Mentre nella dissoluzione dei partiti l'Italia cresceva a forte stato costituzionale, la grande occasione politica, che doveva risolvere il suo problema di Roma, maturava.
La tradizione di Richelieu non era morta nella diplomazia francese.
L'impero napoleonico giudicava ancora indispensabile alla propria fortuna la divisione e l'abbassamento di tutti i vicini, onde questa sua teoria rafforzata da lunghi esempi storici cresceva a passione nell'orgoglio della nazione per mantenere sull'Europa un primato impossibile. La millenaria antitesi della storia francese, sempre rivoluzionaria e sempre monarchica, peggiorava il carattere geloso di tale pretesa. La Francia era pronta a tendere la mano a tutti i popoli, ma per mutarli in proprii clienti: quindi la forma quasi sempre militare delle sue iniziative la tirava a maniera di conquista, o l'antagonismo dei propri interessi coi loro la fermava a mezzo delle migliori imprese. Generosa ed insolente, prodiga e speculatrice, fanatica di libertà e di dittatura mobile, avventuriera, ricca, altrettanto imprudente nell'ira dell'attacco che incerta nel coraggio della resistenza, la Francia era però sempre il centro della politica europea, e non sospettava nemmeno che, il progresso dell'Europa essendo appunto nella creazione di altri centri indipendenti, il principio di nazionalità dovesse riprenderle sul Reno due provincie.
Nulla poteva più arrestare la decadenza dell'impero napoleonico.
Succeduto con sanguinario processo alla impotente republica del 1848 promettendo al popolo ordine ed uguaglianza, gloria e prosperità, esso non era in fondo che una forma della democrazia non ancora arrivata alla capacità di governare se stessa. La sua missione era quindi di fortificare la coscienza nazionale in altri vent'anni di opposizione politica interna, e di mantenere alla Francia le iniziative di nazionalità nella politica estera; e l'impero si era sdebitato abbastanza bene di questi due compiti, fondando l'Italia e l'Internazionale, il maggior fatto politico e il maggior fatto sociale del secolo in Europa. Ma la sua base, fatalmente clericale, poichè i monarchici legittimisti e orleanisti l'osteggiavano, e la sua vita signoreggiata da irresistibili tendenze militari ed avventuriere, erano consunte. Così dopo aver difeso la Turchia contro la Russia per conservare contro di questa il proprio primato in Europa, e improvvisata l'Italia per mutarla in una quasi luogotenenza francese, l'impero era stato trascinato dal gran sogno napoleonico al Messico per creare coll'arciduca Massimiliano d'Austria un altro impero e un'altra supremazia francese nel nuovo mondo. Ma la Russia, arrestata un istante a Sebastopoli, proseguiva e prosegue tutt'ora nel proprio irresistibile moto d'espansione; l'Italia agglomeratasi a regno oltre e contro i disegni napoleonici accennava già per rigoglioso ed irrefrenabile sviluppo di modernità a porsi come rivale della Francia: nel Messico Benito Juarez, dopo aver fucilato l'imperatore Massimiliano a Queretaro e costretto l'esercito francese a rimpatriare, proclamava una repubblica poco minore di quella degli Stati Uniti.
La necessità per l'impero francese di appoggiarsi sul clericalismo contro l'irrompere della nuova democrazia, vietando Roma agli italiani, aveva tolto a questi dopo la tragedia d'Aspromonte e l'eccidio di Mentana ogni gratitudine; mentre la Prussia, cacciatasi finalmente alla testa della Germania, dopo le proprie strepitose vittorie del 1866 minacciava di costituire nel centro di Europa un impero nazionale più vasto e poderoso di quello napoleonico.
In Francia l'opposizione liberale e antidinastica era sempre venuta guadagnando terreno: il socialismo imperiale sorpassato da quello operaio si mutava nelle mani di Carlo Marx nella più vasta e minacciosa associazione internazionale non solo contro l'impero ma contro tutti i governi. Le vittorie prussiane avevano annebbiato lo splendore delle ultime glorie francesi, la supremazia diplomatica dell'impero era già scossa, nessuna classe lo sosteneva più all'interno, nessuna idea all'estero. Il guasto del metodo corruttore e le contraddizioni della politica dinastica con quella nazionale affrettavano fatalmente la sua decadenza.
L'imperatore, ammalato, fra una corte di bigotti e d'impiegati, non aveva in se stesso potenza capace di trascinare la nazione. Poichè non era mai stato nè generale nè statista, cominciava ora a fallire come uomo di governo e come diplomatico: una inguaribile rilassatezza intorpidiva il suo pensiero. Così, prima di essere espulso quale sovrano, dovette decadere da imperatore, abbassandosi volontariamente a subire un ultimo esperimento di governo costituzionale.
Ma contro l'impero napoleonico sorgeva minacciando la monarchia prussiana.
Già all'indomani della vittoria di Sadowa il conte di Bismarck aveva esclamato orgogliosamente: «il giuoco non è ancor vinto, non è che raddoppiata la posta»; in Francia invece quella vittoria produceva la dolorosa impressione di una sconfitta nazionale. L'intromissione diplomatica tentata da Napoleone a favore dell'Austria piuttosto che salvare la dignità della supremazia francese l'aveva compromessa, poichè il conte di Bismarck, avendo potuto prima della guerra abbindolarlo con una vaga promessa di cessione del territorio fra la Mosella e il Reno senza Coblenza e senza Magonza, era poi riuscito a tenerlo a bada per tutti i preliminari della pace di Praga: quindi, sicuro della nuova Confederazione del nord, lo aveva duramente respinto. Ma la politica imperiale francese, qualificata sdegnosamente dal grande cancelliere prussiano come una politica di mancie, doveva subire in Germania una serie di smacchi sempre più umilianti. Poichè sino dal 1863 il conte di Bismarck aveva contrapposto al disegno austriaco di riforma federale l'idea di un parlamento a suffragio universale diretto, fu sollecito di aggiungere a questo Reichstag un Bundesrath o Consiglio federale, composto dei delegati dei vari stati della Confederazione, formando così una specie di corpo legislativo bicamerale. In esso la Prussia dominava con una popolazione di 24 milioni sopra 6 milioni degli altri ventuno Stati confederati. Poco dopo un altro parlamento doganale sostituiva l'antico Zollverein cementando l'unità economica della Germania; quella politica non poteva tardare molto a trionfarvi.
Tale rudimentario ordinamento risultava da una serie di compromessi, nei quali i partiti rivoluzionari si acconciavano a subordinare le questioni astratte di libertà a quelle della costituzione nazionale. Le pretese dell'impero napoleonico sulla riva sinistra del Reno, che la Prussia avrebbe dovuto cedergli come scotto della propria egemonia, urtavano quindi nel sentimento patriottico della Germania ben più forte che non quello d'Italia nel 1859, e risoluto dopo le vittorie sull'Austria a non patire diminuzioni. Tutto il genio del conte di Bismarck, mutatosi da rappresentante del Junkerthum prussiano in atleta dell'unità germanica, si tendeva nell'opposizione contro la Francia, rispondendo col più intrattabile orgoglio di patria alle minacce di una diplomazia oramai divenuta impotente. La risolutezza del carattere e la semplicità di una politica inflessibile nel proprio scopo dovevano necessariamente assicurargli la vittoria sopra un avversario come Napoleone, da lui paragonato ironicamente a Tiefenbacher, il più irresoluto dei generali di Wallenstein. E poichè Napoleone, malgrado le sollecitazioni della regina d'Olanda e del ministro Drouyn de Lhuys, non aveva osato marciare sul Reno mentre la Prussia convergendo nel 1866 ogni sforzo su Vienna aveva lasciato indifese tutte le proprie frontiere, l'insufficienza della Francia contro di quella si era già rivelata. Quindi l'ostilità svolgendosi in una lotta diplomatica permise al conte di Bismarck di prepararsi meglio alla guerra.
Il suo disegno non poteva essere più semplice. Mentre la Russia per punire Austria e Francia della guerra di Crimea fingeva di non occuparsi del centro d'Europa, e l'Austria, affranta dalle ultime sconfitte, e la Francia nuovamente imbarazzata di un serotino esperimento costituzionale non avrebbero potuto arrischiarsi così presto in campo, egli badava ad attirare la Confederazione del sud, rimasta indipendente col trattato di Praga, in una lega militare che preparasse quella politica. Le pretese e le minacce della Francia capitavano a buon punto.
Il conte di Bismarck si destreggiò in tale torneo con una abilità pari se non superiore a quella del conte di Cavour.
Quindi, dopo aver ricusato superbamente ogni cessione di territorio sulla riva sinistra del Reno, per forzare gli stati del sud a stringere colla Confederazione del nord una lega militare, rivelò loro il disegno presentato dalla Francia nei preliminari di Nikolsburg, col quale si chiedeva una striscia dei territori dell'Assia e della Baviera, e che l'ingenuità del diplomatico francese De Benedetti gli aveva lasciato nelle mani. Naturalmente gli stati del sud, spaventati dai pericoli di questa rivelazione, strinsero colla Prussia un segreto trattato militare per la garanzia reciproca dei proprii territori, mettendo a sua disposizione tutte le loro truppe in caso di guerra contro lo straniero.
L'intimazione di Thiers, che a nome della pubblica opinione francese aveva gridato a Bismarck dall'alto della tribuna accennando al Meno: «fin qui e non oltre!», non era più che una frase insulsamente spavalda come il jamais minacciato da Rouher agli italiani.
Ma Bismarck, per togliere alla Francia ogni aureola di liberalismo, finse abilmente di secondarla nelle mire invaditrici sino a prometterle in un trattato, cui non appose mai la firma, il proprio aiuto per annettersi il Belgio e il Lussemburgo; poi, nel momento che Napoleone credeva di restaurare il proprio credito in Europa con tali acquisti, egli si ritrasse bruscamente eccitando la pubblica opinione in Germania a così fiere proteste contro la cessione del Lussemburgo da essere costretto a minacciare l'Olanda come di un casus belli, se mai vi consentisse. Alla diplomazia francese non restava quindi altro terreno di lotta che il trattato di Praga, accusando il nuovo parlamento doganale germanico di contrastare alla Confederazione del sud ed eccitando in questa gli elementi separatisti. Ma il sentimento patriottico della Germania, esasperato da queste intromissioni straniere, precipitava nell'unità prussiana non senza qualche sorda minaccia alla Francia. Di rimpatto questa usava ogni modo di amicarsi l'Austria: un convegno a Salisburgo (27 agosto 1867) fra i due imperatori era già sembrato il prologo di un'alleanza, che l'antagonismo degli interessi non aveva permesso; poco dopo l'eccidio di Mentana Vittorio Emanuele aveva tentato di rannodare tali pratiche. I tre sovrani trattavano segretamente con diplomatici di corte; nè ministeri, nè parlamenti da principio sapevano delle trattative, ma l'impossibilità per Napoleone di fare qualche concessione all'Italia su Roma impedì ogni alleanza.
Allora si diffuse per tutta Europa una grande illusione di pace come una di quelle abbaglianti serenità che sogliono precedere le tempeste.