Pellegrino Rossi.

Il papato doveva soccombere: l'ultima scena della sua secolare tragedia stava per cominciare.

Pellegrino Rossi nato a Carrara nel 1785, presto celebre professore a Bologna, favoreggiatore di Murat nel 1815 per speranza di idee italiane nel regno del magnifico venturiere francese, poi esiliato dalla reazione della Santa Alleanza e riparato a Ginevra, insigne ritrovo di tutti gli esuli insigni, vi crebbe tosto d'importanza e di dottrina. Ingegno vario e brillante, assimilatore nervoso per logica e simpatico per eleganza di metodo, in quel soffio di rivoluzione, che allora riscaldava tutti i grandi spiriti contro il nordico gelo, tenne cattedra libera di giurisprudenza, attirando curiosi e studiosi, sembrando rinnovare nella facile esposizione vecchie idee. Quindi dall'ardita ed insinuante natura tratto alla politica, ottenne la cittadinanza svizzera con tanto credito da essere chiamato nel ribollimento prodotto dalla rivoluzione del 1830 a compilare una costituzione, che si disse Patto Rossi, e, rigettata allora, rivisse in parte nello statuto del '48. Ma in essa il Rossi scoperse la natura secondaria del proprio ingegno, egualmente incapace di rivoluzione e di originalità. A rovescio dello spirito politico e civile del secolo tendente alla nazionalità, egli vi stette per l'unione contro l'unità, per la tradizione contro la rivoluzione, per la libertà degli ordini contro l'emancipazione dell'individuo. Così decaduto nella pubblica estimazione, dovette ricoverarsi in Francia, ove l'attendevano gloria e favori insperabili a uno straniero. Tosto eletto professore di diritto costituzionale, membro dell'Istituto, cittadino, pari, conte: bersagliato dall'opposizione, che in lui vituperava il rivoluzionario diventato cortigiano di un governo corrotto e corruttore, e lo scienziato sempre pronto a contraddire nell'esercizio della politica gli assiomi pomposamente proclamati dalla cattedra; inviso agli esuli italiani che lo giudicavano rinnegato della patria e della libertà; carbonaro e cospiratore in Italia, republicano in Svizzera, orleanista in Francia, dottrinario nella teorica, scettico nella pratica, senza coscienza di patria, caro a Luigi Filippo che lo deputò ambasciatore a Gregorio XVI e a Pio IX, rifulse nullameno nei circoli politici e filosofici d'allora per opera specialmente della stampa governativa. Ma tra i maggiori eclettici del tempo non fu grande nè per potenza di pensiero, nè per splendore di forma: nell'insegnamento del diritto costituzionale, assurda miscela di postulati storici e filosofici alla quale i governi parlamentari dovettero dar nome di scienza ed erigere cattedre, non sorpassò Beniamino Constant; nell'economia politica rimase fatalmente immobile nel dualismo della scienza pura e della scienza applicata entro la vasta orbita di Giambattista Say; nel diritto penale passò dal principio di Bentham a quello della giustizia assoluta, combattendo la scuola storica senza giovare alla scuola filosofica, cercando indarno la giustificazione della pena e l'ideale verità della giustizia sulle orme di Kant e di Cousin; meno acuto e più famoso di molti altri penalisti italiani contemporanei, dimenticato poco dopo nella gloria immortale del Carrara. Ma in tutte le sue opere, notevoli per vigore di metodo e nativa eleganza di esposizione, parve pregio massimo quella temperanza di principii e di conseguenze, che, accontentando i mediocri, sembra significare nell'autore una profonda conoscenza della materia e un instancabile equilibrio di forze, mentre non è troppo spesso che inettitudine del pensiero a creare e facilità artistica di traduzione.

Nella sua ultima deputazione a Pio IX tra il fervor dei lirismi politici sul papato, egli italiano ed insieme straniero, filosofo e giurista, professore di costituzioni e diplomatico del governo che pareva allora modello di sapienza pratica, capitò come un alleato naturale ed avventuroso del partito dei principi. La sua fama, il suo grado, le sue affinità con tutte le diplomazie europee, sorrisero all'immaginazione dei nuovi costituzionali ancora ignoranti al giuoco dei parlamenti. Lo si accolse come un maestro, lo si ascoltò come un oracolo, mentre le contumelie dei giornali rivoluzionari, che in lui cosmopolita senza coscienza nazionale non vedevano che un tristo accolito di Guizot e un peggior mezzano di Luigi Filippo, addensandosi intorno alla sua reputazione, le davano più vivo rilievo. Involontariamente Pellegrino Rossi divenne nello spirito pubblico il rivale di Giuseppe Mazzini. Entrambi erano cresciuti nell'esilio, celebri per scritti ammirati da amici e da nemici. L'uno rappresentava il vecchio spirito rivoluzionario del '21 e del '31 divenuto senno pratico, adattandosi ai fatti quotidiani e giovandosene nell'oblio dei principii, come un carbonarismo borghese ed autoritario mutato col trionfo degli Orléans in governo borghese a base industriale, timido nelle iniziative e temerario nelle repressioni, egualmente logico nell'abbandono dei primi principii e delle ultime conseguenze, unificando lo stato nel governo e il governo nella dinastia, considerando la nazione solo negli elettori e il potere solo negli eletti: tutta la libertà nella carta, tutta la giustizia nell'ordine, tutta la rivoluzione in concessioni di principi e in applausi di sudditi, l'Europa immutata ed immutabile. L'altro era la rivoluzione popolare e profetica, ancora solitaria nei migliori e nullameno divenuta presto universale nel loro apostolato, teatrale nell'eroismo e sublime nel martirio, internazionale nel sentimento e patriottica nel concetto: che voleva l'Italia una, libera e republicana, e non s'arrestava a statuti, non patteggiava collo straniero, non si accodava a re, non si illudeva coi preti, inflessibile per eccesso di logica ed inabile per troppa grandiosità di disegno.

Per Pellegrino Rossi l'Italia di Mazzini era un'utopia che impediva ogni progresso nella realtà, una demenza del pensiero, una perfidia della volontà: per Mazzini l'Italia di Pellegrino Rossi era una falsa apparenza, l'ombra di un fatto esaurito, attraverso la quale passavano già i raggi di un'idea novella. I suoi principi non credevano nemmeno agli statuti che largivano, non volevano la Dieta che mestavano, abborrivano dalla guerra che proclamavano: erano come fantasmi del passato, una suprema menzogna del presente. La loro ridda politica intorno al Vaticano somigliava alla Danza dei Morti di Goethe intorno ad un campanile nel piano fosco di un cimitero, aspettanti la grande parola del nuovo giorno per inabissarsi nell'ombra.

La nomina del Rossi al ministero, nel quale il vecchio cardinale Soglia conservava apparentemente la presidenza, parve a tutti una provocazione. Il gabinetto francese ne mosse vive rimostranze come di sfregio fatto alla repubblica coll'elevazione di un orleanista; i rivoluzionari fiutarono il nemico; i Consigli sentirono il padrone ed abbassarono al solito la testa; i sanfedisti recalcitrarono, riconoscendo nel forte parlamentare l'invincibile proposito di governare costituzionalmente; i preti si scandolezzarono a questo secondo avvento di un filosofista niente più ortodosso del Mamiani; Pio IX solo calmò la propria incertezza dietro il coraggio del ministro, che aveva affermato pubblicamente sino dalla prima ora: «Non si abbatterà l'autorità del papa, se non passando sul mio corpo». L'infelice credeva ancora che un individuo potesse mutarsi in sbarra contro la storia.

I primi atti del ministero furono di guerra: frenò, vessò, espulse i democratici sospetti di rivoluzione; per ristorare le finanze tassò il clero, inimicandoselo; avversò energicamente il Piemonte, compiacendosi ai disastri militari che tarpavano opportunamente l'ali ai suoi sogni di conquista. Quindi, nè unitario nè federalista, vide con occhio sicuro l'impossibile ipocrisia della lega e l'impotente rettorica della rivoluzione; ma troppo saturo di cartismo e fidando nella bonarietà del pontefice, credette nullameno di poter fondare a Roma un vero governo parlamentare. Roma costituzionale avrebbe così preso la testa del movimento italiano, e l'Italia avrebbe potuto risorgere dopo di essersi irrobustita in lunga e ordinata educazione liberale.

Egli, come massimo ed unico ministro, doveva quindi governare personalmente in quei primi giorni costituzionali: così incorporò al proprio ministero dell'interno quello di polizia, per meglio valersi dei mezzi repressivi e cacciare il Galletti ligio ai rivoluzionari; promosse lavori pubblici, strade ferrate e telegrafi, scuole d'economia politica e di diritto commerciale. La coscienza della propria superiorità, e quella fremente alterigia che si compiace dell'odio popolare quasi ritrovandovi una prova del merito, gli tolsero di valutare esattamente l'opposizione ingrossante di giorno in giorno. Nelle inevitabili trattative per la costituente proposta dal Montanelli scoperse con brutale franchezza i disegni voraci del Piemonte, e, mentre questo instava per una lega militare secondo le terribili urgenze del momento, ma nella quale avrebbe naturalmente avuto il sopravvento, egli propose una inutile lega di principi senza alcun accenno nè alla nazione nè all'indipendenza. Ciò disperse quel falso sogno di una dieta italiana, ed isolò il Piemonte. Intanto, proseguendo nella riforma militare e giudiziaria per organizzare modernamente lo stato, vi accresceva il mal animo collo spostamento degli interessi e le lesioni ai troppi diritti acquisiti: gli ordini dati al Zucchi, ministro della guerra, per impedire a Giuseppe Garibaldi, approdato in Toscana e quivi accolto freddamente dal Guerrazzi, il transito per la Romagna colla sua eroica legione di Montevideo diretta a Venezia, offesero vivamente il sentimento nazionale. A Bologna il popolo ammutinato impose al generale degli svizzeri Latour di lasciar libero il passo a Garibaldi: questi, giungendovi, suscita l'entusiasmo di tutti; Angelo Masina bolognese lo segue, improvvisando a proprie spese un grosso squadrone di cavalleria. Ma Zucchi, già salvato da Garibaldi a Como ed infellonito pel recente smacco, non potendo imprigionare il proprio salvatore, come Rossi avrebbe voluto, incarcera il padre Gavazzi, barnabita divenuto celebre predicando la crociata contro gli austriaci su per le piazze. I liberali urlano, il congresso federativo di Torino dichiara la caduta di Rossi necessaria all'attuazione delle speranze italiche, la reazione ministeriale costretta ad esagerarsi per resistere all'esaltamento degli animi peggiora le proprie misure. Tutto diventa provocazione: una truppa di carabinieri, chiamata a Roma e fatta passeggiare spavaldamente pel Corso, pare una sfida: si mormorano minaccie contro i Consigli, si sussurra di costituente, si denuncia l'ostinato ministro alla pubblica esecrazione.

E nessuno lo sostiene.

Il clero gli è avverso per le tasse e per quel fermo proposito di stabilire un vero governo costituzionale, i federalisti lo osteggiano come unico nemico della Dieta italiana, la diplomazia degli altri principi lo abbandona, le popolazioni inerti, papaline o rivoluzionarie, guardano di mal occhio questo straniero che tutti condannano. La reazione ha già trionfato di Napoli e della Sicilia; la Lombardia è ricaduta nella servitù tedesca. Venezia già cinta d'assedio, il Piemonte cogli austriaci vincitori al confine, la Toscana imbrogliata nella rettorica armeggia contro al proprio principe e non s'accorge che Radetzky sta per rioccuparla come un feudo imperiale. Il papa, rimasto solo all'esperimento costituzionale e atterrito dall'anarchia di Roma, si prepara ad accettare l'intervento tedesco, dianzi respinto, per ristabilirsi signore assoluto e tornare in quiete. La rivoluzione precipita verso la catastrofe; il quarantotto è stato inutile. Il Piemonte ha fallito, Napoli tradito, Milano votata un'annessione vana, Venezia gridato, negato, riaffermato la propria republica senza fede in essa e senza speranza; la Toscana ha oscillato senza muoversi; nessuna idea si è ancora affermata. Il papato, nel nome del quale cominciò la rivoluzione e per opera del quale fu arrestata nel momento della vittoria, come disse la prima parola della rivoluzione, così deve esserne l'ultima: bisogna che la rivoluzione lo distrugga per affermare la propria idea. Senza l'abolizione del potere temporale e senza la repubblica a Roma, la rivoluzione del quarantotto non è che una inutile ripetizione di quelle del '21 e '31: mancherebbe il progresso alla vita, la logica alla storia. L'ostacolo più antico ed universale alla costituzione della nazionalità italiana fu ed è il papato: la rivoluzione non può essere tale che sopprimendolo come già fece la francese dell'89, ma quella procedendo per conquista rovesciava, non abrogava. L'Italia che lo ha creato, può sola annullarlo. L'unità, l'indipendenza e la libertà della nazione derivano da Roma italiana: Roma pontificia è l'Italia federale diffranta in minimi stati, serva dello straniero, senza individualità nella vita e senza personalità nella storia.

Il papato, dando la spinta alla rivoluzione, ha tentato l'ultimo esperimento per rinnovarsi: ma la guerra nazionale gli è rimasta estranea, lo statuto lo soffoca, l'idea moderna democratica lo trascende.

Pellegrino Rossi è la reazione con tutto l'orpello e il panneggiamento delle false franchigie costituzionali, coll'assurdo della sovranità popolare e papale, coll'antagonismo dello stato pontificio con tutti gli altri e colla nazione: è la reazione senza alcun principio politico, senza fede in se medesima, senz'accordo con nessuna classe o ordine, incompresa ed incomprensibile.

Quindi Pellegrino Rossi diventa il centro di tutti gli odii; la sua condanna esce dalla fatalità storica come un epilogo. Un superbo accecamento lo rende più intrattabilmente dominatore negli ultimi giorni: invano lettere anonime lo avvisano e pochi amici lo consigliano ancora. Egli non crede al proprio assassinio, giacchè non può intenderne la ragione storica. Infatti la sua reazione nell'apparenza è quasi insignificante, paragonata a quella di Ferdinando Borbone; la sua sincerità parlamentare è indiscutibile, la sua illusione quella stessa di tutti i politici di allora: l'allocuzione del 29 aprile non venne da lui inspirata, Garibaldi fu peggio trattato a Milano che a Bologna, il tradimento del papa ricusantesi alla guerra nazionale non è nulla al confronto dell'abbandono di Milano e della consegna di Venezia tentata da Carlo Alberto. Nullameno l'odio rivoluzionario s'addensa su Pellegrino Rossi, lo esecra come un tiranno, lo insulta come un carnefice. Nessuno sospetta ancora la profonda ragione di così unanime sentimento nella necessità di salvare la rivoluzione, proclamando la repubblica a Roma.

Il 15 novembre Pellegrino Rossi, mentre sale lo scalone della cancelleria, ove è adunato il parlamento, solo col Righetti fra una folla minacciosa, è colpito da una pugnalata alla carotide. La guardia nazionale ha assistito impassibile all'assassinio, il popolo urla di feroce entusiasmo, il presidente Sturbinetti con affettato stoicismo ordina prosegua la seduta, ma i deputati si sbandano sotto l'incubo di un terrore misterioso, intanto che la notizia si sparge per tutta Italia con miracolosa rapidità. A quei giorni furono similmente uccisi il ministro Latour a Vienna, il Lamberg in Ungheria, il Lichnowski a Francoforte senza che la loro morte provocasse emozione di sorta: ma quella di Pellegrino Rossi sconvolse tutte le coscienze. Qualche gran cosa era con lui crollata: a distanza di diciotto secoli il pugnale, che aveva colpito Cesare per trafiggere invano l'impero, scannava Rossi uccidendo il papato. La morte del dittatore non potè salvare l'antica republica: quella del ministro permise alla nuova di nascere.

Federazione di principi e primato pontificio, rinnovamento religioso e autonomie regionali, tutte le tradizioni e le aberrazioni del quarantotto, svanivano con Pellegrino Rossi. Qualche gran cosa era crollata con lui, la Roma papale più vasta della Roma cesarea, città di Dio che, fabbricata colle rovine dell'impero romano, aveva contenuto tutto il medioevo e dominato il rinascimento, slargandosi colle scoperte successive di due mondi, soccombendo alla rivoluzione francese, ma per rialzarsi dopo di essa, quasi maggiore di essa. Qualche gran cosa era cominciata colla sua morte, la Roma italiana, l'epoca delle nazionalità, l'èra universale della libertà, la repubblica del pensiero, la cattolicità della scienza.

Al Quirinale, nelle anticamere del papa, si rinnova il terrore che alle notizie delle prime invasioni barbariche agghiacciava le sale dei Cesari: si dànno ordini di repressione ai gendarmi che non osano eseguirli; i ministri balbettano, i deputati si disperdono, i cortigiani sono già dispersi. Giù nella piazza un'orgia brutale dà all'assassinio una truce mirifica apparenza di festa. L'indomani si pensa a provvedere un nuovo ministero, non sapendo e peggio non potendo sapere chi porvi, mentre i rivoluzionari, concertandosi rapidamente, sollevano in massa il popolo e lo spingono al Quirinale per chiedere una costituente italiana e un ministero democratico con Saliceti, Campello e Sterbini. Galletti è deputato oratore del popolo al papa. Questi tenta resistere, sperando ancora nella propria autorità, che la sommossa medesima sembra riconoscere; ma il popolo infuria. Volontarii reduci da Vicenza, guardie civiche e carabinieri corrono all'armi, si assedia il Quirinale: gli svizzeri resistono, la mischia s'accende, un monsignore è ucciso, s'incendia una porta del palazzo, un cannone trascinato in piazza sta per rovesciare l'altra, finchè Pio IX, vinto dal terrore, dichiara ai diplomatici di non cedere che alla violenza, ed inganna il popolo colla composizione di un nuovo ministero. Il principe non ha saputo resistere, il pontefice non ha voluto sacrificarsi: eroismo e martirio non sono più pel papato.

Allora il trambusto diventa inintelligibile. Marco Minghetti alla testa del gruppo bolognese si dimette da deputato per non venir meno alla devozione verso il sovrano; il ministero non osa condannare pubblicamente l'assassinio di Rossi, che rimane e rimase poi misterioso, palleggiato con reciproca accusa da gesuiti a mazziniani, sconfessato con unanime orrore da tutti i partiti. I circoli fanno proclami e decreti: un'aurora boreale getta sul tumulto una luce sanguigna di tragedia, atterrendo tutte le superstiziose fantasie; quindi il papa, sentendosi straniero nella propria capitale, fugge insospettato e travestito a Gaeta.

Lo statuto era stato una resa, la fuga diventò un'abdicazione.

La lettera lasciata dal papa al marchese Sacchetti non raccomandava che di salvaguardare i palazzi apostolici: volgarità di padrone di casa, che nel supremo disastro di un regno millenario e in una terribile rivoluzione della patria non pensa che ai propri mobili! Nullameno il nuovo ministero, nel quale dominava il tribuno Sterbini, rimaneva nella propria dignità poco più alto del papa, giacchè, invece di profittare di quella fuga per dichiarare abrogato per sempre il potere temporale, lamentava invece che Pio IX fosse fuggito, cedendo ad infami consigli, ed invitava patriotticamente i cittadini alla calma. Il circolo popolare con arbitrio rivoluzionario e con pusillanime ipocrisia dichiarava legittima l'autorità del ministero, non perchè riconosciuta dal popolo ma come riconfermata dal papa in una frase ambigua della sua lettera al Sacchetti. Il popolo della capitale e delle provincie rimaneva sospeso in tale incertezza di governo, ascoltando le esortazioni dei due Consigli, che gli predicavano la temperanza virile: Mamiani ricondotto dal pericolo dello stato al ministero riusciva a scartare la proposta del principe di Canino invocante la costituente.

Ma intanto che ministero e parlamento armeggiavano infelicemente per mantenere l'accordo col pontefice fuggito, vietando a Garibaldi di avvicinarsi a Roma colla sua legione ed ammansando il popolo coll'ordinare grossi lavori pubblici, Pio IX promulgava un breve da Gaeta, quasi a risposta pei circoli che domandavano la costituente, nel quale, protestando contro le necessità della propria fuga, dichiarava nulli tutti gli ultimi atti del governo e lo sostituiva con una commissione di monsignori e di aristocratici. Però non uno di essi ardì accettare il difficile ufficio.

Alla violenta smentita del pontefice, ministero e parlamento risposero con instancabile servilità arzigogolando curialescamente che la protesta papale, datata dall'estero e senza firma di ministro responsabile, non poteva credersi autentica, e deputando oratori a Gaeta per convincere Pio IX a ritornare in Roma. Naturalmente le deputazioni non vennero ricevute al confine napoletano: invece Cavaignac, dispotico presidente della repubblica francese, dopo le giornate di giugno, annunciò l'invio di tre fregate francesi nel porto di Civitavecchia per assicurare il pontefice. Il governo provvisorio, protestando contro questa minaccia, adoperò per supremo argomento non avere Pio IX nell'immacolata grandezza dell'animo proprio invocato contro la patria intervento armato straniero e non essere mai per invocarlo; ma poco dopo il pontefice, rifiutando ogni componimento, mandava invece da Gaeta un appello a tutte le potenze cattoliche per farsi rimettere in trono.

I costituzionali di Roma, troppo simili ai moderati milanesi delle cinque giornate, per orrore dell'imminente rivoluzione, non volevano a nessun costo recedere dalle speranze di rappattumamento con Gaeta, e nominavano un'altra commissione di governo con questo precipuo incarico. Mentre nel popolo cresceva il fermento rivoluzionario, nei governanti si cristallizzava rapidamente la fede nel costituzionalismo del pontefice, malgrado la sua fuga e le violenti proteste. I circoli fremevano; i ricchi clericali fuggivano come sotto la tempesta; una incomprensibile incertezza sconvolgeva tutti gli spiriti. Era impossibile non precipitare a governo radicalmente democratico, e nullameno non se ne aveva il coraggio. Scarso nelle masse il sentimento liberale; quasi nullo il repubblicano; pochi ma unanimi, i forestieri italiani attirati in Roma dall'istinto storico del grande avvenimento mestavano dovunque, arringando ed oprando, persuadendo e minacciando; solo il principe di Canino per vanità tribunizia parlava alto di costituente; solo il Mamiani, antecessore e successore del Rossi, resisteva apertamente, domandando l'espulsione come per stranieri di De Boni, di Ciceruacchio e di Maestri, energici capi-parte repubblicani, e proponendo la convocazione di un'assemblea italiana per compilare il patto federale di tutti i singoli stati.

Un'onda di piazza superò quest'ultima trincea di costituzionali, travolgendo il ministero. Quindi il 20 dicembre 1848 la Giunta suprema di stato proclamò la Costituente Romana, sottomettendone immediatamente la legge ai Consigli, che non osarono nè accettarla nè respingerla: la legge importava che l'assemblea rappresentasse con pieni poteri lo stato romano e vi desse compiuto, regolare e stabile ordinamento; che le elezioni si facessero per suffragio universale diretto: elettori tutti i cittadini di ventun anni, eleggibili tutti gli altri di venticinque, duecento i deputati.

Questo schema arditamente democratico cadde come una bomba sul timido parlamento già tanto assottigliato dalle renunzie dei più timidi deputati, onde la Giunta ne chiuse la sessione, ordinando la convocazione della Costituente per decreto.

Ma neanche questo decreto schiettamente rivoluzionario bastò a guarire il governo provvisorio presieduto da monsignor Muzzarelli dalle equivoche speranze di un componimento col papa: le pratiche diplomatiche proseguirono con Gaeta, mentre con arbitrio assennato ed intrepido si affrettavano le abolizioni dei fedecommessi e delle disposizioni fiduciarie, si riformava la procedura civile, si regolava la navigazione dei fiumi e delle coste marittime, si sopprimeva la tassa del macinato e finalmente, quasi ad accenno di regime giacobino, s'instituiva una commissione militare senz'appello pei delitti contro l'ordine pubblico. Solo all'esercito, che avrebbe dovuto essere la prima cura in quella difficile ora di guerra coll'Austria vittoriosa ed invadente, non si pensava affatto: appena appena s'inscrissero 1330 reclute. Al decreto invocante la Costituente le provincie si scossero e tutti i legati ecclesiastici o laici vi si dimisero: i costituzionali si ritirarono sdegnosi, i rivoluzionari si levarono, i sanfedisti occulti spiarono con perfida attesa la catastrofe.

La Corte pontificia di Gaeta sembrò disinteressarsi da ogni questione, abbandonando il partito costituzionale e scagliando la scomunica contro elettori ed eletti, mentre a Roma un gretto municipalismo aiutato dallo Sterbini mirava inutilmente a contrastare l'espansione e il significato della proclamata costituente. Infatti il suo carattere era al tempo stesso giobertiano e montanelliano, giacchè alcuni deputati dovevano sedervi come nazionali ed altri come romani, questi costituire un governo nell'antico stato pontificio, quelli combinare un assetto federale italiano. La fisima della dieta come carattere essenziale nella rivoluzione vi persisteva, ma l'inconscio sentimento unitario di Roma capitale d'Italia ne santificava l'assurda momentanea impossibilità. Se l'accordo federale non era riuscito tra i principi, fra questi e le repubbliche e coll'Europa già disposta a ricondurre sul trono il pontefice diventava addirittura paradossale: nullameno le pratiche seguivano attivamente, contrastandosi nelle intenzioni e nei disegni del Gioberti e del Montanelli.

A Gaeta invece s'arrabattava il lavoro delle diplomazie: il Borbone badava abilmente a conservare il papa, traendo dalla sua ospitalità una specie di assolutoria alle infamie commesse; il Piemonte offriva Nizza e la propria mediazione per riconciliarlo con Roma; Cavaignac, per amicarsi il partito cattolico francese nell'imminente elezione presidenziale, moltiplicava le promesse, invitando Pio IX in Francia; la Spagna gli aveva già esibito le isole Baleari e tutta se stessa. Poi il Piemonte, trascinato dall'inesorabile duplicità del proprio giuoco, domandava al papa di presidiare Roma in nome suo con truppe sarde, stipulando simultaneamente col governo provvisorio di potere militarmente occupare le provincie romane per le necessità dell'imminente seconda guerra coll'Austria, e più tardi, pregato d'alleanza da questo, la negava per riguardo al pontefice; finalmente, ributtato dalla diplomazia papale, dichiarava caso di guerra il minacciato intervento spagnolo in favore del papa. Ultima la Prussia proponeva come accordo fra l'Austria e la Francia, che quella occupasse il nord e questa il sud dello stato pontificio.

Fra questa temperie si tennero le elezioni e il giorno 5 febbraio 1849 s'adunò nel palazzo della Cancelleria la Costituente.

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