CAP. I. La libertà.

La libertà è l’essenza della personalità.

Il suo problema non diventò tale che molto tardi, quando lo spirito ebbe imparato tutta l’arte pericolosa di analizzare se stesso, e al pari di ogni altro problema primordiale rimase insolubile. Come il mondo non esiste per noi che in quanto è pensato, e il pensiero ne sente tuttavia la realtà colla medesima certezza di se stesso, così la libertà attraverso le contraddizioni della dialettica e le umiliazioni della nostra schiavitù alla natura si mantiene nell’anima coll’evidenza indiscutibile di una sensazione e l’abbacinante chiarezza di un’idea.

Il suo segreto identico forse a quello del bene e del male resterà sempre un mistero, la sua certezza non potrà mai diminuire. Indarno frazionando in noi medesimi lo spirito distinguiamo il pensiero dalla volontà, la sensazione dal giudizio, mentre il principio della loro unità resta egualmente inviolabile alla nostra analisi, e seguitiamo a sentirci uni nella coscienza malgrado tutti i mutamenti della vita dentro di essa. Il pensiero afferma sè medesimo nel mondo e il mondo in sè medesimo, la libertà si libra perennemente sulla volontà e sul pensiero nell’alternativa di un’elezione, che nè il motivo nè la legge bastano ad imporle: senza il motivo nessuna elezione è possibile, senza la legge nessuna elezione sarebbe vera.

È questa la condizione della vita morale: una legge dentro di noi, che rivelandoci i rapporti con noi stessi e con gli altri crea il diritto colla libertà per principio, il bene per scopo, la giustizia per norma: ma lasciandoci la facoltà di contraddire in noi stessi legge e diritto, senza poterli distruggere nella coscienza nè fuori di essa.

La libertà suppone la volontà, e senza questa il pensiero non apparirebbe personale. Coloro, che negano all’anima la libertà, urtano nell’impossibile: anzitutto l’anima non può non sentirsi libera nella elezione di ogni atto, e quando le pare di soccombere ad un impeto o ad una insufficienza, anche allora sa che con uno sforzo avrebbe potuto resistere, perchè il sentire di cedere le rivela appunto nella forza di resistenza una più alta sovranità di decisione. Noi sentiamo di essere liberi, di avere un pensiero, una volontà, una personalità: vera o falsa questa coscienza resiste a tutto quanto possiamo pensare e volere contro di essa: è istintiva ed intuitiva, negata si riafferma nella negazione. È come la vita, che nel suicidio riconferma la propria superiorità sul dolore e sulla morte, i due massimi momenti della sua trasformazione: come la realtà, che soppressa dalla dialettica, rimane nella sensazione e ridiscende e risale nell’idea: come il pensiero, che per dichiararsi una conseguenza della materia è costretto a servirsi della propria logica immateriale: come la volontà, che non può nè sovrapporsi nè sottomettersi al pensiero, ma pari a lui nel mistero rappresenta la libertà nella necessità.

Infatti il vero è necessità nel pensiero e libertà nella coscienza.

Già S. Paolo, che pensava come il cielo balena, disse ai primi cristiani: Noi siamo liberi nella verità.

Cancellate la libertà ed avrete cancellata ogni vita morale; il nostro individuo non esiste che nella libertà e nella sovranità di sè medesimo; se il pensiero fosse soltanto un risultato dell’organismo, a parte l’assurdo di una simile concezione che farebbe concludere la materia all’immateriale, non avrebbe più individualità, giacchè essa consiste appunto nella unità identica di sè medesima attraverso il mutamento della vita. Se non fossimo liberi, la nostra azione sarebbe automatica, senza differenza di bene e di male, nel principio e nel risultato: saremmo un animale mostruoso nella propria contraddizione perchè capace di pensare nell’astrazione che annulla e contraddice la natura, ed incapace di giustizia, la quale è appunto l’astrazione dei rapporti da persona a persona, al di sopra di ogni differenza personale. Nella giustizia, che domina il male e il bene, gl’individui sono concepiti astrattamente e ogni rapporto fra loro viene interpretato da un altro più alto, con un tipo ideale; così dobbiamo amare e rispettare i genitori non per la verità del loro valore individuale o per la gratitudine del beneficio ricevuto, ma perchè in essi è la personalità del padre e della madre, la quale esprime la doppia funzione spirituale della generazione e dell’allevamento; così dobbiamo rimanere sottomessi alla patria, non perchè la nostra vita vi abbia prosperato, ma perchè la patria è la personalità storica della razza, senza la quale la nostra d’individui non avrebbe potuto formarsi: così dobbiamo sacrificarci alla verità non perchè ci sia utile, ma perchè nella verità è l’essenza del pensiero, e nella sua elezione il primo bisogno della nostra volontà morale.

Senza di questa non vi sarebbero nè diritti nè leggi.

La legge è una rivelazione del pensiero, che la scopre in un quadro di fatti, ma non diventa tale se non per un’altra necessità che l’impone alla volontà, la quale deve accettarla liberamente.

La libertà non è dunque che l’adesione alla necessità, la sottomissione del nostro spirito alla verità rinunciando a tutte le forze, colle quali potrebbe combatterla: se il motivo, pel quale la volontà si decide, fosse obbligatorio, non sarebbe più un motivo, nè la volontà una volontà: l’uomo pensa ed opera nel mistero, ma dentro di esso sa che il pensiero ingannandosi non diventa ingiusto, e la realtà è sostanzialmente quale si rivela nell’apparenza, e la logica della natura non diversa dalla nostra, poichè noi siamo il suo solo pensiero e la sua unica coscienza. L’uomo opera e sente che la sua azione è dominata da una legge morale, contro la quale può indarno perdere sè stesso: che una verità inaccessibile nel segreto della sua origine e della sua perfezione gli sta dinanzi come un modello, del quale il confronto diventa consolazione o rimorso: tutti i sofismi del pensiero, i sotterfugi del sentimento, le complicità o le assoluzioni degli altri non ci liberano da questa ossessione.

Non possiamo ingannare noi stessi: il male non è male che nella nostra coscienza, fuori è soltanto danno. Ingannandoci in una legge o in un costume del nostro tempo ci è permesso di commettere una cattiva azione credendola buona, non di compierne una cattiva consapevolmente e giustificarla.

Il diritto è la morale costituita in sovranità dentro la nostra coscienza, la potestà dell’opera per la necessità stessa della sua funzione: quindi si rivela non si crea, viene riconosciuto non concesso.

Non vi è diritto fuori della morale e della libertà. Nella concezione materialistica il diritto non potrebbe essere che funzione conquistata da una forza, come la legge un equilibrio colto dal pensiero nell’oscillazione del numero; ma la sua obbligatorietà per l’individuo rimarrebbe sempre esterna, una sottomissione della debolezza o dell’ipocrisia, pronte a distruggere la legge con un qualche aiuto di forze improvvise o a frodarla. Se la legge non è dentro di noi, fuori diventa coazione.

Invece la nostra vita è tutta intonata sopra un ritmo ideale: pensiamo e giudichiamo colla logica che è in noi e non avremmo potuto inventare, con una morale che ci guida, si rivela e si perfeziona nella nostra opera, sia questa conforme o contraria alla legge: conforme, la nostra coscienza vi ottiene un equilibrio, dal quale ascende illuminandosi: contraria, il nostro spirito si sconvolge come in una tempesta e si perde urlando di spavento e di dolore nel buio.

Non si poteva inventare il linguaggio più del pensiero, la morale più della bellezza, la giustizia più dell’arte, la storia più della vita.

Nella storia la libertà tesse il dramma dell’individualità.

Le idee, che vi si realizzano, non possono avere altro scopo che la formazione dell’uomo alzandolo sino alla sovranità di sè stesso. Ogni epoca si consuma nello sforzo di perfezionare un qualche carattere umano: la religione e la filosofia, l’arte e la scienza, la legge e il costume non si associano e non si urtano che in tale esercizio: l’accumulazione delle dottrine, la successione degli stati, la stratificazione della civiltà esprimono il progresso individuale dell’umanità.

L’uomo d’oggi è il risultato di tutta la storia umana.

Quindi le grandi epoche e i grandi uomini non servono che alla elevazione del piccoli per sbrogliare il loro pensiero dandogli una potenza di astrazione, che lo sollevi nella responsabilità; fuori di questa concezione la storia non ha senso.

Costituire l’individuo nella libertà, ecco il segreto della storia: costituire l’uomo sopra la vita, ecco il segreto anche più profondo della tragedia. Ma se la volontà non è pari al pensiero, se la libertà non si uguaglia alla necessità accettandola come una verità superiore, e sottomettendosi per realizzarla al dolore del sacrificio, l’uomo non è più l’uomo.

Coloro, che negano la libertà, non si accorgono di sopprimere la volontà uccidendo in essa l’individuo.

Che cosa è egli infatti?

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