Infatti l'imperatore mandò spontaneamente al conte di Cavour le due ultime lettere di Orsini perchè le stampasse nella Gazzetta Ufficiale: poco dopo gli fece rimettere da uno dei propri diplomatici più familiari un'altra lettera con un disegno d'alleanza e una proposta di matrimonio fra il principe Girolamo Napoleone e una figlia di Vittorio Emanuele. Costantino Nigra fu il primo inviato del conte di Cavour a Parigi per studiare il terreno; il dottor Conneau si mutò in agente diplomatico per recare al conte di Cavour l'invito al convegno di Plombières nei Vosgi, ove si gettarono le vere basi dell'alleanza: il trattato si strinse quattro mesi dopo. Per esso l'imperatore s'impegnava a condurre in Italia duecentomila soldati contro l'Austria; suo sarebbe il comando superiore delle schiere alleate; a guerra vinta il Piemonte si aggregherebbe il Lombardo-Veneto, i Ducati, le Legazioni e le Marche; il Piemonte cedeva fin d'ora la Savoia e s'impegnava moralmente a cedere Nizza. Era fatalmente un disegno federativo; nè l'imperatore, nè il conte di Cavour potevano andare oltre. Quegli anzi, nascondendo la parte maggiore del proprio pensiero politico, intendeva a fondare un secondo regno d'Etruria per mezzo delle velleità autonomistiche dei federali toscani guidati dal Salvagnoli e dal Montanelli, aggregandovi i Ducati e molta porzione dello stato pontificio; a Napoli possibilmente si sarebbe installato Luciano Murat. Ma l'imperatore e il conte di Cavour tentavano reciprocamente d'impaniarsi in questa trama. D'unità d'Italia sarebbe stato assurdo parlare, giacchè l'impero non aveva altra base morale che il clero, e non poteva togliere Roma al papa; la Russia proteggeva per tradizione i Borboni; una vera rivoluzione era impossibile in Italia ed inaccettabile alle diplomazie. Anzi l'avversione al partito rivoluzionario era tale che nella convenzione militare susseguita al trattato politico fra il generale Niel e il generale Lamarmora si sarebbe escluso ogni concorso di volontari, se il conte di Cavour con sapiente patriottismo non si fosse ostinato a volerlo. Solo le milizie volontarie potevano dare alla guerra franco-sarda guidata dall'imperatore il carattere d'una impresa nazionale, creando probabilmente ostacoli ai segreti disegni di nuovi stati bonapartisti.
Nei prodromi della nuova rivoluzione sembrava dominare ancora il principio federalista. Utopie diplomatiche e partigiane vi si imbrogliavano: dopo il matrimonio del principe Girolamo colla principessa Clotilde di Savoia il concetto d'un regno d'Etruria per essi si popolarizzò; a Parigi Laguerronière, letterato cortigiano, stampò un opuscolo enigmatico inspirato da Napoleone, nel quale si trattava d'una confederazione italiana fuori d'ogni dominio straniero, sul tipo di quella presentata dal Gioberti con la presidenza del papa, e intesa precipuamente a rattenere la rivoluzione. Poichè l'Inghilterra sarebbe ostile ad un altro regno bonapartista nel sud, si pensava di lasciarvi ad essa la scelta del nuovo re; nessuno all'infuori di Mazzini osava reclamare Roma. Il conte di Cavour, per resistere a questa eccessiva dilatazione bonapartista, non aveva di primo tempo trovato altro espediente che il maritare la principessa Clotilde al principe Leopoldo Hohenzollern, nato di Stefania Beauharnais «onde farne un re dell'Italia centrale, ove i Lorenesi si mantenessero ligi all'Austria».
Intanto si disponevano gli approcci.
A Varsavia fu mandato il principe Girolamo per spingere la Russia a guerra coll'Austria, lasciandola libera di padroneggiare il moto delle genti slave, mentre la Francia dominerebbe quello delle schiatte latine: ed era ancora il vecchio sogno di Napoleone I. Ma la Russia declinò l'invito per dichiararsi neutrale ed imporre la conservazione a Napoli dei Borboni; la Prussia non volle staccarsi dall'Austria e propose di provvedere alle cose d'Italia per comuni accordi pacifici; nell'Inghilterra l'opinione liberale del pubblico frenava a stento il mal volere del recente gabinetto tory.
Poichè Napoleone si era riserbato di scegliere il modo ed il momento d'una rottura coll'Austria, il conte di Cavour badava alacremente a crescere in Italia il fermento rivoluzionario, però dominandolo. In questo gli fu di largo giovamento la Società Nazionale del La Farina, che riassumendo il proprio programma politico nel motto: «Indipendenza, Unità e Casa Savoia», preparava possibili accordi per altri disegni durante o dopo la guerra. Nello scadimento del partito mazziniano la sua opera divenne improvvisamente più franca e feconda: Giuseppe Garibaldi entrò nel suo comitato centrale a Torino, altri comitati raggrupparono i migliori patrioti nelle provincie suscitandovi una disciplinata agitazione unitaria, mentre il conte di Cavour si riserbava il diritto di poterla in caso di pericolo rinnegare in parlamento. In un manifesto del 14 dicembre 1858 la Società Nazionale chiese all'Italia la dittatura di Vittorio Emanuele durante la guerra, affermando che la sollevazione italiana non implicherebbe nessuna questione di libertà e di ordinamento sociale atta a spaurire i governi: abile mossa, che abituava all'unificazione morale. L'idea piemontese giganteggiava: le acclamazioni a Vittorio Emanuele prorompevano da tutte le piazze; nessuna critica poteva turbare la nuova fede, le speranze deliravano.
Si dimenticava l'umiliazione di sorgere dietro un'iniziativa francese; l'unità d'Italia, alla quale tutti aspiravano, era momentaneamente negletta per concentrare ogni sforzo all'espulsione dell'Austria. Il mirabile fenomeno politico di questo vasto moto nazionale, che s'indigava volontariamente entro le linee ancora incerte di un disegno di Napoleone III riveduto da Cavour, tradiva, attraverso l'incredibile docilità d'una disciplina improvvisata, la fiacchezza della coscienza nazionale e dell'idea rivoluzionaria: la nuova passione di guerra piuttosto che ira di schiavi appariva bramosia di liberti. L'adesione alla monarchia di Savoia era sudditanza, quella all'impero francese sommissione. I superstiti mazziniani avvampavano di sdegno; l'intera massa dei patrioti abbandonava invece ogni ideale per il possibile, preparando nella aspettazione dell'iniziativa franco-sarda nuove virtù di guerra e di concordia, senza chiedersi come l'Italia sarebbe all'indomani di un trionfo o di un abbandono francese.
Cavour, aggiungendo disegno a disegno, complicazione a complicazione, aveva sollecitato indarno l'alleanza dei Borboni e dei Lorenesi contro l'Austria.
Il discorso di Vittorio Emanuele all'apertura del parlamento (10 gennaio 1859) affermava che il re, malgrado il rispetto ai trattati, non poteva essere insensibile al grido di dolore che s'alzava verso di lui da tante parti d'Italia; e parve un grido di guerra. L'Austria, cullatasi fino allora nel dispregio del piccolo nemico e nell'orgoglio della propria posizione tanto migliore di quella di Francia, si riscosse: le diplomazie s'impensierirono; l'Italia si esaltò.
Sir James Hudson con motto profondo disse: «È la folgore che cade sui trattati del 1815». Infatti il moderno diritto di nazionalità doveva ottenere dalla rivoluzione italiana la sua prima grande consacrazione.
Il risveglio dell'Austria precipitò gli armamenti e complicò l'opera delle diplomazie. Nel Lombardo-Veneto ricominciarono i rigori: corpi d'esercito s'ammassarono di giorno in giorno alla frontiera, mentre la gioventù patriottica guadava a torme il Ticino per arruolarsi nell'esercito sardo. Cavour aveva richiamato Garibaldi per commettergli la costituzione d'un corpo di volontari; così lo avrebbe avuto nella guerra alleato ed ostaggio.
Ma la politica sempre più ambigua dell'imperatore, arbitro della situazione, gettava il Piemonte nelle più umilianti perplessità. Da Londra il gabinetto tory di lord Malmesbury lo ammoniva, quasi minacciando, di guardarsi da ogni provocazione all'Austria; a Napoleone invece mostrava lo spettro rosso della demagogia pronto a ricomparire fra le imprevedibili difficoltà d'una guerra; quindi a Vienna ingrossava la voce perchè l'Austria rinunziasse all'intervento nello stato pontificio e spingesse i principi sulla via delle riforme.
Di rimpatto Napoleone prometteva all'Inghilterra di non soccorrere il Piemonte, se questo fosse primo alla guerra.
Si parlò d'un congresso per la pace: la proposta venne da Pietroburgo; Napoleone parve accettarla. Ma la questione peggiorò; l'Austria, che si ricusava superbamente alle esortazioni pacifiche dell'Inghilterra, aderendo all'idea del congresso, ne volle escluso il Piemonte come incapace di rappresentare l'Italia, della quale gli altri principi, per suggestione della cancelleria viennese, non v'interverrebbero. Ma le potenze, dopo aver accolto il Piemonte al congresso per la pace di Crimea, non potevano eliminarlo da quest'altro per la pacificazione d'Italia: allora l'Austria pretese che il Piemonte disarmasse e, poichè anche questo non le fu concesso, propose un disarmo simultaneo. Bisognava cedere; Cavour abilmente volle però sottrarre al disarmo le milizie volontarie, affermandosi pronto a raccoglierle sotto le Alpi e a licenziarle quando le potenze si fossero accordate sullo scioglimento della questione italiana. Così l'idea nazionale, incarnata nelle milizie volontarie, sovrastava alla stessa alleanza franco-sarda. L'Austria rifiutò questa condizione, ed impose bruscamente il disarmo.
La crisi diplomatica fu lunga e dolorosa. Napoleone sempre oscillante di spirito, non osava risolvere: per un momento impose a Cavour di cedere a tutte le pretese austriache, questi gli rispose con parole d'obbedienza: tutto sembrava perduto. Forse la situazione politica costringeva l'imperatore a questa alternativa di spinte e di controspinte al Piemonte, per lasciare all'Austria la responsabilità dell'attacco e preparare in Francia la publica opinione alla guerra. Infatti la Francia non vi pareva ben disposta. Il partito clericale temeva di Roma, malgrado le publiche assicurazioni che l'imperatore aveva fatto dare a Pio IX dal generale Goyon; il partito conservatore abborriva da una guerra fatalmente rivoluzionaria nell'idea e nei risultati; il partito d'opposizione la qualificava d'avventura dinastica, giacchè modi e concetti rivoluzionari ne erano negati clamorosamente anche dal conte di Cavour.
La burbanzosa bruscherìa dell'Austria nel concedere tre soli giorni al Piemonte per la risposta sul disarmo troncò ogni difficoltà. Coll'assalire per la prima, essa violava i trattati del 1815, e la guerra rivoluzionaria dell'alleanza franco-sarda si mutava diplomaticamente in una guerra di difesa.
Intanto il conte di Cavour, spingendo vivamente i preparativi di guerra, otteneva dal parlamento poteri straordinari di governo: per contrastare alle mene bonapartiste in Firenze e in Napoli, allargava il moto rivoluzionario; accusava i mazziniani intransigenti di fare le parti dell'Austria; aveva nominato Enrico Cialdini comandante supremo del corpo di volontari costituito da Garibaldi. Questi doveva rimanere subalterno attirando la gioventù colla gloria del proprio nome, ma non guidarla alla vittoria: Lamarmora ministro della guerra negò con tanta ostinazione di riconoscere i gradi agli ufficiali garibaldini che i loro brevetti dovettero essere firmati dal ministro dell'interno. Poi i volontari furono male armati, frazionati, sospettosamente sorvegliati.
L'effervescenza degli animi cresceva d'ora in ora; la gioventù scaldavasi a questi primi clamori di guerra; solo i mazziniani resistevano nel nome dell'unità nazionale negata dal trattato franco-sardo e della democrazia compromessa dai momentanei dispotismi regii ed imperiali. Da Londra emanarono una protesta di astensione dalla guerra, cui fallirono poco dopo generosamente accorrendo da ogni parte sotto le bandiere.
Il Piemonte esausto faceva gli ultimi sforzi, ma sottomesso fatalmente alla Francia. Quindi l'incendio rivoluzionario, che avrebbe dovuto avvampare per tutte le città d'Italia come nel 1848, non scoppiava: i volontari corsi in Piemonte non superavano i trentamila; le Provincie libere non si ribellavano, quantunque sicure che l'Austria impegnata in tanta guerra non avrebbe potuto invaderle per sostenere i principi alleati. E questi avevano milizie troppo scarse e fiacche per resistere ad una vera insurrezione popolare.
L'Austria accennava già a ritirare le truppe da tutti i luoghi occupati per concentrarle nel teatro della guerra: le ammonizioni di Cavour sconsiglianti da iniziative popolari non sarebbero bastate ad impedirle, se più intensa fosse stata nella nazione la coscienza di patria e maggiore l'energia del carattere. I patrioti abitatori delle Provincie negli ultimi dieci anni erano tutti in Piemonte, onde lo spirito delle masse non mai da tormenti di tirannide spinte alla disperazione della rivolta, si effondeva ora nei vanti delle future vittorie francesi: mentre ai tirannelli abbandonati dall'Austria non restava più nemmeno il coraggio di sostenere con essa una guerra decisiva per la loro esistenza.
Solo la Toscana e le provincie limitrofe di Massa e Carrara, troppo straziate dal duca di Modena, tumultuarono all'annunzio della dichiarazione di guerra. Il granduca Leopoldo non osò resistere; il principe Carlo suo secondogenito non seppe farsi ubbidire dagli artiglieri, ordinando loro di bombardare Firenze dal forte di Belvedere: quindi il tumulto si sciolse in chiasso pacifico, e il popolo con berta ancora rispettosa augurò il buon viaggio al granduca fuggente.
I governi provvisorii di Firenze e di Massa e Carrara offersero la dittatura a Vittorio Emanuele; ma questi sottoposto alla volontà dell'imperatore, non osò accettare, malgrado la dittatura conferitagli dalla Società nazionale e dal parlamento.
Così cominciava la nuova rivoluzione unitaria.