CAP. VIII. L’Affermazione.

Il secolo XX, si è affermato colla grande crociata bianca d’Europa contro la China e la successiva vittoria del Giappone sulla Russia: evidentemente l’Asia sarà per lungo tempo il problema più importante come l’Africa lo fu nel secolo scorso e per gli altri l’America: fors’anche l’integrazione delle nazionalità europee, poichè l’Europa è sempre il centro ideale del mondo, non ebbe più alto scopo. La misura del valore in ogni popolo è data soltanto dalla cooperazione ai problemi che lo superano, quindi nella sua politica estera si esprime la sua maggiore potenza di primato e di gloria.

E poichè in ogni epoca della storia preparazione ed azione si equilibrano, il secolo XX sarà un grande secolo.

A risollevare il continente asiatico nessuna singolare forza di popolo poteva bastare: esso era troppo vasto, antico, vario ed inerte perchè il braccio di un eroe o l’anima di una gente vi fossero valida leva: dall’Asia crebbe e si diffuse per razze l’umanità, dall’Asia tutto incominciò e sul suo suolo eternamente fecondo nulla finì. Cuna delle prime civiltà, essa doveva poi rimanere come segregata dalle loro stazioni più luminose nella lontananza dei secoli e delle genti, sino a velarsi nel mito e a chiudersi nel mistero: la sua antichità superava ogni memoria di tradizioni e di monumenti, la sua ampiezza non potè mai essere riempita, la sua varietà pare anche adesso quella di una prima matrice, il suo peso stancò tutti i suoi popoli e prostrò le forze di tutti gl’invasori. Senza l’Asia la storia europea diventa inintelligibile; guerre ed invasioni mantennero il contatto fra oriente ed occidente, le colonie furono come fari accesi nella notte, le ultime conquiste dell’Olanda del Portogallo della Francia e dell’Inghilterra come accampamenti sui confini dell’immenso nemico. Ma nessuna nazione europea era più abbastanza giovane e numerosa per potere all’infuori della Russia esercitare sul continente giallo una immediata influenza di razza; nelle Indie l’Inghilterra sostituitasi agli ultimi conquistatori non li superò che nella abilità degli affari, ma essa è appena un’isola remota, dalla quale un piccolo popolo di grandi mercanti può soltanto diffondere merci idee danaro. Il suo commercio e la sua industria sono universali solo superficialmente: trovano vie e le dilatano, scovano le ricchezze e le moltiplicano, portano seco una civiltà incomunicabile nel carattere nazionale e quasi impersonale nell’azione. Il numero del popolo inglese è troppo scarso, e il suo spirito troppo individuato per avere ancora una vera forza di attrazione, quella strapotenza di razza, che coagula, assorbe, e fonde.

Quindi l’Inghilterra, come già i Tartari invadendo la China, rimase essa medesima prigioniera dentro la grandezza delle Indie, immensa fattoria, nella quale i padroni debbono contentarsi della debolezza dei servi, senza pretendere ad un comando distruttore o creatore.

La Russia invece era da tempo l’ultima razza vergine in Europa: la grande civiltà antica fu greco-romana, poi dalla lunga incubazione medioevale crebbe nella razza dei germani, giacchè le rifioriture neolatine non ebbero dentro se stesse una individualità abbastanza capace di conquista. Gl’inglesi prevalsero nell’azione, i tedeschi nel pensiero: quelli da lungi ripeterono i romani, questi i greci: il periodo di entrambi non fu lungo, nè l’opera caratteristica come ai secoli di Pericle e di Augusto, perchè nel nostro mondo una mistura sempre più densa e profonda affrettava l’avvento dell’unità.

Il problema europeo una volta dibattuto sul Reno, sul Po, sul Danubio, ribolle ora alla foce di quest’ultimo e sulle sponde del Mar nero, che dopo essere stato uno stagno turco sta forse per diventare un lago russo, se il panslavismo nella sua incalcolabile forza di espansione, trionfando delle opposizioni austriache ed inglesi, offra alle popolazioni slave del sud più pronta indipendenza dalla Porta. Quindi l’avvenire della storia europea non potrà avere che dalla Slavia una terza originalità.

Un immenso popolo disseminato sulla metà del nostro continente sta per aprirvi un periodo di civiltà pari al latino e al germanico. Il suo numero enorme è tuttavia piccolo per il suo territorio: la sua orbita abbraccia gran parte dell’Asia e si spiega dal mare di Bering al mare glaciale sino al Baltico, penetra nella Scandinavia e nella Prussia, dal Mar nero tende al mediterraneo e da questo all’adriatico e all’oceano indiano. Le vanguardie slave vigilano nella Dalmazia, sono accampate nel cuore dell’Asia: gli eserciti russi corsero già vittoriosi tutta Europa da Parigi a Costantinopoli: l’impero degli czar ha l’estensione e la varietà di un mondo. Nella sua spaventevole unità governativa presenta ancora la più salda compattezza attraverso le antitesi di tutte le forme della vita primitiva colla moderna: religione e politica vi sono fuse da secoli nello czar pontefice e imperatore, che regna governa giudica rivela a nome di Dio. La forza dell’impero è al di là di ogni calcolo come l’autorità del suo governo al di sopra e al disotto di ogni critica, nessuna guerra può vincerlo, nessuna rivoluzione rovesciarlo. Entrato da poco più di un secolo nella storia europea ne domina già le vicende; ha indagato la rivoluzione francese, cancellato il primo impero napoleonico, organizzata nella santa Alleanza la reazione monarchica, liberata la Grecia, sottratti i Principati danubiani alla Turchia: colla voracità del barbari divora tutti i prodotti della nostra civiltà per meglio assimilarsene la sostanza: ha già una scienza, una letteratura una musica una politica, della quale i disegni sorpassano tutte le complicazioni diplomatiche degli altri governi. Con un orgoglio intrattabile minaccia simultaneamente Asia ed Europa: il suo sogno è di espandersi dall’India all’Illiria, la sua marcia attraversa regioni di tutti i climi e di tutte le storie, lenta, calcolatrice, senza mai indietreggiare, assodando la conquista prima di aumentarla, aiutandosi egualmente colla barbarie servile della propria moltitudine e colla raffinata coltura del proprio governo. Nessuna tirannia forse è più terribile e meno capricciosa della sua, che ubbidisce ancora più fanaticamente del popolo all’idea di un mondo russo.

Di fronte al suo impero quello austriaco pare una piccola confusione burocratica e quello della Germania un accampamento militare; entrambi debbono destreggiarsi nella politica. La Russia sa di non poter essere mutata da alcuna guerra.

La terribilità della sua forza si rivela tratto tratto nelle esplosioni dei suoi rivoluzionari, che in un sogno di occidente vorrebbero trarla dalla propria base; ma il panslavismo è ancora adesso la più larga, profonda idea nazionale della storia.

Se l’Europa avrà una terza civiltà, probabilmente l’ultima, giacche le epoche debbono sempre trarre dal fondo dei popoli la propria originalità e nell’Europa soltanto la Russia è ancora originale, questa civiltà sarà slava o non sarà. Noi latini ci esprimiamo già per individui da gran tempo e nella nostra coscienza tutti gli strati furono sommossi, e sulla nostra superficie tutti i lineamenti si confusero in una fisonomia incerta di secoli e di razze; gl’inglesi ancora più individualisti di noi si consumano nell’opera e non possono rinnovarsi nel numero, nella fibra, nell’idea. I tedeschi nel secolo scorso diedero al mondo moderno la sua sintesi ideale oltre i confini delle lingue e i limiti delle religioni; Goethe, Beethoven, Hegel, ecco il grande ternario germanico; Bismark, Moltke, Marx, ecco la triade prussiana: Bismark che concepisce l’impero, Moltke che lo fonda nella vittoria, Marx che lo dissolve in una negazione universale.

Nella recente guerra col Giappone la Russia era l’ultimo e massimo campione d’Europa: dominava già tutto il nord dell’Asia, vigilava da Porto Arthur e da Wladivostok sul mare, si avanzava come un alluvione, colonizzava romanamente dando un’impronta alla terra ed assorbendone l’anima. Davanti ad essa la China non aveva che la resistenza delle cose morte: poi la Russia era discesa verso la Persia, toccava già all’Afganistan; essa sola aveva un popolo agricolo ancora vibrante nella passione dei nomadi e così innamorato della terra da cercarvi sempre nuove regioni e da riempirle: essa sola sulla fine del secolo XIX possedeva ancora l’unità barbarica del comando necessaria alle lunghe imprese, e quella ingenuità fors’anco più barbara nelle masse guidate dall’istinto e sollevate dall’obbedienza.

La guerra fu combattuta per il primato di conquista e di influenza sul continente asiatico; il campione bianco rappresentava tutta la civiltà europea e l’originalità del suo estremo popolo; il piccolo campione giallo era già il primo risorto della sua immensa razza, provando che la immobilità ne era solo apparente, e che l’antica madre poteva ancora essere fecondata. Il trionfo giapponese ha rivelato con una serie ininterrotta di vittorie, che nella civiltà bianca la coscienza è già inferiore all’intelletto, e l’unità ideale della storia non basta più a dominarvi l’antagonismo delle nazioni e a sollevare l’anima delle genti. Infatti nessuno volle sentire che la sconfitta russa era un’umiliazione europea, giacchè nessun altro popolo vi avrebbe fatto una prova migliore, mentre tale prova inevitabile ricadeva su tutti per solidarietà di razza.

Il Giappone è adesso il più alto protettore asiatico, la Russia invece dal disastro della potenza e della gloria imperiale trarrà forse un irresistibile motivo di rinnovamento democratico, che liberi le magnifiche originalità della sua natura, ripreparandole a un non lontano trionfo. Certamente lo czarismo non potrà esservi sostituito, nè la democrazia svolgersi colle forme e col ritmo d’occidente, ma qualche gran cosa matura in quest’ultimo impero, il più vasto della storia.

La sua disfatta dopo quella della Spagna a Cuba e dell’Inghilterra coi Boeri, ai quali finì col prevalere soltanto perchè il loro numero inferiore a quello di una mediocre città si era consumato nella guerra; la disastrosa ritirata dell’Italia davanti al Negus d’Abissinia, le umili sottomissioni della Francia a qualunque minaccia, dinanzi ad ogni pericolo; la viltà della Grecia insorta per Creta e caduta subito alle ginocchia del primo reggimento turco, la ridicola vittoria degli Stati Uniti contro la Spagna che non si batteva più, e contro il piccolo Aguinaldo, avventuriero e bandito, non vinto ma comprato a tradimento, rivelano che 1’uomo civile non guarda più come una volta alteramente la faccia della morte.

Invece la vertigine degli armamenti aggira e precipita ogni paese, la pace armata costa annualmente al mondo il doppio di qualunque guerra; non vi è quasi più spirito militare e tuttavia non sembra possibile concludere che così lunga vasta unanime preparazione debba riuscire alla chiarità di un disinganno, che proclami il disarmo universale. La vita e la storia anzichè ingannarsi sul mezzo e sul fine uguagliarono sempre quello a questo, lasciando talvolta indovinare nello sforzo della preparazione l’importanza del risultato. Gli Stati Uniti geograficamente al coperto d’ogni pericolo hanno proclamata la necessità di un esercito e di un’armata, l’Inghilterra sta per assoggettarsi alla coscrizione, nessuna nazione osa nonchè disarmare credere alla sufficienza delle vecchie armi: ma la preoccupazione di tutti è sul mare.

Ciò annunzia che la lotta suprema avverrà forse lungi nei continenti inferiori, sui quali i popoli prevalenti saranno quelli di una più originale personalità: fors’anco tutta la nostra vita economica dipenderà ben presto dai contraccolpi della nostra azione all’estero, più probabilmente ancora ogni vita ideale non avrà altra ampiezza che quella conquistata dalla forza della volontà.

Nel passato l’individuo era sostenuto e protetto dai gruppi sociali, di lui più antichi, se non immutabili quasi immobili. La stratificazione delle classi, l’antagonismo delle patrie, l’inimicizia delle religioni, la precisione delle idee comuni, l’onnipotenza delle leggi garantivano la vita pur limitandone lo sviluppo.

Oggi la libertà disciolse gli ultimi vincoli e rimise l’uomo dinanzi al problema di sè stesso. Nulla è cancellato nè si cancellerà nella sua coscienza, ma tutto vi ondeggia: la sua responsabilità d’individuo è incalcolabilmente maggiore: può mutare tutti i paesi, sottrarsi a tutti gli obblighi, diventare impersonale nella rinunzia a tutte le cittadinanze; ovunque lo stesso danaro, la stessa libertà, lo stesso codice gli garantiscono la stessa vita; il suo egoismo d’incredulo, di nomade, senza patria, senza famiglia, senza Dio non ha più limiti esteriori. Gli è permesso di profittare di tutto senza dover nulla a nessuno.

Però la sua responsabilità non fu mai più grave, nè la sua personalità ebbe un bisogno più intenso di vincoli ideali. Ridotto ad un atomo come nella concezione del Contratto Sociale l’individuo vanisce; disciolto dalla razza, dalle tradizioni della sua gente, diviene inintelligibile a sè stesso; libero dalle coercizioni delle leggi deve imporne altre a sè medesimo e sentire nella propria vita quella del proprio popolo, amando nella sua passione, innalzandosi nella sua fede, sognando nella sua speranza. Solo, non vivrebbe nè fisicamente, nè spiritualmente, perchè le necessità dello spirito sono più profonde ancora che non quelle del corpo. Adesso la sovranità elettorale facendo di ogni uomo un legislatore lo solleva in un’idea e in una coscienza comune. Cittadino e soldato gli è consentito di abdicare il diritto e di gittarne il dovere, ma dopo sarà uno straniero parassita dappertutto, e giacchè lo straniero spirituale è un intruso e il parassita una malattia, verrà respinto ad ogni istante in sè stesso, condannato a riempire della propria ombra la propria solitudine. Vi è invece dentro ognuno di noi una terra, che s’illumina anche di notte e fiorisce in tutte le stagioni, quella dove seppellimmo nostro padre e che bagnammo bambini delle nostre prime lagrime. Si può esprimere lo stesso pensiero in tutte le lingue, come si possono adattare tutte le bare al medesimo cadavere, ma una parola sola è vivente dentro di noi, nella profondità della razza e può sola significare tutta la nostra anima rivelandone l’individuale secreto nel tremito di un accento, nello squillo di una vocale.

Qualcuno disse già che nel mondo antico l’uomo era triplo, individuo, famiglia, patria, e che nel mondo moderno sarà duplice soltanto, individuo e umanità, l’atomo e la massa, lo spirito singolo e l’universale.

Ma non può essere vero.

L’individualità nuda è un’ipotesi falsa, l’umanità identica sarebbe l’umanità vuota.

L’individuo invece non è tale che nella unità delle proprie antitesi; sopprimete in lui il temperamento della razza, il carattere della nazione, la fisionomia della famiglia, e la sua originalità si annebbia; tutta la differenza fra il mondo antico e il moderno sarà soltanto in questo, che allora qualità e funzioni native erano come solidificate esteriormente e adesso ridiventano ideali, senza coercizione, quindi più forti e più belle.

Ubbidire alla legge, che sentiamo dentro di noi e possiamo formulare contro il nostro difetto, è il più alto grado della libertà; appartenere ad un gruppo per un’intima, irrefutabile coscienza di rapporti primitivi e per la necessità di una cooperazione vitale, è un attributo della regalità. Il re era primo fra tutti, perchè solo significava il loro passato e il loro avvenire identificando il proprio interesse con quello di una gente.

L’affermazione ideale, che dovrà costituire in falange cavalleresca senza capitano e senza bandiera la nuova aristocrazia dispersa in tutti i gruppi sociali, sarà quindi una parola eterna, vera ieri come domani, l’affermazione che vita e storia non possono essere mutate nell’essenza, ma debbono sempre nobilitarsi nelle forme: che la vita è tragedia e la storia poema; nell’una l’individuo soccombe davanti a sè stesso, nell’altro s’immola alla continuità della propria gente. Bisogna affermare che la libertà non è che la coscienza della necessità, e come la scienza emancipa la natura dalle superstizioni rivelando le sue leggi immutabili per preci e per bestemmie, così la libertà emancipa lo spirito nella sottomissione alle leggi morali e intellettuali. Bisogna affermare che l’amore è motivo della generazione, e gli sposi debbono sparire nei genitori sacrificandosi alla devozione pei figli; bisogna affermare che tutto quanto forma il nostro spirito è un legato della storia per le generazioni future, quindi il nostro interesse nel presente soltanto un’eco del passato, che ridiventerà voce nell’avvenire. Ogni cooperazione umana aumenta di responsabilità crescendo di importanza, giacchè la superiorità non è che il diritto di soffrire più in alto, pensando per quelli che non pensano, amando per quelli che non amano, lavorando per quelli che non lo possono.

La grandezza dell’individuo si misura alla quantità delle anime, che può assorbire e significare: nessun individuo ha niente da dire finchè parla di se stesso.

Se la vita e la storia avessero sbagliato fino a ieri, non potremmo conoscerne l’errore, perchè la vita e la storia fummo noi stessi e siamo come fummo: il progresso perfeziona non contraddice, le verità si rivelano non s’inventano. Le nostre ultime religioni non dicono nulla più nelle prime a chi sappia interrogare il passato, ma lo dicono meglio; le recenti scoperte della scienza, che ci sembrano così abbacinati, balenarono come intuizioni nella mente dei primi pensatori; i più vasti sistemi della filosofia si espressero già per proverbi e per dogmi. Dovunque vada l’umanità, l’individuo vi è come la goccia nell’oceano, non può uscirne e ne sente tutte le vibrazioni: è libero dentro le sue correnti, s’innalza nei suoi vapori, si perde assorbito dalla terra eternamente in gestazione.

Adesso bisogna affermare che le moltitudini emancipate prima ancora di essere libere hanno bisogno di vedere in una aristocrazia morale ed intellettuale la figurazione della propria vita per intenderla, e che nella libertà nessuno può redimere un altro. La redenzione invece è dentro tutti, in alto, nel cuore che si sacrifica, nella mente che crea.

La sovranità popolare sarà più falsa e dolorosa di ogni passata tirannide, se l’elettore non affermi contro se stesso che il suo diritto è vero soltanto nella verità della coscienza.

Per noi italiani la prima grande affermazione sarà questa: che la nostra rivoluzione non trionfò per la nostra virtù di popolo, e che la sua fortuna c’impone adesso di fare un’Italia grande.

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