CAP. VII. La nostra composizione unitaria.

La prima metà del secolo XIX fu per l’Italia una delle più belle fioriture di ingegni, una delle messi più ricche di caratteri.

La necessità sempre crescente della rivoluzione metteva negli eletti della vita una forza di rappresentanza che le funzioni parlamentari cercarono poi d’imitare inutilmente e non raggiungeranno mai. Ognuno di essi sentì di riassumere qualche bisogno, di esprimere un’idea nazionale: molti furono i grandi, moltissimi gli illustri. Come se l’Italia volesse conquistare l’ammirazione dell’Europa per strapparle in un applauso il permesso di risuscitare, profuse i pensatori e gli artisti, i martiri e gli eroi: quindi dopo la rivolta del trentuno esplose l’insurrezione del quarantotto e scoppiò la rivoluzione del cinquantanove. L’epoca fu così meravigliosa che parve un miracolo e resterà una favola, ma nessuno potè ancora fare il calcolo di tutte le forze che vi cooperarono, di tutti i sacrifici che vi contribuirono. Vi furono libri che valsero battaglie, battaglie che nessun libro ha saputo narrare: si udirono motti che erano poemi, si fecero poemi, dei quali nemmeno un motto fu scritto. Accanto ai grandi del pensiero si drizzarono i forti dell’azione, le corone dell’alloro furono posposte alle ghirlande del martirio, il sangue scialacquato come il danaro, le parole ebbero efficacia di fatti, i fatti prontezza di parole. E il sogno colorato dalla luce di tante fantasie si solidificò come per incanto sotto lo sforzo di tutte le volontà, mentre l’Europa guardava attonita dalle Alpi e Roma si levava trasognata sul Tevere.

Ma appena compiuto il prodigio, tutti si guardarono in faccia e nessuno più si riconobbe; quasi tutti i caratteri piegarono e gl’ingegni decaddero: gli eroi diventavano soldati, i martiri si trasformarono in impiegati. L’epopea finiva fatalmente alla commedia, dacchè l’idea si era tradotta nel fatto e il sentimento si riabbassava verso il senso.

Era una legge della vita e della storia.

La rivoluzione italiana anzichè opera di popolo aveva trionfato per un sopruso eroico della sua minoranza aiutata da incidenze e coincidenze straniere, prima attirando nella propria orbita l’avventura del secondo impero napoleonico, poi profittando dall’antagonismo di questo col nuovo impero germanico. Ma il popolo nella massa era rimasto come inerte: scarsi i volontari sino a non superare il numero e la fortuna di una milizia cavalleresca, poche le battaglie e quasi sempre decise dalla preponderanza degli alleati; malgrado la putredine di tutti i governi abbandonati dall’Austria non vere insurrezioni contro di essi, nemmeno dopo la sua sconfitta sul piano lombardo; all’impresa del mezzogiorno giovò meglio la viltà borbonica che l’eroismo garibaldino; l’opposizione papale al comporsi dell’unità non ebbe fede nè di odio nè di amore, e si ricusò ai pericoli di una difesa contro le impazienze rivoluzionarie sottomettendosi piuttosto ad un protettorato francese.

Sui primi del cinquantanove Mazzini era già politicamente sorpassato, perchè la sua predicazione repubblicana imponeva al paese di essere eroico contro tiranni interni ed esterni bastando a se stesso nella rivoluzione, ed invece l’Italia non vi era matura, e il suo spirito militare morto da gran tempo non era pronto a risorgere, e la sua miseria morale più triste ancora dell’altra, che manteneva quasi inerti città e campagne. Se la ribellione del quarantotto aveva liquidato tutto il passato, rivelando l’inanità di tutti gli schemi rivoluzionari, cosicchè nel ritorno dei principi il solo risultato di tanti mali apparve nella consolidazione dello statuto albertino; dopo, alla ripresa unitaria, la monarchia di Savoia fu accettata dalla nazione come la formula più economica di ingegno di sangue e di danaro per conquistare l’indipendenza e l’unità della patria. La monarchia dispensava dall’eroismo repubblicano; con essa e per essa si potevano ottenere alleanze di eserciti, ma bisognava destreggiarsi nell’umiltà dei guadagni, aspettare il beneplacito dei protettori nascondendo i propositi e tradendo i principii.

Cavour fu il genio di questo periodo, e compiè dentro l’opera dell’unificazione nazionale il più stupefacente miracolo della politica nel secolo XIX: non credeva nel popolo e sentiva tutta la debolezza storica e personale della dinastia savoiarda, quindi rinunciando alla bellezza delle forme e dei principii rivoluzionari ne inventava quotidianamente un’altra più feconda negli espedienti di un’azione costretta sempre a contraddirsi senza deviare dalla strada o perdere di vista la meta. All’impotenza della sua abilità, che i fatti spesso opprimevano, gli eroismi di Mazzini e di Garibaldi soccorsero come una integrazione, e anche questi parvero iniziative popolari, mentre erano soltanto il capolavoro improvvisato di una minoranza lirica e tragica, che superiore al paese e al suo periodo non avrebbe potuto nè riassumerlo nè capitanarlo.

La rivoluzione trionfò.

Tutti i principi furono spodestati, ultimo il papa; entro l’unificazione dinastica si compose l’unità nazionale: parlamento esercito burocrazia funzionavano come crogiuoli a disciogliere le centenarie ancora ostili differenze regionali, per le strade improvvisate come per nuove vene passò un nuovo sangue; la soggezione alla Francia imperiale, che ci faceva scontare nelle umiliazioni i benefici del suo interesse avventuriero, ci insegnarono la subdola abilità dei nuovi affari ridestando nei ricordi la scienza delle diplomazie all’epoca dei comuni e dei principati: lo scetticismo, che ci aveva spesso fatto sorridere dinanzi alle congiure di Mazzini e alle scaramucce di Garibaldi, diventò una buona qualità in tale tempo di transizione e di transazione, mentre bisognava fondere passato e futuro in un presente ancora troppo incerto e senza difesa.

Il risveglio nazionale avvenne quindi nell’industrialismo, che la libertà rendeva facile: si trattava di vivere liberi lavorando per se medesimi a preparare una grande nazione moderna, appunto perchè non si era saputo fare autonoma la sua rivoluzione. Nulla è più pronto nei popoli come negl’individui che l’obblio dei benefici e delle umiliazioni; l’Italia dimenticò.

Istinto e senno la mantennero stretta intorno alla monarchia di Savoia; l’indistruttibile personalità italiana sviluppandosi nella libertà trovò ben presto i modi di nuove affermazioni per un mondo industriale, che metteva la perfezione nella media e la saggezza delle intenzioni nell’utilità immediata dei risultati; bastava quindi riaprire una a una le piccole sorgenti della vita nazionale, facendo una politica d’interessi con migliori metodi di lavoro, serbandosi liberi dopo aver ricevuto la libertà in dono senza nemmeno restare in debito col donatore. Il secondo impero napoleonico era caduto, e morto nell’esilio il secondo imperatore.

Quindi Mazzini fu dimenticato a Londra e si assegnarono una pensione al papa e un’altra a Garibaldi. Roma, così grande nella rettorica di tutti i tempi, non era adesso che la città più improduttiva d’Italia dopo Napoli, un centro storico ma senza influenza sulla nazione, una capitale burocratica cui il papato soltanto dava ancora una gloria universale. Infatti Roma non domina nemmeno oggi la politica delle provincie, non ha un carattere, una moda, un’arte, un’aristocrazia, una ricchezza preponderanti. La sua grandezza è soltanto nei ricordi, la sua beltà dura nella morte: immenso quadro dell’antichità mediterranea sfondato dagli uragani e divenuto cornice di un quadretto moderno.

Nei partiti un’eguale contraddizione impediva l’allargarsi della base e il migliorare dell’opera; quello conservatore era soltanto tale contro le inutili escandescenze dei rivoluzionari, ma più rivoluzionario di loro nella realtà cacciava principi e papa sopprimendo confini e conventi, inventando una legislazione laica, cancellando privilegi e caratteri regionali, improvvisando una nazione nella libertà. Quindi un giacobinismo istintivo ed insieme teorico gli faceva spesso smarrire la misura: non aveva una vera fede monarchica, soffriva ancora di velleità anticlericali, tratto tratto prorompeva in impeti rivoluzionari. Poi la monarchia di Savoia era stata troppo avventurata nella umiltà delle alleanze, nella frequenza delle menzogne e delle ingratitudini; la sua invincibile verità cresceva appunto dalla somiglianza alla nazione, la quale non volendo nè pagare nè morire pel proprio riscatto abilmente si ingegnava colle idee e coi fatti altrui. I migliori tra i monarchici l’avevano malinconicamente accettata, come una necessità alla miseria spirituale d’Italia.

Invece il partito liberale sino alla fortunata presa di Roma non aveva potuto essere che una opposizione critica; la necessità di accettare la monarchia gli toglieva quasi ogni influenza sul popolo, che meno responsabile e più ingenuo accusava in essa le proprie insufficienze, e rendeva più lungo il tirocinio parlamentare delle sinistre rivalleggianti fra uomini ancora di congiure. La loro politica doveva quindi essere più di impazienze che di iniziative, di parole che di fatti; urlavano ad ogni viltà monarchica, che i ministri non avrebbero potuto impedire, mentre come deputati sentivano che la sua causa prima stava nel fondo della nazione. Intanto qualche cosa del carattere rivoluzionario si perdeva in loro per la pratica degli affari; giacobini anch’essi o girondini, quasi tutti colorati ancora dai riflessi dell’epopea garibaldina e tonanti di eloquenza mazziniana pur nell’oblio del maestro. Il loro programma era una democrazia teoretica; riformare, uguagliare, con una segreta invidia agli ultimi privilegi patrizi, con una ostilità impermalita verso la monarchia, con una fede rettorica nella capacità del popolo.

I repubblicani rimasti come i clericali fuori della nuova orbita politica si sentivano troppo pochi per mantenersi partito, dacchè Garibaldi aveva accettata la bandiera di Vittorio Emanuele e Mazzini era morto. La loro vita era stata di sogno: con Mazzini avevano sognato un’Italia repubblicana cercandone la culla nelle tombe dei primi comuni, con Garibaldi avevano combattuto in un altro sogno di vittoria contro tutti i nemici e contro la monarchia stessa, come se il popolo d’Italia potesse veramente rinnovarsi in un simile sforzo: e invece il popolo aveva accettato egualmente ogni beneficio da Pio IX e da Napoleone III, da Mazzini e da Cavour, da Garibaldi e da Bismark, ilare nell’incoscienza della propria bassezza, superbo nella coscienza della propria resurrezione.

Questo partito di poeti doveva quindi finire nel tramonto della poesia alla più uggiosa rettorica: Mazzini, natura lirica e tragica, non lasciava nè scuola nè scolari; i seguaci erano pedanti e i pretendenti al suo posto ombre, non figure. Uno ad uno i migliori se n’erano andati agli appelli della storia e ai richiami dell’ambizione; Cavour arruolò i più forti, coloro stessi che Mazzini non aveva potuto assorbire; alcuni, nobili e poveri caratteri, rimasero immutati, e scomparvero nell’indifferenza del pubblico, per un giorno soltanto servendo col proprio cadavere ad un espediente teatrale di opposizione.

I socialisti apparvero dieci anni dopo la Comune di Parigi, francesi anch’essi nell’abito rivoluzionario e tedeschi nell’idea di Marx; ma Pisacane, che somigliava a Proudhon come un maestro elementare ad un maestro vero, aveva già battezzato nella morte una prima ribellione subordinandola alla necessità della patria ed uguagliandola nel carattere alle imprese di Garibaldi. Egli era però un principe cadetto ed un borghese povero; pochi contadini borbonici bastarono a massacrare la sua banda nella campagna di Sapri senza che l’Italia domandasse nemmeno il nome del morto capitano; nè oggi ancora il socialismo, divenuto il più nuovo fra i partiti, sente l’orgoglio di affermare la propria tradizione nel nome del suo unico eroe.

Ultimi i clericali, inerti e sorpassati, non erano nemmeno un partito, giacchè perdendo il predominio politico non ne avevano rimasto la coscienza. Del popolo avevano formato una massa bruta, della borghesia, una clientela d’affari, del patriziato una corte d’anticamera: la loro religione rimasta poco più di una bigotteria non aveva più nè luce di fede nè calore di carità; sottomessa alla politica di principi soggetti allo straniero, vivevano di parassitismo acuendo nell’ozio le facoltà scettiche della critica; odiavano istintivamente la rivoluzione e tremavano dei rivoluzionari senza comprenderli. Fortunatamente il clero anche peggiore non contrastò alla fortuna così meravigliosa ed incerta d’Italia; soltanto nel regno napoletano entrò non visto ad aizzare il brigantaggio stipendiato dal papa e dai Borboni, troppo inetti entrambi per suscitare una vera guerra come già nella Vandea. Quindi Roma alzò a precetto l’astensione politica rivelando la debolezza del proprio principio. Ma lentamente popolo, borghesia e patriziato clericale furono attirati nell’orbita rivoluzionaria; l’Italia era fatta e niente poteva più disfarla, la vita migliorava e cangiava, bisognava lavorare ed arricchire, le energie regionali si ridestavano all’eco dei pubblici dibattiti, la coscienza nuova cominciava nella necessità di partecipare ai benefici prodigati dal governo. L’unità vera si formava da questo rimescolio di interessi e di caratteri, di città e di campagna, di principati ridotti a provincie, di provincie decadute e risorte. Per quanto equivoci ancora i vantaggi delle prime libertà negli in convenienti del primo squilibrio costavano troppo poco a tutti perchè non venissero accettati; siccome i pochi eroi erano stati i primi ad essere vinti dalla rivoluzione, il loro idealismo non aveva più alcuna seduzione.

Le potenzialità della razza si svegliarono presto. Se i più ostinati e ribelli del partito rivoluzionario contrastavano ancora arrochendosi in aspre ed inutili predicazioni, se i più nobili rappresentanti del partito liberale, quasi sgomenti della ressa, che miseria ed avarizia facevano a tutte le porte forzandone tutte le consegne per cacciare di posto precursori e vincitori, si ritiravano malinconicamente, un’altra generazione giovane, impaziente, spregiudicata era già pronta a sostituirli.

La politica doveva intonare all’interesse, il regionalismo utilizzava le superstiti forze federali, la morale rimaneva quella di prima, perchè l’eroismo dei pochi rivoluzionari non era bastato ad alzarla. Insino alla presa di Roma il governo fu inferiore; dopo, la sproporzione colle maggiori potenze europee gli impose una preparazione costosa e difficile, che contrastava all’egoismo della moltitudine coll’imposizione di sempre nuovi sacrifici, e non permetteva ancora alcun atteggiamento di vera indipendenza. Poi la febbre del mutare salì; ogni mutamento conteneva la possibilità di altri impieghi e di altri uffici, il governo ammalava di elefantiasi, la politica imperversava nelle cabale, mentre il paese invece compiva un miracolo inaspettato rinnovellandosi davvero, e non consacrando alla politica che le forze e gli uomini inferiori.

Nel confronto d’oggi l’Italia del ‘59 è già un paese lontano nella leggenda; la terra dei cantanti e dei morti, la nazione carnevale, che gli stranieri visitavano mesti ed ironici, fra postriboli e monumenti, è oggi uno dei più moderni e vitali paesi. La nostra popolazione cresce così che in cinquant’anni sarebbe quasi raddoppiata senza l’emigrazione, la nostra ricchezza è forse decuplicata; fronteggiammo un debito inverosimile, creammo tutto, scuole esercito marina, improvvisammo senza miniere opifici e fabbriche accettando la sfida della concorrenza estera: le ferrovie furono alla nostra miseria una creazione forse più meravigliosa delle ferrovie americane, giacchè le costruimmo senza danaro e prima ancora che le altre reti stradali potessero congiungerle. Torino perdendo la capitale raddoppiò di valore economico, Roma tornando italiana risorse a magnifica capitale.

Ma la nostra coscienza ideale decadde: ci ammirammo nei risultati senza dolore per le frequenti viltà del loro processo, la borghesia abdicò all’orgoglio del comando, il popolo, che aveva ricevuto tutto in dono dalla rivoluzione, accusò tutti di parassitismo; una critica troppo facile dissolveva leggende e fatti, caratteri e superiorità; la predicazione della pace diventò scusa all’ozio e alla paura; la fortuna degli abili rese così miope l’abilità che si vollero sottomettere piccoli e grandi eventi alla sola regola dei bilanci. Accadde quindi che le più alte funzioni furono le più bassamente servite; nell’elettorato e nel parlamento la decadenza troppo rapida provocò l’ilarità quasi di una caduta: poteva dirsi che la selezione vi si compiesse a rovescio, mentre i partiti vi si dissolvevano e i ministeri vi sornuotavano incolori ed effimeri. Infatti se industria commercio agricoltura scienze tutto si fosse ritmato sul governo, nemmeno sarebbe stata possibile la improvvisazione della ricchezza. Ma stato e governo non salgono che per la forza latente nel fondo della coscienza nazionale: alla fioritura della superficie basta la fortuna delle stagioni, i grandi alberi invece esprimono la potenza accumulata dai secoli nel terreno.

L’Italia non potè stimare la monarchia nè credere alla repubblica: quella era un avventuroso compromesso di tutte le forze e le insufficienze paesane, questa un ideale di poeti prima, un pretesto di politicastri poi. Già nella retrogradazione dello sviluppo nazionale l’Italia non significava sè stessa che per minoranze, dacchè l’iniziativa e il primato politico europeo erano passati nella Spagna, quindi in Francia, in Inghilterra, in Austria, in Prussia. Noi ci accodammo allora servi e clienti, la rivoluzione francese ci mutò i padroni, l’impero napoleonico non volle e non potè ricostruirci. Laonde il nostro risorgimento si manifestò per eroi: congiure insurrezioni e guerre, ogni fatto collettivo fu povero: di rimpatto negli individui trionfò la più incantevole originalità. Così dopo la vittoria del ‘59 ci trovammo soli davanti a noi stessi, il passato ci aveva tolto ogni coscienza e il presente non poteva restituircela; invece la nostra razza aveva ammirabili qualità di resistenza e di iniziativa, che si esplicarono nella pratica immediata della modernità.

Sciaguratamente fallimmo la prima grande prova nell’Africa.

L’Europa, che quattro secoli or sono discendeva dalla vecchia caravella di Cristoforo Colombo all’America per costringerla ad entrare nell’orbita della propria storia, assediò l’Africa da ogni costa per tutto il secolo XIX. Dopo le antiche barche fenicie le prime flotte intorno al misterioso continente nero erano state italiane; i pennoni di Amalfi e di Pisa, di Genova e di Venezia, di Roma e di Palermo si gonfiavano superbamente ai venti del deserto; alcuni veneziani del secolo XV offersero ad un sultano di tagliare l’istmo di Suez, miracolo di audacia allora, prodigio di scienza poi e che avrebbe senza dubbio potuto compirsi anche allora. Mentre Colombo e Vespucci scendevano in America, Cadamosto veneto penetrava nel Senegal e nella Gambia, ma l’Italia già esaurita dal rinascimento non poteva seguirlo; quindi sulle sue orme proseguirono inglesi, portoghesi, francesi sino a Napoleone e dopo Napoleone. L’Italia invece non vi mantenne che ideali relazioni: Rosellini disegnò forse le migliori tavole egiziane, Bolzoni e Caviglia entrarono delle piramidi, Servolini, un mio compatriota, succeduto a Champollion, lo superò quasi nell’interpretazione dei geroglifici: Passalacqua portò la prima mummia a Torino, recentemente Maspero disseppelliva quella del grande Sesostri e ne leggeva l’iscrizione al mondo meravigliato. Dopo il ‘59 le colonie italiane a Tunisi al Cairo ad Alessandria aumentarono d’importanza: qualche cosa sollevava l’anima della nazione, un vento misterioso la portava lungi. La febbre delle scoperte, la passione dei viaggi si riaccendevano e l’Italia si precipitava anche essa nell’arringo. Era fatalità ed istinto, una legge della vita e della storia.

Piaggia, Antinori, Gessi risalgono il Nilo origliando e stringendo le ciglia verso il centro dell’Africa; là è il mistero, di là soffiano le tentazioni. Ma la gloria di sfondarlo rimase divisa fra Stanley e Pellegrino Matteucci, il mio mite ed eroico compagno di scuola. Stanley raccontò poi il viaggio con epica e superba sobrietà, Matteucci ne morì a Londra quasi senza parlare. Dopo lui altri si slanciarono indarno; Chiarini, Giulietti, Porro, Bianchi furono trucidati; Cecchi, più fortunato sul principio, mutò l’epopea in romanzo rimanendo per cinque anni prigioniero amante della regina di Ghera: poi libero ritentò l’impresa e vi perì abbandonato come gli altri.

Nel parlamento e nel governo infatti niente e nessuno sembrava sentire questa irresistibile e tragica attrazione del continente nero; eravamo stati battuti diplomaticamente dall’Inghilterra a Cipro, dalla Francia a Tunisi e a Tripoli: avevamo ricusato di cooperare nell’Egitto coll’Inghilterra dopo la rivoluzione abortita di Araby-bey, mantenevamo sulla costa di Assab una minima fattoria senza nemmeno una bandiera. Ad ogni interpellanza sul massacro di un nostro eroico viaggiatore i ministri rispondevano negando ogni solidarietà mentre nel paese saliva un fervore di poesia e di orgoglio. Si cominciava a sentire oscuramente che tutti gli sforzi millenari dell’Italia per costituirsi in nazione, il sangue del suo eroismo e le tragedie del suo genio non miravano che a ridarle una fisionomia e un valore di attrice nella storia europea: che la cooperazione della Francia e della Prussia nel nostro risorgimento non potevano avere altro significato; che l’Italia risorta e chiusa nei proprii confini come dentro una tomba sarebbe spettacolo più doloroso dell’Italia morta. Bisogna quindi affermarsi in una impresa oltre i limiti nazionali; oramai la preparazione durava da trent’anni e poichè lo sforzo maggiore dell’Europa era in Africa, l’Italia non doveva mancarvi. Dopo secoli e secoli la nostra bandiera tornerebbe minacciando sui mari che l’avevano dimenticata, e non sarebbe più la bandiera di Venezia o di Genova che avevano scoperta l’America e salito le mura di Costantinopoli, non quella di Roma che aveva annichilito i turchi a Lepanto, ma la bandiera d’Italia sventolante sulle aste delle aquile romane.

Una grande ora stava per discendere sul quadrante della storia.

Andare in Africa significava tornarci, perchè l’Italia vi aveva vinto Annibale, imprigionato Giugurta, sottomessi i Tolomei, sconfitti i Saraceni, dissipati i Barbareschi: altra volta l’Italia sintetizzando l’Europa e profetandone l’avvenire si era battuta contro tutto lo sforzo d’oriente e aveva trionfato. Ma Garibaldi e Mazzini erano morti: una volgare democrazia snaturava la grandezza del loro genio e del loro carattere nelle più miserevoli interpretazioni: non si voleva nessuna guerra coll’Africa riconoscendole lo stesso diritto nazionale dell’Italia, si confondevano storia e preistoria, si pareggiavano le loro diverse epoche e le loro contraddittorie personalità. Si dimenticava che se i più civili non avessero sempre conquistato i più barbari la civiltà non sarebbe mai cresciuta. Nutrita dal principio di eguaglianza morale e politica, la democrazia non comprendeva che tale alta verità diventava falsa fuori del proprio periodo, e che la storia anzichè consacrare l’intangibilità di alcun popolo distrusse sempre quelli che non potevano sottomettersi al suo disegno.

Nell’impero d’Africa, come per la massima prova passarono quindi governo partiti e classi: la monarchia vi perdette la propria ragione ideale, giacchè il paese l’aveva nella rivoluzione preferita alla repubblica soltanto per una più efficace virtù davanti ai problemi di politica estera e per il suo stesso difetto di mantenere l’estrema punta del potere esecutivo al disopra delle competizioni elettorali. Una monarchia incapace di rendere alla nazione simili servigi può durarvi ancora, ma non vi è più vivente. Nel parlamento la destra non vi sentì il bisogno di riscatto dalle umiliazioni di Villafranca e di Aspromonte, dì Custoza e di Mentana: la sinistra non vi indovinò la modernità lontana, come già Garibaldi che per aiutare l’Italia era andato a costituirle un esercito e una gloria a Montevideo; i repubblicani di fronte all’insufficienza monarchica accusarono scioccamente la monarchia di aver voluto tale conquista, il Senato non si alzò sulla Camera ad ammonire superbo, il popolo solo urlava vendetta ad ogni eco di sconfitta, e si sarebbe forse scagliato alla guerra nella prima febbre del sangue se i caporali di tutti i partiti non lo avessero ingannando frenato.

Il disastro spirituale era enorme. Se ad Aspromonte la monarchia incapace di risolvere il problema di Roma doveva contenderne l’onore a Garibaldi per evitare una collisione col secondo impero napoleonico, e nel ‘66 la sconfitta di Custoza si poteva spiegare coll’inferiorità del nostro esercito composto di reclute ancora inconsapevoli e di residui borbonici e granducali contro la potenza dell’Austria non abbattuta nemmeno da Napoleone I, dopo trent’anni di preparazione, con Roma capitale, l’insufficienza dimostrata in Africa provava ancora una volta la troppa fortuna del nostro risorgimento nazionale. Anche laggiù, nel deserto, qualcuno dei nostri capitani e molti soldati erano morti eroicamente: nei libri e pei giornali alcune voci eloquenti di collera e di dolore si erano alzate a rimproverare, ma il popolo migliore del proprio governo non lo era abbastanza per sospingerlo, e il governo aveva indietreggiato dinanzi alla inevitabilità del pericolo senza coscienza della grande ora. Avevamo superata la crisi mortale dei debiti, ma ci mancava ancora quell’orgoglio che impone ad un popolo di arrischiare la testa piuttosto che abbassarla; giudicammo avventura ogni impresa lontana, retorica imperiale ogni necessità d’impero, si dimenticò che la grande politica è un inganno del genio al buon senso della folla e all’avarizia del suo interesse per condurla ove deve e non saprebbe andare.

Ma dall’Africa non potevamo più tornare: intorno a Vittorio Emanuele II le falangi eroiche di Cavour, di Mazzini, di Garibaldi erano bastate a integrare le incapacità della dinastia e della nazione; Umberto I, re dell’Italia moderna, non vi trovò nè un istinto, nè una coscienza per la grande prova.

La borghesia non regnava, il popolo cominciava già a sollevarsi contro di essa.

Share on Twitter Share on Facebook