I dati della politica monarchica.

La nuova monarchia doveva per necessità della propria forma combattere con ogni mezzo la rivoluzione, assorbendone i migliori elementi per creare nel popolo la fede a se medesima, e nullameno subire il programma rivoluzionario, che metteva a scopo immediato di ogni azione la conquista di Venezia e di Roma. La fatalità dell'unità spingeva a queste due ultime annessioni senza che la monarchia potesse nè sottrarsi alla politica clericale di Napoleone, nè combattere da sola contro l'Austria. Il suo programma si dibatteva in un'antitesi insolubile a qualunque abilità di statista. La monarchia, come risultato dell'insufficienza rivoluzionaria della nazione, era destinata a fallire dinanzi ai due problemi nei quali la stessa rivoluzione si era infranta. Per conquistare Roma bisognava rovesciare l'impero napoleonico, per liberare Venezia era d'uopo sconfiggere l'impero austriaco.

La politica monarchica si sarebbe dunque trascinata d'espediente in espediente, aspettando in Europa un'altra alleanza che le permettesse di combattere l'Austria, ed augurando un caso indefinibile che le concedesse Roma. Intanto all'interno, dopo l'unificazione plebiscitaria, bisognava ricominciare quella più efficace delle leggi e dei costumi: la nuova dinastia, assorbendo il prestigio di tutte le altre dalla millenaria servilità del popolo, doveva conservare l'aureola rivoluzionaria. A ciò era prima difficoltà lo stesso carattere dell'egemonia piemontese e della conquista regia, che, irritando la vanità delle altre provincie, dava al piccolo stato sardo un'ombrosa sembianza di usurpatore. Torino era troppo piemontese per poter restare la capitale d'Italia: la casa di Savoia, più antica che illustre, non era mai penetrata abbastanza nella storia italiana per iniziarne la nuova epoca da Torino, ove aveva molto regnato nel più chiuso egoismo dinastico e con tendenze antinazionali. La tradizione monarchica e il diritto statutario non bastavano a risolvere il problema ideale di Roma: il re era piccolo in faccia al papa, l'idea regia vaniva dinanzi all'idea cattolica. Solo la rivoluzione poteva proclamare Roma capitale d'Italia, giacchè proclamarla tale e non conquistarla sarebbe la più dolorosa e ridicola confessione d'impotenza; solo l'idea democratica era maggiore dell'idea cattolica. La monarchia ricadeva quindi in una seconda antitesi per l'impossibilità di restare a Torino e di andare a Roma.

D'altronde la rivoluzione, forzata a vivere di idealità dopo la sconfitta toccata alla republica mazziniana, si sarebbe giovata di questa impotenza monarchica per compromettere il governo con vani tentativi di guerra contro Venezia e contro Roma; così che la monarchia, impedendoli con le armi, avrebbe pericolato nel disonore della guerra civile.

Se la monarchia non aveva nemici terribili all'interno, non contava dai piemontesi in fuori altri sudditi devoti: tutta la sua forza stava nella necessità di una maggiore unificazione politica e nell'impossibilità di una republica mazziniana.

Il popolo non afferrava ancora il significato della rivoluzione. Accettava piacevolmente lo sfratto degli austriaci e degli altri tirannelli, ma non sentiva vergogna di doverlo all'intervento della Francia; applaudiva le vittorie di Garibaldi, ma non si era levato e non si leverebbe in massa per seguirlo, trovando naturale che la monarchia arrestasse la sua opera per meglio sfruttarla. La rivoluzione non era per la maggior parte della gente che un buonissimo affare politico, dal quale bisognava trarre il maggior profitto senza compromettersi in nuovi rischi. Il magnanimo idealismo della minoranza rivoluzionaria pareva rettorica all'ottuso senso morale e alla istintiva furberia della moltitudine. Cavour, massimo rappresentante degli interessi, soverchiava Mazzini, supremo apostolo delle idee. La rivoluzione non si chiariva ancora nella propria opposizione coll'idea cattolica del papa; non si capiva che il principio della sovranità popolare doveva tradursi nella sfera della religione come sovranità del pensiero civile; che emancipandosi dal diritto divino bisognava liberarsi dal diritto papale; che la regalità dell'elettore in faccia al re produceva la libertà del credente contro il papa.

Il clero italiano, antinazionale a cagione del potere temporale, avrebbe dovuto essere considerato doppiamente nemico.

Invece dopo le vittorie in quasi tutti i paesi si cantarono Tedeum per le piazze; l'esercito piemontese doveva ancora recitare le orazioni mattina e sera nelle caserme, ed assistere tutte le feste alla messa; Garibaldi medesimo a Napoli aveva dovuto visitare San Gennaro, che colla solita compiacenza a tutti i vincitori ripetè per lui il miracolo della ebullizione del sangue. Il popolo tutt'altro che rivoluzionario sembrava invece non volere accettare la rivoluzione che consacrata dalla religione. Quindi la teatralità dei trionfi si spiegava nelle più grottesche forme: molti preti liberaleggiavano, la maggior parte degli elettori dopo il plebiscito andavano ad accusarsi del voto come di un peccato, e ne ricevevano la penitenza. Appunto perchè il popolo aveva dato un numero troppo scarso di volontari imbizzarriva ora sotto le assise della guardia nazionale chiamandola al palladio della nazione. E queste guardie nazionali furono mandate a guarnigione da paese a paese come una specie di presentazione che ogni città facesse all'altra dei propri cittadini. Invece la coscrizione venne accolta con tristissima ripugnanza: nella sola Sicilia i renitenti alla leva giunsero presto a seimila, nelle Romagne superarono il migliaio; e se ad essi si aggiunga, come purtroppo si aggiunsero, quelli delle altre provincie e le innumerevoli bande di briganti che infestarono lungamente il Napoletano dandovi combattimenti quasi grandi come battaglie, nell'indomani trionfale della rivoluzione il numero dei ribelli reazionari pareggiò quasi quello dei volontari. Certamente Garibaldi non ne ebbe seco di più.

Eppure la coscrizione a lunga ferma secondo l'antico sistema non colpiva che un numero ristretto di giovani, conservando l'ignobile privilegio borghese della surrogazione per denaro.

Le campagne erano specialmente ostili al nuovo governo per la coscrizione e per l'immediato aumento delle imposte. Si sarebbe voluta la libertà senza pagarne le spese: i preti aizzavano, la borghesia chiusa nell'egoismo economico dubitava ancora di affidarsi in massa al nuovo governo, che nessuna potenza d'Europa aveva riconosciuto. Sotto la baldoria delle feste si sentiva un certo scoramento; poichè la rivoluzione non era frutto dell'energia nazionale, solo coloro che avevano combattuto erano forti nella sua fede. Però nella rivoluzione il capo più saldo essendo la monarchia piemontese, non si credeva che ad essa. Garibaldi aveva piuttosto colpito le immaginazioni che persuaso gli intelletti. Le sue incredibili vittorie erano in gran parte risultate, come nel Napoletano, dalla viltà dei nemici: i suoi volontari erano o giovani colti e signorili, o spostati di piazza pronti sempre ad accorrere in tutti i tumulti. Quindi l'avaro buon senso della borghesia ricusava di credere a queste forze rivoluzionarie, se maggiori complicazioni avessero ricondotto l'Italia ad una guerra contro l'Austria o contro la Francia. Il programma rivoluzionario pareva assurdo, il principio democratico diventava paradossale in un paese, ove il popolo non esisteva ancora come classe politica.

Bisognava quindi disfarsi al più presto degli elementi rivoluzionari.

Dopo aver ottenuto l'indipendenza per un aiuto francese, era suprema necessità carpire all'Europa il riconoscimento ufficiale con una politica di moderazione che non desse ombra alle maggiori potenze: i rivoluzionari, indispensabili alle prime vittorie, diventavano adesso d'impaccio e di pericolo. Sola la borghesia dietro la scorta infallibile degli interessi materiali poteva, entrando nella rivoluzione, assodarne la base e regolarizzarne il governo. I suoi istinti commerciali ed industriali avrebbero mirabilmente assecondato il moto di unificazione nelle leggi; l'abitudine dell'ordine, antica in essa, avrebbe creato la nuova disciplina politica; la sua chiaroveggenza finanziaria avrebbe permesso nella necessità di un nuovo immenso debito il meno disastroso esercizio di spese. Però la borghesia avrebbe voluto naturalmente arricchirvisi.

Il conte di Cavour lo comprese mirabilmente.

La sua prima politica interna fu di seduzione ai borghesi e di ostilità ai rivoluzionari. Per passare dalla rivoluzione alla organizzazione era d'uopo accogliere nel governo il maggior numero dei più forti interessi; l'esercito dovrebbe funzionare come un crogiuolo assimilatore per le differenze morali delle varie provincie, disciplinando la tradizionale insubordinazione italiana. La burocrazia, ingrossata celermente ed elefantescamente, avrebbe fornito un altro esercito d'impiegati, più mobile, meglio aderente al governo perchè cointeressatovi come in una azienda commerciale. Da questi due corpi bisognava escludere tutti i rivoluzionari, che per altezza d'ingegno o purezza di carattere o riottosità di sentimento non si convertissero alla monarchia: e a questi irreconciliabili infliggere quel disprezzo che tutte le società hanno per i propri scarti.

Il moto di condensazione intorno alla monarchia riuscì poderosamente.

Nessuno si preoccupò che Mazzini, ancora sotto l'onta dell'ultima condanna a morte per la spedizione di Pisacane, restasse in esilio: a Garibaldi l'istinto borghese cercò un rivale prima nel Fanti, poi nel Cialdini; malleabile e destro il primo, satrapesco e pretoriano il secondo, ambedue mediocri d'ingegno e di opere. I giornali moderati crebbero d'importanza, di numero e di abilità; naturalmente difendendo il fatto attuale del governo, la loro argomentazione fu sempre nella realtà, mentre i giornali radicali condannati ad una critica intransigente caddero nella rettorica: quelli furono satanicamente abili nel denigrare le glorie della rivoluzione aggravando il pervertimento morale della nazione; questi stancarono anche i buoni intelletti colla ripetizione monotona di idealità incompatibili colla vita reale.

La rivoluzione non ebbe quindi espressione artistica nel trionfo. Il popolo non vi trovò ispirazioni: l'inno garibaldino e l'inno reale furono due marcie peggio che volgari; di maggior estro la fanfara dei bersaglieri, truppa ammirabile di severa eleganza, creata dal Lamarmora, e che la monarchia oppose invano alle bande rosse destinate a rimanere il tipo più originale di soldato nel secolo decimonono. La poesia ammutolì. Vittorio Emanuele in tanta aureola di fortuna non commosse la fantasia nazionale; tutti sentivano che l'uomo, quantunque onesto d'intenzioni, non era pari nè all'idea nè al fatto della rivoluzione: il suo valore di soldato non bastava a compensare la sua sommissione di re a Napoleone III; l'inevitabile egoismo dinastico, avendolo subordinato a tutte le umiliazioni politiche del governo durante il periodo delle annessioni, gli toglieva ogni carattere eroico. Finalmente la sua necessaria e mostruosa ingratitudine a Garibaldi, che più tardi cortesie intermittenti ed ineleganti non poterono velare, mentre l'incomparabile eroe seguitava a tributargli il più affettuoso rispetto, finirono di scoprire il fondo volgare della sua natura. L'eccesso medesimo della fortuna lo perdè nel sentimento poetico della nazione: Manzoni e Niccolini tacquero, Giosuè Carducci, allora giovinetto e poco dopo non meno grande di loro, lo salutò tribuno armato del popolo, ma quel saluto fu complimento peggiore del silenzio. Oggi stesso, dopo molti anni dalla sua morte, non una pagina immortale della moderna letteratura è ispirata dal suo nome. Il re di Savoia, diventato re d'Italia, non ebbe quindi la consacrazione della poesia perchè l'elemento poetico era tutto nella rivoluzione, dalla quale la monarchia usciva come un fatale processo prosastico. Le dinastie cadute non destarono lamenti, il papa non eccitò entusiasmi, Napoleone al di fuori dei circoli officiali non ottenne riconoscenza avendo guastato il beneficio col contrastarne le conseguenze.

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