CAP. XVIII. L’Onore.

Montesquieu nello Spirito delle Leggi fece dell’onore l’anima delle monarchie, pur non riconoscendo in esso se non un motivo di vanità individuale, che l’uguaglianza dispotica della democrazia soffocava dannosamente nell’uomo.

Tale osservazione parve subito così meravigliosa che diventò un aforisma, mentre non era invece che una osservazione superficiale.

Vi è certamente un sentimento e una forma monarchica inconfondibile con tutte le altre, e al tempo stesso di Montesquieu nella transizione tra la monarchia ancora barbara di Luigi XI e il regno così civile di Luigi XIV l’onore francese brillava in tutta la sua bellezza, con una aristocrazia ancora abbastanza forte per mantenere la propria originalità dinanzi al re, e abbastanza colta per mettere una grazia in ogni sopruso. Ma l’illustre filosofo, pur così penetrante nell’esame dei fatti politici, non si domandò come un sentimento soltanto falso potesse assicurare alla monarchia, immutata forma di governo in tutta la storia francese, una vita capace di sorreggere lo stato.

Invece l’onore, prima che monarchico, fu un sentimento di tutti i tempi nelle classi dominatrici, che sentirono la responsabilità del potere. Nei miti e nei poemi l’eroe non è già tale se non per l’orgoglio del proprio onore: tutta la iattanza delle sfide, la fermezza nei pericoli, la prodigalità nel trionfo, esprimono il suo onore di uomo, che si è messo al disopra della folla per compiere in uno sforzo più spirituale le imprese ad essa necessarie ed impossibili. Perchè nell’eroismo l’opera deve sempre contenere una qualche utilità, mentre il rischio per il rischio, la bravura per la bravura soltanto, non soddisfano che un personale bisogno dell’eroe.

Ma l’onore non è davvero tale se non quando diventa carattere di classe: la forza, la ricchezza, il potere non bastano a dominare la coscienza inferiore del popolo: egli ha bisogno di ammirare qualche cosa, che giovando lo superi, una bellezza spirituale che il caso della fortuna o della nascita non possa avere conferito, e non sia solamente di un individuo, ma permanga attraverso le differenze individuali come carattere comune ed inconfondibile, capace d’imporre doveri più grandi ancora dei privilegi. L’onore a seconda dei tempi e dei luoghi avrà quindi dovuto mutare nelle preferenze e nelle ripugnanze, senzachè il suo principio potesse soffrirne: come la morale, una nell’essenza, si contradice nell’azione, proibendo a certi popoli ciò che consiglia ad altri, così l’onore, poesia lirica e forma drammatica della morale, mutò colle epoche e nelle azioni per una continua ascensione ideale.

Fra l’eroe di Omero e il cavaliere medioevale la differenza è di trenta secoli, ma l’uno e l’altro incontrandosi si riconoscerebbero subito del medesimo ordine: ricordate il cambio della corazza fra Glauco e Diomede? Quella scena si ripeterà in tutti i romanzi di cappa e spada, e Glauco, l’eroe orientale, appare già raffinato come un gentiluomo di qualche corte italiana o francese. L’aristocrazia di Roma e di Venezia, quel patriziato composto di re, che si sentiva unico nello stato e si negava tutte le distinzioni esteriori, aveva un orgoglio sempre pari a se stesso cogli inferiori e coi superiori: la feudalità arrestò coi propri castelli l’onda lunga delle invasioni barbariche, e si compose in minime monarchie con tanti re sempre chiusi nel ferro, ignari, intrattabili, e che pure si creavano intorno una poesia, e mettevano nella vita e nella morte un altro coraggio un’altra delicatezza. Che cosa vi è di comune fra l’amore greco e l’amore medioevale, fra la fierezza di Tristano e quella di Achille?

Nell’amore medioevale è già entrata la carità cristiana, la donna vi brilla come un ideale, al quale bisogna alzarsi col valore della gesta e la finezza del sentimento: ogni dama regna, e tutti piegano alla sua debolezza. Il cavaliere potrà essere ancora rozzo, lordarsi di sangue in guerre, che sono soltanto rapine, e votandosi cavallerescamente alla difesa dei deboli trattare ancora barbaramente i villani, ma egli ha già un amore che gli proibisce quasi tutte le bassezze e gl’impone una generosità ignara del danaro.

Infatti la feudalità visse soltanto di guerra.

Sconfitta dal popolo e deportata nelle città si divide nei partigiani delle guerre civili, suscitandovi l’arte e la politica: più tardi vinta dai re tramonta nelle corti riempiendole di gentiluomini e di gentildonne, che non fanno quasi nulla, ma unici sanno ancora battersi negli eserciti e nelle diplomazie, mentre popolo e borghesia lavorano ingentilendosi sui modelli di corte, soffrendo già nell’invidia di quella nobiltà spirituale. Tutte le classi, anche più basse, imitano l’aristocrazia e vogliono avere un onore; il valore individuale non basta più all’influenza dell’individuo, gli bisogna esprimere qualche cosa, che la sua gente stimi, ed esprimerla così bene che possa essere imitata, trasmessa per generazione. Ognuno nella propria funzione ha opere, che lo degradano o l’innalzano, sentimenti che deve mostrare o nascondere, una fisonomia, che per diventare bella ha bisogno di esser corretta: ecco l’onore, fare qualche cosa meglio che non convenga all’interesse, qualche cosa di più che l’interesse non permetta.

La virtù invece è più individuale, semplice e profonda; ignora se stessa, si perde umilmente in qualche principio superiore, mentre l’onore è mondano, una gloria della vita, alla quale occorrono tutte le forze per sostenersi e tutti i teatri per atteggiarsi. Non può essendo falso durare lungamente, o se ciò avvenga, sarà per un riverbero della sua bellezza tramontata; così nella decadenza delle corti l’onore non fu quasi mai che una grazia della debolezza, o l’eleganza di un difetto, spesso copiato dal popolo nell’inconsapevolezza della lunga servilità. Ma siccome l’onore è una delle più profonde necessità, nel disfarsi di ogni sua forma ne sorge un’altra da una qualche virtù eroica di pochi, che hanno già in sè stessi la coscienza di un tempo nuovo: e il dramma ne diventa più bello e più vario. Nella rivoluzione francese quasi tutti i demagoghi erano ammalati di amore per la bellezza formale della aristocrazia: alcuni fra i più illustri vi si perdettero col tradimento, a molte vittime il prestigio nobiliare salvò la vita: a molti carnefici un sorriso fece sentire la pietà per la donna e la devozione per la dama.

E questa contraddizione di amare la forma di una superiorità, contro la quale s’insorge per passione di invidia e di dolore, è ancora una prova, forse la più originale, della necessità in tutte le classi di avere una bellezza di fisonomia tanto più fascinatrice, quanto è ancora maggiore la distanza fra classe e classe. Nella rivoluzione francese la distanza fra rivoluzionari e aristocrazia si raddoppiava per le idee e per le forme: quelli potevano odiare, non disprezzare, perchè questa seppe anche nella morte mantenere la stessa superiorità della vita.

Oggi, nel dissolversi di tutte le classi in una nuova unità di lavoro, l’idealità di un altro onore si leva come una stella mattutina nell’anima del popolo: egli sente che la sovranità politica lo obbliga a dominare sè stesso, e che alla sua antica maschera di cliente deve sostituire una più nobile fisonomia. Il lavoro, già invocato e maledetto come la morte, lasciava nel corpo e nell’anima le stigmate di una degradazione, adesso invece è opera di conquista e sogno di regno. In coloro creati dalla natura alla fatica manuale, il lavoro è coscienza di cooperazione sociale; nei pochi, che dell’ideale sono i messaggeri nella storia, il lavoro è solidarietà di vita, tragica preeminenza d’impero che li condanna quasi sempre ad un segreto ed inconsolabile olocausto. Perchè la loro aristocrazia non può essere tirannica inimicizia di forti contro i deboli, di veggenti sopra ciechi, ma piuttosto il loro orgoglio di eletti si esprime nella gioia cordiale dell’eroe, cui la fatica non deprime e il pericolo non turba, o nella malinconica indulgenza del sapiente, che unico sa la segreta nullità di tutte le vittorie. Coloro invece, che per sentirsi superiori si separano dal popolo, confessano umilmente di non essere nemmeno suoi pari, giacchè il popolo ha sempre grande l’istinto, e l’individuo non può essere grande che nel genio.

Non vi furono e non vi saranno mai superuomini col diritto di credersi diversi dalla folla, in un’altra vita e in un’altra coscienza. Se Nietzsche, forse il maggiore poeta della filosofia, volle essere l’araldo di tale orgoglio, e parve in libri abbacinanti come un’incendio chiamare a raccolta tutti i forti per costituire una nuova aristocrazia contro i deboli, non fu invece che l’ultimo eroe intellettuale di una superbia già tramontata nello spirito, l’eloquente apostolo di quella filosofia che metteva la volontà al disopra del pensiero, diminuendo l’individuo sino a non essere più che il rappresentante di sè medesimo. Genio ed eroismo sono nell’uomo come una fiamma, che illumina e riscalda intorno tutti coloro che hanno freddo al cuore e buio nel pensiero; ma l’eroismo consuma l’eroe e il genio quasi sempre acceca il pensatore, così che entrambi nella loro vita di uomini soccombono più tristemente degli altri alle più miserabili necessità.

Una aristocrazia di superuomini si esaurirebbe presto nella sterilità del capriccio, giacchè dalla profonda incoscienza del popolo soltanto gli individui superiori possono attingere i motivi della rinnovazione e della originalità: essi sono la parola vivente del suo pensiero muto, la realtà del suo sogno.

Nessun sofisma più povero dunque di quello, che vanta come opera solamente individuale il capolavoro dell’eroismo e del genio: nessuna piccolezza più ignobile di quella, che la tirannia rivela nell’onnipotenza dei propri capricci. Dall’alto di un trono, nel meriggio della propria virilità, Sardanapalo non sa che gridare dolorosamente: il mio regno a chi m’inventa un piacere! Caligola a Roma, nel problema dell’impero, che il cristianesimo nega, i barbari invadono a tutte le frontiere e la coscienza spaurita del mondo già abbandona, sogna che il popolo abbia una testa sola per poterla tagliare di un colpo solo.

La miseria del piacere e della volontà non può andare oltre questi due esempi: tutti i superuomini finirebbero così.

L’onore moderno sarà quindi aristocratico come sempre, ma non più di classe, perchè tutte sono scomparse e nessuna saprebbe ricomporsi nell’angustia dei confini, che le separavano dalla folla, ma vi saranno ancora gli eletti, i superiori, custodi della tradizione, messaggeri dell’avvenire. Intorno ad essi, benchè dispersi nel numero della vita, tutti quanti ne sentono più alta la responsabilità e più viva la bellezza formeranno la nuova aristocrazia. Adesso due trionfanti volgarità si aggravano sull’anima della democrazia, politica e industriale: nell’una domina il sofisma della volontà, che uguagliandosi nelle votazioni pretende di livellare nel numero il pensiero; nell’altra il sofisma del danaro, che vanta nella propria vittoria il più alto trionfo dello spirito. La prima superbia della aristocrazia moderna sarà dunque nella indipendenza dal volgo e nella libertà spirituale, che non sottomette la propria opera al danaro degradando l’arte sino al gusto del pubblico, falsando la scienza nel commercio delle sue applicazioni, comprando dalla viltà degli elettori il diritto supremo della legislazione. Il matrimonio, che oggi è una ditta, sarà domani senza onore, se la gente vi sentirà una vergogna nella donna, che ha mercanteggiato la propria bellezza, nell’uomo che vi ha venduto la propria gioventù: l’amore, che è sempre passione anche nella carne, sarà come una volta giuramento di battaglia fra l’esaltazione dei pericoli e le ferite della morte.

Bisognerà diventare sempre più ricchi per sentirsi sempre più liberi: invece di provare la gioia del comando dalla inferiorità di chi ubbidisce, l’orgoglio sarà di essere pari fra i pari riconoscendo nell’obbedienza ad un nostro ordine una devozione al nostro pensiero. E poichè nella folla il livello spirituale pur nell’ascensione rimarrà sempre così basso che la volontà sola possa esercitarvi una pressione, e l’aristocrazia debba colla forza imporle un pensiero, anche allora la violenza sarà senza disprezzo, in una responsabilità di sacerdote e di padre, che comanda perchè sa, e punisce perchè ama.

La potenza dell’onore sta tutta nel contagio della sua forma: non appena una superiorità è riconosciuta, comincia ad essere imitata, e il suo fascino cresce dalla difficoltà stessa della imitazione. Il popolo non piega che ai forti; bisogna quindi non ubbidire che alla propria coscienza, se si vuol comandare: come sempre esso cerca le guide e aspetta i modelli. Adesso manca una nobiltà alla democrazia della politica e del lavoro, dacchè gli ultimi cortigiani discesero dagli scaloni delle corti nelle piazze, e i nuovi clienti abbandonano i signori per i ricchi.

Tornate signori nella piazza, e cortigiani e clienti non vi domineranno più.

La prima, più superba parola dell’onore moderno, fu pronunciata da San Paolo davanti al tribuno di Gerusalemme: Civis romanus sum.

E invece era già il primo cittadino di un nuovo mondo.

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