazione. Tutti gli stati, preoccupati del proprio problema, dimenticano la nazione, e nullameno vaneggiano ancora di una lega italiana, che l'idea unitaria impone loro come un accordo superiore al conflitto degli interessi dinastici e dei principii politici. Così il futuro si afferma, contraddicendosi nel presente: i tre principii che formeranno l'Italia, unità, libertà e monarchia, si presentano sfigurati nel concetto della Dieta.

Il moto popolare, che aveva imposto le costituzioni ai principi ed accesa la guerra nazionale, era troppo profondamente rivoluzionario per acquetarsi nelle forme regionali e federali del passato: quindi i tentativi di conciliazione tra federazione ed unità, monarchia e libertà, teocrazia e democrazia, dovevano finire alla loro separazione attraverso l'assurdo delle più varie esperienze. Mentre la diplomazia europea sognava di costituire la nazione con una lega di principi, quella tedesca infatti, accettandone il concetto, si affrettava ad integrarlo con un arciducato austriaco del Lombardo-Veneto. Il papa a Roma, il Borbone a Napoli, un arciduca tedesco a Milano, Carlo Alberto a Torino, Leopoldo a Firenze, gli altri minori duchi nel resto, sarebbero stati l'Italia moderna senza unità, senza libertà, senza indipendenza, col popolo suddito e colla religione tiranna: la grande rivoluzione francese dell'89 non avrebbe perciò avuto efficacia sulla rivoluzione italiana. Ma la reazione monarchica doveva invece esagerarsi nei tradimenti, perchè tutte le forme politiche del passato apparissero egualmente inette per l'avvenire.

Prima a soccombere nella reazione fu la Sicilia della quale la rivoluzione separatista contrastava maggiormente all'inconscio moto unitario italiano. Se i suoi intrattabili odii medioevali di regione e di razza, insorgendo contro Napoli, avevano potuto profittare egoisticamente della rivoluzione nazionale senza pagarvi tributo nè di pensiero nè di sangue, Napoli doveva presto risoggiogarla, giacchè ad evitare tale rivincita, si sarebbe dovuto anzitutto creare la libertà d'Italia. Quindi nè italiana, nè democratica, la rivoluzione di Sicilia perdette fatalmente un tempo prezioso in ridicole discussioni ed in pratiche assurde colla stessa dinastia cui si era ribellata, per finire all'ultim'ora, quando la catastrofe s'aggravava sulla rivoluzione nazionale, ad offrire la corona al secondogenito di Carlo Alberto. Naturalmente il Borbone protestò: tutti gli altri principi, che denunciavano a mezza voce le ingordigie conquistatrici del Piemonte, lo spalleggiarono, i tremendi disastri della guerra tolsero a Carlo Alberto il coraggio di accettare per la propria casa un ingrandimento contrastato in Italia e non consentito dalla diplomazia europea. Così la Sicilia rimase senza regno e senza republica, male in armi e peggio in politica, contro Ferdinando invasato d'odio tirannico. Per colmo di sciagura l'antica rivalità di Palermo con Messina non permise a quella di sguernirsi per soccorrere questa esposta ai primi furori borbonici. Messina, come all'epoca gloriosa del Vespro, fu dunque prima alla battaglia (3 settembre). Nessuna legge di guerra, nessun diritto di civiltà, nessuna misericordia di religione vi fu osservata. La battaglia durò quattro giorni, la strage vi fu pari all'odio delle parti, ma la fiera città abbandonata vilmente dai palermitani dovette soccombere all'efferatezza dell'assalitore, che sollevò ad indignazione tutti i parlamenti d'Europa. Palermo, tardi ammaestrata dai casi di Messina, s'accinse alacremente alla difesa, condensando nel governo i propri uomini migliori. Cordova, La Farina, Amari profusero ingegno e fatica nell'insolubile problema; la mediazione anglo-francese da loro ottenuta rimase impotente contro la perversità borbonica; poi l'avvenimento di Luigi Bonaparte alla presidenza della republica francese secondò la politica reazionaria di re Ferdinando, che nell'ultimatum di Gaeta (28 febbraio 1849) promise all'isola un'amnistia generale e uno statuto sulla base della costituzione del '12. Ma questo non era che un agguato per soffocare la questione siciliana, nel quale le due potenze mediatrici caddero consciamente. Allora il popolo esasperato spinge il parlamento alla guerra malgrado ogni insufficienza di milizia e di denaro: Catania, Siracusa ed Augusta cadono in mano dei regii; l'ammiraglio francese Baudin, interponendosi un'ultima volta per evitare a Palermo l'estremo massacro, rimane egli stesso abbindolato dal generale Filangeri, che manca a tutti i patti concessi al governo palermitano, e il 26 aprile gli intima una resa a discrezione. Il governo già dimissionario si disperde, mentre il popolo insorge, respingendo per dodici giorni il nemico e soccombendo da ultimo a nuove proposte di accordo nuovamente violate.

La reazione monarchica aveva trionfato così della ribellione secessionista della Sicilia, mantenendola nell'orbita della futura unità italiana.

A Roma invece la reazione papale, cominciata con l'allocuzione del 29 aprile, determina nel disastro della guerra nazionale tradita dal pontefice l'esplosione democratica, che deve affermare la incompatibilità del papato colla rivoluzione italiana.

L'inevitabile discordia del papa coi ministri e l'assoluta incapacità politica dei partiti romani affaticati da un inconscio istinto di libertà impedivano all'improvvisato governo parlamentare ogni logico sviluppo. I costituzionali, incerti fra l'irrefrenabile autorità del papa sempre egualmente dimentico del proprio governo e la necessità per questo di precisarsi, non osavano nè appoggiare, nè rovesciare il Mamiani. Il quale, infervorato per amore di patria nel concetto di una lega italiana, seguitava nel sogno di un governo pontificio schiettamente costituzionale. Intanto l'opera dissolvente dei circoli radicali, aiutata dai volontari rincasati dopo la capitolazione del Durando a Vicenza, cresceva a Roma e nelle Provincie: un'anarchia di assassinii insanguinava molte città delle Romagne in quella rilassatezza di ordini fra il vecchio e il nuovo: il ringalluzzirsi del clero pel tradimento del pontefice alla guerra nazionale rinfocolava gli odii liberali spingendo a vendette di antiche ingiurie colla scusa di un offeso patriottismo. Si pensò quindi a Pellegrino Rossi, rimasto in Roma privato cittadino dopo la caduta di Luigi Filippo, come al solo che per energia di carattere e profonda conoscenza di regimi costituzionali potesse resistere al disordine della piazza, ravviando l'ordine politico ed amministrativo del governo. Ma una prima combinazione ministeriale gli fallì. Intanto il Lichtenstein, occupando Ferrara con grossa mano di austriaci, venne a compromettere la già scossa posizione dello stato. Il papa, disconoscendo ogni valore nel proprio governo, protestò a nome della Santa Sede. I Consigli così sprezzantemente preteriti, invece di contrapporsi al principe, gl'indirizzarono suppliche per scongiurarlo a difendere i confini dello stato; il ministero non sentì abbastanza la propria dignità per dimettersi: solamente il popolo, sollecitato dallo stesso Galletti ministro di polizia, si ammutinò in una delle solite dimostrazioni. Finalmente il Mamiani dovette ritirarsi e gli successe il Fabbri, vecchio impiegato di povero ingegno e d'incondizionata devozione al papa. Così la reazione cresceva nei ministeri, mentre il parlamento seguitava a dissertare come un'accademia o a supplicare come un coro interrotto da qualche grido plateale del principe di Canino e dello Sterbini, entrambi piuttosto retori che tribuni e rivoltosi che rivoluzionari. Ma se il Lichtenstein si era per ordine di Radetzky prontamente ritirato da Ferrara, il Welden, per ingiunzione segreta dello stesso maresciallo, che, respinto l'esercito piemontese, intendeva ad opprimere tutti gli altri governi italiani fingendo aiutarli contro le insubordinazioni dei patriotti e l'anarchia delle plebi, entrava nelle provincie dell'Emilia e s'accampava a Bologna. Lo seguiva, laidamente infame e feroce, certo Virginio Alpi faentino, a capo di bande sanfediste racimolate fra i peggiori malandrini di tutta Italia. Le provincie inermi o difese da pochi volontari, cui la capitolazione di Vicenza inibiva ogni ulteriore uso dell'armi, sbigottirono: prepotenze austriache, rappresaglie brigantesche funestarono città e villaggi, mentre il papa rinnovava le solite proteste deputando al Welden il cardinale Marini. Era l'antico immutabile sistema del papato di difendersi, invocando i fulmini del cielo e la protezione delle potenze cattoliche, reso ora più ridicolo dalla presenza di un governo parlamentare eletto dai cittadini e verso di loro responsabile come ogni altro governo. Quindi Bologna, esasperata dalle provocazioni delle soldatesche croate e disperata di aiuto dallo stato, insorge coraggiosamente, respingendo a furore di popolo il Welden ed inseguendolo lungi per la campagna: le vicine città romagnole, eccitate dal nobile esempio, si preparano in armi: si nominano commissioni provvisorie di guerra, giunte di sicurezza come nell'assenza del governo per combattere lo straniero invasore, intanto che a Roma i ministri puerilmente servili paragonano questa vittoria di popolo abbandonato alla magnanimità del pontefice intento alla difesa della patria comune, predicando la calma. Un solo ministro, il Campello, avrebbe voluto una dichiarazione di guerra, ma il papa lo dimise; il resto del ministero annuì.

Senonchè l'anarchia ministeriale e parlamentare, che lasciava il pontefice seguitare in un dispotismo anche più irresponsabile che pel passato, si ripercosse necessariamente a Bologna, dopo la generosa e fortunata sollevazione contro gli austriaci producendovi il più orribile disordine di plebe imbestialita a private vendette. Quindi la cosa procedette a tale che, se i carabinieri sdegnati dell'uccisione di un loro compagno non si fossero con rabbia maggiore scagliati sui malandrini, uccidendoli a fucilate per le strade, inseguendoli nelle case, imprigionando a caso, la ribalda insania non avrebbe avuto altro termine.

Questo ed alcune altre provvisioni stolide del ministro di polizia Accursi persuasero al ministro Fabbri di dimettersi e al papa di chiamare Pellegrino Rossi.

Share on Twitter Share on Facebook