CAP. XVII. L’Imperialismo.

L’Italia non potrà averne nè la grandezza, nè i vizi.

Qualcuno condannò recentemente l’idea imperiale dalla cattedra della scuola diplomatica, ideata già dal De Sanctis, il più artista fra i critici letterari, senza che tale condanna sonando da Roma destasse echi nella penisola.

Il Loria, chiamato a tale cattedra, economista più celebre nella scuola che novatore del pensiero, tentò affrontare alteramente il vasto e nobile problema, che attraverso le più profonde differenze etniche e storiche sospinge da una stessa meta le più opposte nazioni, imponendo loro una strana similarità di metodi e di fisonomia. Ma l’economia rimase soltanto tale, coll’orgoglio di una scienza non ancora abbastanza sicura di sè malgrado due secoli e una lunga serie di uomini celebri; quindi giudicò il nuovo fatto col criterio e dal traguardo dell’interesse mercantile, cadendo un’altra volta nell’illusione scolastica che il fattore economico sia il massimo della vita e della storia.

Così era facile dimostrare come l’imperialismo non possa confondersi colla colonizzazione, precorsa sempre o accompagnata dalla emigrazione, mentre quello vi si aggiunge di rado e ha carattere militare e violento. La sua moderna differenza dalle conquiste di altri tempi è tale che non si può riaccordarlo nè alle scoperte geografiche, nè al progresso delle comunicazioni, nè alle forme di governo; invece parrebbe un prodotto di cause economiche, più precisamente una conseguenza del disagio, che il capitale soffre fra le strette di un reddito insufficiente.

Infatti l’enorme accumulazione capitalistica, la depressione industriale, il movimento di ascensione nella classe operaia, hanno rapidamente contribuito a ridurre troppo i guadagni del capitale, che deve fatalmente cercare altrove, smanioso e violento, nuove conquiste, oltre mare, nelle regioni non esauste della storia.

L’imperialismo appare dunque e grandeggia quasi sinistramente nei paesi densi di popolazione come l’Inghilterra, o nella loro immensa vastità stretti dalla più assoluta unità come la Russia.

Ma l’imperialismo assicurando uno sbocco al capitale disponibile del paese conquistatore danneggia il capitale non esportato, cui le nuove industrie dei paesi transmarini contendono il mercato nazionale ed internazionale colla riproduzione dei dazii, delle federazioni coloniali, delle compagnie privilegiate, riducendo così il produttore ad una servitù male dissimulata, schiacciandolo sotto il peso di una infelice fatica, avvelenandolo coi prodotti più falsi della stessa civiltà.

Quindi impersonale e divoratore l’imperialismo sembra corrompere ogni moralità nella gente assoggettata e l’ultima onestà dei conquistatori industriali, che rinnovano involontariamente il culto della forza fisica e le velleità dei primati di razza; gonfia l’espansione del potere esecutivo a danno di quello legislativo; pompa le più vitali risorse del paese natale sino ad arrestarvi l’ascensione delle riforme. E però la scienza lo condanna, mentre l’arte più debole vi si degrada scendendo dai canti così puri e gentili di Longfellow alle brutali e sanguinanti canzoni di Kipling.

Tale la critica economista, nè avrebbe potuto dire di più.

Eppure l’imperialismo ha ragioni più profonde e fisonomia più nobile. La sua passione, che ha invaso ed infiammato tutti i più forti popoli moderni, va dritta all’eterna meta della storia, l’unità del genere umano. Ogni nazione non è che una comparsa o un attore nel suo dramma millenario, conquistatori e conquiste si rinnovano e scompaiono, non vi sono nel risultato nè vincitori nè vinti. Ma il valore di un popolo dovendo misurarsi non all’interno ma all’esterno dalla vastità e dalla profondità dell’espansione, il commercio al pari di ogni altra guerra non può avere un segreto ideale diverso. Ogni popolo capace di avvenire sente nell’istinto questa necessità di uscire lungi da sè stesso per imprimere la propria orma su altri mercati, su altre terre: una merce può essere un’arme come un cannone, una fabbrica innalzata fra un popolo barbaro o soltanto inferiore vale una fortezza: ogni strada, che solca il suo territorio, è una nuova vena per un nuovo sangue che scorre nel suo corpo; ogni porto aperto al commercio è una breccia nell’antichità, che sopravvive a sè medesima.

Se il problema mondiale del rinascimento fu l’America, e dopo la rivoluzione francese, nel secolo scorso, l’Europa si gettò sull’Africa sventrandola, illuminandola per attirarla nell’orbita della storia universale, nel secolo ventesimo il problema sarà l’Asia. Questo materno, immenso, continente esige alla propria lunga rinnovazione incalcolabili sforzi dall’Europa e dall’America: sola l’Europa non vi sarebbe bastata: ecco perchè il prologo del dramma cominciò nei primi giorni del secolo, e attori di tutte le potenze civili vi fecero una prima sanguinosa comparsa.

L’imperialismo è gara di valore fra questi attori, che si esprime col bisogno di una più intensa organizzazione economica e politica; un orgoglio di nazione e di razza vi soffia dentro, vizi e passioni vi si infiammano, il danaro diviene prodigamente idealista e conquistatore, l’industria e la scienza si mutano in armi, la religione aiuta anche degradandosi: e un tumulto di contraddizioni morali, economiche, politiche, di climi, di popoli vi confonde lo sguardo dei più acuti pensatori. Nell’Inghilterra tutti sentirono che la rivolta, così giusta ed infelice dei Boeri, comprometteva l’impero, ed accettarono con un coraggio troppo maggiore della bravura una guerra ruinosa ed accanita: nell’America una ricchezza rapida, enorme, solleva l’anima ancora giovane della nazione sopra il già vecchio, chiuso, egoismo distogliendola dai problemi interni per fame una potenza militare fra le più forti d’Europa, e vi improvvisa una politica di conquista, una flotta, un esercito, uno spirito nuovo, un’altra morale, un’altra filosofia. Il Giappone ieri sembrava una copia europea, oggi è forse la più potente originalità della storia. Piccolo, ignorato, ha attaccato, respinto, domato l’immenso impero russo, togliendogli il primato d’influenza sul rinnovamento asiatico: il campione giallo provò colle proprie imprevedibili vittorie la potenzialità della propria razza dissipando ogni dubbio sull’avvenire dell’Asia. L’Europa ammirata, quasi smarrita, dinanzi all’incomparabile valore del Giappone, alla sapienza della sua preparazione, alla sua moderazione nella pace, non ha ancora saputo contrapporgli un’altra pari originalità ideale; l’Inghilterra si umilia affidandogli la difesa delle Indie, l’America gli offre tutto il proprio danaro, la China trema, si prosterna, imita silenziosamente ed aspetta.

La Germania dopo la magnifica vittoria sul secondo impero napoleonico si gettò sull’Africa, creò una flotta, un commercio, una industria; lottò coll’Inghilterra e coll’America, vinse daccapo la Francia, s’inoltrò nell’Oriente disegnando altera nell’avvenire le linee di un più grande impero germanico: invece vedete noi stessi. Fallimmo nell’Africa, ma vi restammo incatenati, nè in questo secolo ventesimo romperemo la catena: più timidamente egoisti ancora che impreparati, fingemmo di non capire la fatalità dell’impresa che la storia europea c’imponeva dopo averci affrettato e pagato il risorgimento. Non eravamo stati abbastanza soldati nella rivoluzione, non fummo abbastanza mercanti nella politica mondiale.

L’imperialismo non è teoria di superuomini, lirica, debole, sonora, che un grande ingegno ammalato cantò non ha guari dalla Germania in libri di filosofia poetica, e se rugge nelle canzoni di Kipling o folleggia nelle estetiche decadenti, rimane chiaroveggenza negli uomini di stato, che sentono la necessità del dimani. Nella gara mondiale delle nazioni le riforme interne non possono sempre prevalere alle forme esterne: forse la ascensione operaia si. arresterà, perchè meglio e più presto venga facilitata l’elevazione delle razze inferiori.

È assurdo accusare il capitale, sarebbe ridicolo imporgli una politica, che la sua stessa impersonalità non consente.

Essere forti per diventare grandi, ecco il dovere: espandersi, conquistare spiritualmente, materialmente, coll’emigrazione, coi trattati, coi commerci, coll’industria, colla scienza, coll’arte, colla religione, colla guerra. Ritirarsi dalla gara è impossibile: bisogna dunque trionfarvi. L’avvenire sarà di coloro, che non lo hanno temuto: la fortuna e la storia sono donne, e amano soltanto i gagliardi capaci di violentarle, che accettano i rischi della avventura per arrivare alla dominazione dell’amore.

Lasciate cantare Kipling: le sue aspre canzoni valgono bene i sonetti che ancora cadono sul bel paese come nebbia sul pantano: Kipling crede alla invincibilità dell’Inghilterra; qual giovane poeta italiano crede almeno ad una vittoria dell’Italia domani?

Ma l’Italia non può essere imperialista: l’anima dell’impero morì sotto le rovine di Roma pagana, dalle quali salivano come voci di trionfo le salmodie dei cristiani e gli urrà dei barbari. Indarno quell’anima parve risorgere nel sacro romano impero di Francia e di Lamagna come idea rivale della cattolica, che da Roma dominava nuovamente il mondo, mentre nell’Italia invece il nuovo spirito individualista creava l’originalità dei comuni e delle signorie. Nulla fu quindi imperiale italianamente, nemmeno gli imperatori, che tratto tratto scendevano contro le pretese del papato; nessuna parola ebbe potenza evocatrice d’impero, nemmeno quella di Dante. La recente razza, formata di mille misture, non poteva per la ricchezza stessa dei suoi germi arrivare all’unità di pensiero e di comando; le sue forme politiche apparivano e sparivano come in un caleidoscopio, la funzione italiana per secoli fu nella storia, come quella di Grecia, una maternità ideale sull’Europa in un continuo tragico parto di idee. Forse la civiltà italiana ebbe mondialmente più efficacia che quella magnifica di Roma nella repubblica e nell’impero. L’ultima forma imperiale d’Italia fu il papato rimasto sempre elettivamente italiano dopo Adriano di Utrecht nel 1522. Certamente tale gloria d’impero costò alla nazione la. schiavitù verso quasi tutti gli stranieri impedendo la sua unificazione, ma oggi ancora dopo il trionfo della rivoluzione è il solo vanto, che ci resti contro le massime nazioni. Vedova del papato, che la rivoluzione ricacciò beneficamente nell’ideale sfera religiosa, Roma non sarebbe che una grossa ed insignificante città di provincia, senza commercio nè di terra nè di mare, nè industria nè agricoltura; le sue grandi rovine non avrebbero più fascino che quelle d’Oriente, la sua storia universale si sarebbe interrotta. Invece la fiera, nobile, testa di Roma sovrasta ancora al mondo: a Roma guardano o gridano dall’invisibile confine le anime che temono e sperano: il mondo ha ancora nell’urbe l’unità spirituale.

Che cosa vi rappresenterebbero soli i re di Savoia? La loro montanara fortuna fra il Panteon e San Pietro, il Colosseo e il Vaticano, non vi ha che un significato provvisorio: sono troppo antichi come conti della Savoia, troppo recenti come monarchi d’Italia, troppo estranei alla grande tradizione nazionale per dare davvero a Roma una incancellabile impronta di modernità; crebbero nelle astuzie dell’accattonaggio, si giovarono di ogni altra decadenza dinastica, salirono sospinti, quasi travolti dalla rivoluzione. Ma l’idea unificatrice non era in loro, e nemmeno la passione dell’eroismo. Adesso servono la mediocrità politica della nazione, che si contenta nel proprio vecchio senno dei loro servigi.

L’esuberanza della razza si riversa sull’America a crearvi forse un’altra Italia, senza che questa vi si interessi ancora come nazione.

Eppure la superiorità della nostra razza su quelle di Francia e di Spagna, l’esaurimento turco, l’inutile risorgimento greco, il tardo e così lento processo dei nuovi regni al disotto del Danubio assegnano all’Italia mediterranea una funzione ed un primato; non mai fummo italiani come ora. Bisogna guardare in alto e lontano.

Nessuna nazione può contendere con noi negli ultimi quarant’anni.

L’imperialismo non è sogno che nei deboli, e diventa vizio soltanto negli incapaci al comando: i nostri ultimi eroi erano tutti grandi avventurieri, i nostri recenti viaggiatori vedevano tutti nell’avventura un lineamento d’impero; il romagnolo Romolo Gessi fondò un effimero regno nell’Africa. Che cosa farebbe l’Italia futura nell’angustia dei propri confini? L’avvenire dell’Europa è negli altri continenti, là soltanto proverà l’eminenza della propria anima: la guerra è di razza.

Coloro, che vogliono ostinatamente essere grandi, giungono a mantenersi umani, perchè passione e verità sono sempre in alto, oltre la meta, che il piacere assegna all’amore e la ricchezza al lavoro.

La bellezza di un’opera non comincia forse dalla sua inutilità all’uso? Le formule supreme della scienza non sono inutili?

Eppure da questa inutilità crescono le forze medie, annientatrici della vita.

Si racconta che Vespasiano morente volle scendere dal talamo dicendo: un imperatore muore in piedi.

Finchè gl’imperatori parlano così, i confini dell’impero sono sicuri.

Share on Twitter Share on Facebook