CAP. I. Il motivo.

Esso è eterno.

Sempre, a qualunque ora della vigilia, dinnanzi agli inviti dell’alba o sotto le ombre cadenti della sera, una voce si leva dal fondo della coscienza, e i nostri occhi quasi a un appello improvviso guardano in alto. Vanamente nella stanchezza pigra del disinganno, nella superbia della disperazione, mormorammo colle labbra chiuse la suprema parola della incredulità, mentre l’indifferenza della natura alla nostra umana tragedia pareva farsi più silenziosa, e un altro silenzio si dilatava nelle solitudini del pensiero.

La vita fino all’ultimo passo e la luce fino all’estremo bagliore sono un moto dell’ideale.

Coloro che negano il Dio della creazione, presente nelle anime semplici, ne inventano un altro nel cosmo, esaurendo il proprio orgoglio nel non dargli alcun nome, o credendosi profondamente poeti nel confonderlo colla vita, che sorride a se stessa. E nella natura immaginano leggi, che sono soltanto una sua apparenza nel pensiero, e alla nostra vita d’individui danno per ragione quella dell’umanità, individuo anch’essa che vivrà un qualche millennio senza sapere d’onde abbia cominciato nè ove debba finire, sempre giovane e caduco, irresistibilmente sospinto all’avvenire, e costretto ad obliare il passato, nel quale sparirono coi morti tutti i dolori, che li avevano uccisi. Nullameno l’amore riaccende alla propria fiaccola ogni anima nuova, e una speranza più forte di qualunque certezza risuscita dalle ceneri delle illusioni il desiderio della vita come di una conquista, che ci darà la padronanza del mistero e il segreto della felicità.

Quindi la storia non è che una proiezione della nostra vita.

L’una e l’altra ci appaiono un romanzo, nel quale l’individuo singolo o collettivo si atteggia come dinnanzi allo specchio del pensiero, senza che le scene quasi si differenzino. Filosofia e religione, arte e scienza, leggi e costumi salgono e discendono: le epoche si distendono in quadri, e alcune sono fosche, altre luminose; qualche volta l’ascensione è così rapidamente gloriosa che la meta sembra dover esser vicina, ma nessun genio della mente o del cuore, per qualunque potenza di opera o di sentimento, potrà mai mutare la condizione o spezzare l’unità del genere umano. Il più grande fra gli uomini non ha nel pensiero una categoria che non sia nella mente del più piccolo, e come nessuno dei due sa dominare il problema del proprio essere, così sotto tutte le bontà durano curvi da un tragico sforzo tutti i vizi, che soverchiano altre anime senza spegnervi la luce ideale. Qualunque tempo nelle storia è segnato dalla parabola di un’idea, che l’incendia e tramonta; ogni progresso umano sposta col suo grado l’altro dalla meta, cosicchè la distanza ne rimane ugualmente immutata. Tutto comincia in noi e nulla finisce: la scienza costretta nella parentesi del microscopio e del telescopio la dilata, senza garantire a se stessa se quanto vi appare dentro sia uguale all’illimitato che ne resta fuori: la filosofia dopo aver chiesto al pensiero il segreto delle cose demandò alle cose il segreto del pensiero, ma le cose tacquero, e il pensiero non potè rispondere a se stesso, perchè ignora la propria essenza, e sa soltanto che la verità immutabile sarà per lui tutto quanto non può non pensare. Il resto è figurazione come di paesaggi sulle superfici dell’oceano o del cielo, enigmatico giuoco della natura, che illude e delude i nostri occhi addoppiando il velo della propria apparenza con un capriccio di donna e di poeta.

Noi abbiamo l’idea della bellezza e viviamo della sua passione soccombendo sempre al suo problema: impossibile per noi del pari il definirla e il realizzarla; un modello misterioso ci sorge nella mente al confronto di ogni figura, ma si abbuia appena tentiamo tradurlo in una qualche opera. Una idea di giustizia giudica ogni nostro atto così vivamente che nessun sofisma può ingannarci: la nostra coscienza è un teatro e un fôro, nel quale recitiamo il nostro dramma cedendo alle passioni o immolandole al dovere in uno spasimo di olocausto senza che la giustizia verso noi stessi e verso gli altri compia mai la propria formula. Al di sopra di tutta la natura, che si rinnova dalla morte, anche noi amiamo per tutta la durata e al di là della nostra esistenza; giovani, il nostro amore ha il sorriso dell’alba, il murmure dei fiori, il fresco della rugiada, l’incanto dell’eterna novità. Nel meriggio, quando la vita ci ha rapiti nel proprio vortice, amiamo ancora con la violenza delle fiamme, e l’amore rugge in noi come i torrenti, lacera e feconda: è bello come le bufere che sconvolgono i cieli e li spazzano per farne più puro il sereno, attraverso il quale gli occhi cercano l’altissimo segreto. Vecchi, già curvi ai richiami della terra, amiamo sempre, col rimpianto del pellegrino cui fu conteso ovunque il riposo, coll’angoscia dell’assetato che sente la lunga arsura chiudergli la gola: amiamo la giovinezza che non può amarci più, e ci sorride e deride; amiamo i figli che già amano altrove, la patria nella quale la nostra opera si è anonimamente perduta, la gloria che non saprebbe più nemmeno scaldarci il sangue, la ricchezza inutile alla nostra impotenza; amiamo tutta la vita fuggente e misteriosa, e l’amiamo colla suprema frenesia del naufrago, che le onde sferzano, il vento insulta e le stelle guardano indifferenti dalle lontananze infinite.

Perchè dunque?

È l’ideale della vita, che dentro di noi rimane intero sino all’ultimo istante, anche colla parola ridotta ad un soffio e il pensiero ottenebrato come uno di quei fanali, sui vetri dei quali la bufera gittò lungamente la polvere e il fango: è l’enigma dell’essere cominciato altrove e altrove destinato a risolversi. Qualche volta una fede gli ha dato un nome, sempre la speranza gli rinnovò la passione. Possiamo essere e vantarci increduli, ma il dolore della incredulità cresce dalle domande che avventiamo contro il mistero. Perchè questa nostra vita? Perchè questa nostra tragedia? Perchè abbiamo un pensiero, che sa il nome dell’infinito e indarno dà un nome alle cose, delle quali non può sapere l’essenza? Perchè in noi questo senso duplice della bellezza e della giustizia? Solamente noi aggiungiamo alla natura il dramma dello spirito. Essa non è nè buona nè cattiva, nè bella nè brutta; effimeri, noi abbiamo invece bisogno dell’eterno: deboli, tutto il nostro sforzo è nella conquista della potenza: vivi vogliamo un amore che superi la morte: morti, una vita che duri immutabile nella pienezza dello spirito.

La religione è ospizio ai credenti, mentre gli increduli debbono egualmente camminare senza riposo sulla stessa strada, finchè vinti dalla stanchezza girano sopra sè stessi, lamentandosi e cercando ancora cogli occhi la meta sempre negata. Il loro eroismo è quindi inutile come il dolore della vita, ma questa inutilità diventa così il dolore del dolore, l’estremo ineffabile momento della tragedia umana. Che importa l’accettarlo o il ricusarlo, se il sacrificio rimane per tutti inevitabile? I credenti vi sentono una prova, gl’increduli vi rispondono come a una sfida; negli uni il coraggio è pazienza, negli altri superbia; quelli sono sudditi, questi ribelli.

Questo libro non esprime nè la fede nè l’incredulità: sarà più piccolo e più basso.

La vita e la storia hanno forme e sentimento ideali immutabili, benchè a certe epoche, nello sforzo di una rivoluzione o di una ascensione, sembrino scomporsi e cangiare: ma non è che un errore inevitabile, una illusione necessaria.

Ecco il motivo del libro.

Non vengo ad affermare una fede, a rinnovare una speranza: come tutti io non so, come tutti sono sospinto: ho sofferto e negato. La vita è tragica senza nè mutamento nè tregua, lo spirito così profondo che ogni rivelazione raddoppia il suo mistero.

Ma noi chiamiamo legge della natura le apparenze costanti dei suoi fenomeni, e guardando nella storia siamo costretti a scegliere le sue verità nei fatti e nelle forme che non vi mutano: poi la bellezza e la giustizia irresistibili nell’istinto diventano l’inconsapevole norma dei nostri giudizi, l’illusione ed insieme la certezza del nostro ideale.

Quale è dunque l’ideale presente?

Sarà una insurrezione dei deboli o una rivolta dei forti, che deciderà del suo trionfo?

Share on Twitter Share on Facebook