La stampa torinese sbertava le nuove benignità imperiali; i diari governativi di Milano e di Venezia vilipendevano stato e dinastia sarda. La ragione stava nello scontro di due idee politiche implacabilmente nemiche e costrette a servirsi di un medesimo disegno. Così il conte di Cavour, nella contenzione diplomatica col conte di Buol per reciproci lagni di contumelie suggerite o permesse ai propri giornali, potè ancora avere il sopravvento; mentre, per scusarsi del monumento offerto dai milanesi ai reduci della Crimea, nel medesimo giorno dell'ingresso dell'imperatore Francesco Giuseppe a Milano, dovette rigettarne la responsabilità sul municipio di Torino, cui il dono era mandato e proibire che sopra vi si mettesse «alcuna iscrizione, dalla quale potesse risultare che quel monumento era un dono d'Italiani sudditi dell'Austria». Nullameno le relazioni diplomatiche furono troncate fra i due governi. La guerra pareva imminente, quando la congiura di Felice Orsini venne forse ad affrettarla. Questo ardente e formidabile cospiratore, dopo la più romanzesca vita di avventure politiche e militari e un ultimo dissidio con Mazzini, volle con bombe da lui stesso inventate tentare l'eccidio di Napoleone III a postuma vendetta della republica romana, e a fomento di nuova republica francese. L'attentato al solito abortì (14 gennaio 1858), massacrando un numero veramente eccessivo di innocenti. Napoleone, forse ancora più irritato che atterrito, stabilì per tutta la Francia lo stato d'assedio, dividendola in cinque grandi maresciallati; insistette a tutti i gabinetti per concordare una legge internazionale contro i settari; reclamò con burbanza dall'Inghilterra, ospite antica di tutti i fuorusciti, l'estradizione di Mazzini, di Ledru-Rollin, di Kossuth e di Blanc. L'Inghilterra rispose sdegnosamente col rovesciare il ministero Palmerston chiaritosi favorevole a tali pretensioni: il Piemonte, anche più vessato dell'Inghilterra, dovette cedere destreggiandosi.
Forse nessun momento della sua storia fu politicamente e diplomaticamente più difficile. Tutta la politica cavouriana, intesa da quasi otto anni alla preparazione di una riscossa nazionale mercè un'alleanza francese, si trovava compromessa: disgustare Napoleone III era un perdere ogni speranza; acconsentire alle sue pretese un venir meno alla propria autonomia. L'imperatore esigeva la soppressione del giornale mazziniano L'Italia del Popolo, la proibizione ai fuorusciti di scrivere nelle effemeridi politiche, il giudizio pei reati di stampa contro sovrani stranieri sottratto ai giurati e attribuito ai giudici senza nemmeno richiesta della parte offesa, e l'espulsione dal regno degli esuli republicani. Cavour resistè. I clericali vincitori alle ultime elezioni lo urgevano con recriminazioni reazionarie; i radicali lo insultavano per avere con una politica servile perduta la causa italiana e condotto il Piemonte alla soggezione francese; l'Austria alla testa di tutti i governi italiani denunciava Torino per un covo di settari; i successi della guerra di Crimea e del Congresso di Parigi tornavano in nulla. Ma il suo spirito agile raddoppiò di elasticità: accusò tutti i governi reazionari italiani di moltiplicare le espulsioni politiche dei loro sudditi per creare imbarazzi al Piemonte; ai clericali rispose facendo stampare le lettere diplomatiche di Giuseppe de Maistre, nelle quali il terribile papista profetizzava alla Sardegna la necessità di combattere l'Austria e di guidare in Italia una rivoluzione nazionale; con fine lentezza tenne a bada il gabinetto francese, trattando colla diplomazia privata dell'imperatore, cui riuscì ad ammansire; ricusò di sopprimere L'Italia del Popolo e seppe ucciderla colla persecuzione abusando della condiscendenza dei magistrati, giacchè dei centocinquanta sequestri subìti dal giornale quelli giudicati dai giurati conclusero sempre all'assolutoria, mentre tutti gli altri esauriti dai giudici finirono in condanne; con una legge De Foresta restrinse la libertà di stampa e largheggiò di pene contro coloro, che attaccassero i governi stranieri o elogiassero anche storicamente fatti o teoriche di regicidio; al Villamarina legato sardo a Parigi scrisse con ammirabile nobiltà di resistere a tutte le pressioni imperiali, perchè Vittorio Emanuele sarebbe pronto piuttosto a perdere la corona andando ramingo per le Americhe che a tradire l'autonomia del proprio stato o a menomarne l'indipendenza. Poi nella seduta del 16 aprile (1858), difendendo la nuova legge sulla stampa, accusò con terribile abilità di menzogna tutto il partito mazziniano di aver sempre sostenuto la teorica dell'assassinio politico e di macchinare in quei giorni stessi un complotto contro la vita di Vittorio Emanuele. Quest'ultima assurda calunnia finiva di esautorare moralmente il partito republicano.
Tutte le ire e le recriminazioni di Napoleone III contro i rivoluzionari non valsero questa denunzia contro di essi del massimo ministro rivoluzionario italiano, che ligio alla costituzione aveva pure osato di arrischiare ogni interesse della propria politica per resistergli. La publica opinione nazionale ne fu scossa: Mazzini in una lettera apologetica ribattè indarno l'atroce accusa, giacchè poco dopo due altre lettere di Felice Orsini all'imperatore prima di salire il patibolo, e da questi licenziate alla stampa, venivano a riconfermare nel volgo la medesima sinistra impressione. In esse il fortissimo ribelle, còlto da improvviso pentimento, scongiurava i rivoluzionari dal sistema dell'assassinio politico, ed affidava con fatidico voto all'imperatore la missione di liberare l'Italia.
Dopo l'accusa di Manin, la denuncia di Cavour, la confessione di Orsini, fu quasi perduto ogni credito morale pel partito republicano. Tutta la rivoluzione passava nel campo monarchico: la tradizione regia aveva vinto.
Le simpatie guadagnate da Cavour nei maggiori governi europei gli derivavano dalla sua guerra implacabile al partito rivoluzionario.
Nullameno nessuna alleanza era ancora stretta. La lunga e disastrosa preparazione minacciava di esaurire il piccolo stato: in parlamento, nelle ultime discussioni pel prestito dei quaranta milioni necessari al compimento delle opere del Cenisio e della Spezia, solo una suprema speranza d'imminente guerra nazionale aveva potuto decidere della votazione.
La politica apparente del gabinetto francese, presieduto dal conte Walewski, era tutt'altro che rivoluzionaria; quella personale dell'imperatore si nascondeva fra ambagi inintelligibili anche ai più abili diplomatici. Il conte di Cavour non poteva sperare che in questa, ma nessuna destrezza di espedienti o di suggestioni sarebbe mai riuscita a decidere l'imperatore ad una guerra contro l'Austria in pro della rivoluzione italiana, senza l'oscura necessità che spingeva il secondo impero entro l'orbita del primo, condannandolo ad essere rivoluzionario suo malgrado, e a dover vivere e morire di guerre.