Le condizioni della politica generale italiana al finire dell'anno 1857 non avevano mutato.
Se la diffusione sempre più rapida delle idee liberali accresceva il fermento dell'insubordinazione contro i governi reazionari, non bastava ancora a schiarire nella coscienza delle masse l'idea della rivoluzione, infiammandovi le necessarie passioni. Si accettava l'egemonia del Piemonte, ma non si vedeva modo a disfarsi di tanti principi e dell'Austria: il mazzinianismo decresceva senza che la Società Nazionale capitanata dal La Farina potesse sostituirlo.
Nessun segno di vita politica appariva nei governi reazionari: solo qualche volgo nelle campagne, o qualche frazione di borghesi intenti a razzolare guadagni tra le immondizie delle pubbliche amministrazioni, o preti fanatici di reazione inquisitoriale li sostenevano ancora.
A Napoli re Ferdinando, sbigottito dall'attentato di Agesilao Milano e dall'incendio della polveriera del Molo e della fregata Carlo III, si era rinchiuso nel magnifico palazzo di Caserta, abbandonando il governo alla ferocia della polizia: quindi la tragica impresa di Pisacane venne a moltiplicargli i terrori e a provocare nuove rappresaglie contro i liberali, mentre una difficile contenzione diplomatica si protraeva da quasi un anno col Piemonte per la restituzione del Cagliari sequestrato dalle navi borboniche. I terremoti desolavano le provincie; la Sicilia dopo il moto infelice del Bentivegna dava ancora qualche crollo; le diplomazie dopo il Congresso di Parigi non restavano dal reclamare a favore degl'illustri prigionieri politici, così che il governo per non inimicarsi anche l'opinione delle Cancellerie dovette risolversi a mutare nel bando perpetuo la pena ad ottantotto detenuti. Ma anche questo cangiavasi per arbitraria determinazione dei ministri in una deportazione nell'America settentrionale: fortunatamente il capitano della nave americana che li deportava, minacciato di processo dagli esuli, li scaricò in Irlanda, ove il governo inglese fu loro largo di soccorsi. Re Ferdinando nel giorno stesso della loro grazia commetteva ad un nuovo consiglio di guerra il giudizio degli attentati contro la sicurezza interna dello stato. Fu questo l'ultimo decreto del tiranno: le sue estreme parole, fra gli spasimi di una tarda cancrena, poco prima della guerra franco-sarda contro l'Austria, parvero al tempo stesso una profezia e una confessione, giacchè, come di Giuliano l'Apostata, si narra esclamasse disperatamente: hanno vinto la causa!
Con eguale presentimento di sconfitta Pio IX, ubbidendo ai suggerimenti del cardinale Antonelli, tentava un viaggio nei propri dominî per rialzarvi col fascino religioso della propria presenza il prestigio della caduta autorità. Così il pontefice intendeva rispondere con una serie di feste ufficiali al triste quadro del proprio governo, esibito da Cavour al congresso di Parigi. Le campagne se ne commossero e corsero esultanti ad inginocchiarsi dinanzi al demiurgo, ma le città rimasero fredde. Sciaguratamente il partito moderato di Bologna, di Ravenna e più tardi di Roma stessa, tolse valore a quella freddezza col presentare al papa indirizzi politici, nei quali, invocando con incorreggibile ingenuità le solite riforme, veniva a riconoscere la sovranità pontificia. Tra i firmatari di questi indirizzi, che avrebbero voluto essere di protesta ed invece erano di sudditanza, fu pure Marco Minghetti.
Dalle Romagne passando nella Toscana, Pio IX, benchè sollecitato vivamente dal clero, non seppe abbastanza adoprarsi per ottenere dal granduca l'abbandono delle ultime leggi leopoldine: i ministri di questo ricalcitrarono a tale suprema concessione, che avrebbe reso la Toscana non meno soggetta alla Santa Sede che all'Austria. Infatti sino allora tutta la politica del granduca era stata di sottomissione così incondizionata all'imperatore da ricusare persino ambasciatore sardo il conte Antonio Casati, perchè figlio di un fuoruscito lombardo. E il Piemonte aveva sopportato lo sfregio. Più piccolo e peggiore il duca di Modena, resistendo alle molte pressioni diplomatiche provocate dal conte di Cavour, cui la profluvie degli emigrati sfuggenti ai governi della penisola cominciava a procurare gravi imbarazzi nella politica interna, mantenne il Wiederkehrn nel Comando di Carrara. Quest'ultima reazione superava di crudeltà ogni altra, giacchè il truce soldato vi poteva giudicare arbitrariamente di qualunque crimine, applicando senza appello la pena capitale eseguibile ventiquattro ore dopo la sentenza anche per solo reato di ritenzione d'armi, persino su minorenni e per delitti anteriori allo stato d'assedio.
La duchessa di Parma con logica femminile aveva riassunto tutte le leggi in quella stataria.
Invece nel Lombardo-Veneto il rigore tirannico e poliziesco scemava. La cancelleria imperiale, avvisando lo scacco sofferto al Congresso di Parigi e l'invadente influenza del Piemonte, dopo aver revocato i sequestri sui beni dei fuorusciti, pensò destramente di giovarsi colle superstiti idee federaliste contro il pericolo dell'unificazione piemontese. Quindi nominò vicerè l'arciduca Massimiliano, gentile ed onesto cavaliere, lasciando intravedere la lusinga di una costituzione del Lombardo-Veneto in regno separato sotto l'alta sovranità dell'imperatore. Il nuovo principe sarebbe così stato l'unica virtù di questa cattiva idea. Molti però del partito moderato, ai quali la tradizione servile ed un falso orgoglio municipale toglievano di comprendere la verità dell'idea nazionale tanto da non fare differenza fra una conquista piemontese e una semi-autonomia austriaca, aderirono al disegno come Cesare Cantù: alcuni di essi giunsero a mandare legati presso il conte di Cavour per convincerlo a dimettere ogni altra idea sul Lombardo-Veneto, che sarebbe stato felicissimo sotto Massimiliano d'Asburgo, re o vicerè indipendente. Però il popolo proseguì nell'ostilità sdegnosamente passiva ed irreconciliabile coll'Austria, mentre un gruppo di publicisti capitanati da Carlo Tenca sosteneva nel giornale Il Crepuscolo i principii dell'indipendenza e della nazionalità.
Tutto il buon volere dell'arciduca, ricondottosi a Vienna per carpire al sospettoso imperatore qualche altra concessione politica, si franse contro il sentimento patriottico del popolo, che, pure riconoscendogli il merito delle intenzioni, seguitò a cogliere tutte le occasioni per esprimere il proprio odio alla tirannia straniera.
D'altronde la vicinanza del Piemonte alimentava troppe speranze.
Se le cospirazioni, specialmente dopo gli ultimi insuccessi, non attiravano più che giovani inesperti o veterani indomabili, un'altra maggiore lusinga di guerra veniva dal Piemonte, che, malgrado l'esiguità del proprio stato, ingrossava sempre il bilancio militare. Si attendevano alleanze, si guardava alla Francia. L'ultimo attentato di Felice Orsini contro Napoleone III scatenò una fiera tempesta: i repubblicani applaudirono al forte regicida: i moderati imprecarono al settario, che per vendicare la omai lontana offesa alla repubblica romana aveva quasi tolto all'Italia l'unico possibile alleato. Nella politica estera del conte di Cavour si stringevano tutti i nodi dell'aggrovigliata politica nazionale. Intanto per naturale reazione al temperarsi del rigore austriaco nel Lombardo-Veneto s'inasprirono i rapporti fra i due governi di Vienna e di Torino.