CAP. II. L’Individualità.

L’individualità comincia nell’atomo, si sviluppa nella coscienza, si realizza nell’autonomia.

Ogni individuo è un’unità, ma ogni unità non è un individuo; a costituirlo non bastano nè i caratteri dell’unità nè quelli del tipo: le unità di causa, di scopo, di azione, di reciprocità, di risultato, e i caratteri del germe e della fisionomia sono coefficienti non principio dell’individualità.

Il suo inizio nel concetto è al solito dentro un’antitesi: la materia necessariamente concepita come divisibile all’infinito e l’atomo come indivisibile; la divisibilità è l’infinito multiplo, invece l’unità dell’indivisibile è già l’individualità, l’uno pari al tutto, il punto che genera l’estensione, la prima cifra che contiene il numero inesauribile. Non vi è unità, che non possa essere sottomessa ad un’altra unità superiore, ma l’individuo è irreduttibile: solitario o aggregato conserva sè stesso, si coordina non si perde, obbedisce indietreggiando fino al limite della propria inviolabilità.

Scienziati e filosofi hanno da tempo largamente divisi gli individui in materiali e spirituali, ma questa distinzione è impossibile: negli individui materiali l’individualità si affermerebbe in una sensibilità falsamente chiamata coscienza, negli altri invece la coscienza creerebbe il principio e la forma dell’individualità.

Spinoza, il più rigido dei monisti, diceva già: il corpo umano è composto da gran numero di individui di natura differente, tutti profondamente complessi; a distanza di un secolo Goethe ripeteva: ogni vivente è una pluralità, ma più una creatura è perfetta e più le sue parti sono dissimili; poi la filosofia seguitò a confondersi fra unità ed individualità, mentre la scienza rimetteva nella cellula la vita della monade, e cercando fra la natura si attardava nelle scoperte delle funzioni o dei caratteri, che nella resistenza dell’antagonismo simulavano l’individualità.

Questa invece non può essere che nell’idea e apparisce dalla coscienza, ma una coscienza che mantenendo l’identità di persona respinge simultaneamente tutte le differenze di successione nella propria e in ogni altra vita.

L’unità delle sensazioni e dei moti, la coordinazione dei comandi e delle esecuzioni, la potenza di resistere al proprio aggregato o di sopravvivervi, la gerarchia delle funzioni complessa ed alta così che in noi medesimi vi sarebbero individui materiali incaricati di agire nella nostra generazione e nella nostra morte ignorando l’una e l’altra, non bastano ad affermare la loro individualità. Per essere davvero individuo è necessaria una coscienza capace di contrapporsi a sè stessa e a tutto il mondo; quindi l’individualità non può essere che spirituale e attinge sè stessa nella libertà.

Nelle cosiddette individualità materiali è facile cogliere i caratteri similari alla coscienza affermando che vi è una riflessione nella loro sensibilità, un comando nell’azione, una libertà nella resistenza; si possono analizzare le loro coordinazioni e chiamarle caratteri sociali, cogliere nel segreto della loro struttura analogie misteriose con quella dei grandi individui spirituali. O indietreggiando verso il mistero delle origini mettere il principio della vita nella cellula, respingerlo ancora più indietro e riconoscere la generazione spontanea, affermare che per essere un individuo non è nemmeno necessario un organismo, credere che il corpo si formi dalla irradiazione di un nucleo, e che un’armonia prestabilita riunisca l’individualità interna all’esterna; si può dall’atomo salire all’elettrone, ma questo magnifico viaggio di scoperta, questo poema della natura, nel quale la scienza canta come una poesia, lascia intatto il problema della individualità.

L’individualità dell’atomo, sulla quale riposerebbe la sua individualità materiale non è che un lontano inizio davanti alla identità della coscienza negli individui spirituali: lo spirito soltanto può avere individualità e coscienza, perchè nell’una e nell’altra debbono essere pari l’uno e il tutto, l’essere e il non essere, l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande.

Che nel nostro corpo ci siano altri viventi, i quali ignorandosi e conoscendosi lo formino, lo mantengano, e lo distruggano sarà vero, ma la nostra individualità corporale, che resta una pur rimutandosi a ogni istante, non è nè la conseguenza, nè la somma, nè l’unità della loro opera: senza questa non si manifesterebbe, però si manifesta altra e superiore. Così ogni quadro e ogni sonata sono sensibili per colori e per note, mentre ciò che li fa essere quello che sono è una individualità spirituale, che non essendo in nessun colore e in nessuna nota, non poteva salire dalla loro somma.

L’individualità è il supremo mistero dello spirito, che è in noi: è il pensiero pel quale pensiamo noi stessi ed il mondo, la coscienza che ci distingue dal pensiero e dal mondo stesso, perchè nel pensiero astratto la nostra personalità cessa di esistere, e nel corpo invece bisogna che tutte le sue forme si dissipino perchè la sua individualità vanisca.

Coloro, che parlano di coscienza fisica e di coscienza materiale, trascurano un’osservazione di prim’ordine: se noi abbiamo bilioni di viventi dentro di noi, la loro sottomissione è così perfetta che non possiamo nemmeno avvertirla, invece avvertiamo presto, se altri viventi non prestabiliti al servizio della nostra individualità, vi penetrino; e ciò diventa quasi sempre per noi una malattia. L’unità fisica non è dunque l’individualità, vi è contenuta e sottoposta: prepara la sua vita e non la crea, e dissolvendone le condizioni produce la morte. Ma l’individualità vi soccombe davvero?

Ecco il problema.

La scienza non ha saputo e non saprà varcare l’abisso, che divide l’unità dalla individualità: noi ci sentiamo mortali nel tempo stesso che il nostro pensiero e la nostra coscienza esprimono un principio superiore alla materia e alla morte: le nostre verità rimangono tali anche dopo la distruzione del mondo, poichè non possiamo pensarle diversamente, mentre colla loro logica creiamo in noi stessi la spiegazione del mondo.

Ma l’individuo non è tale che autonomo.

La libertà è il principio sovrano, che fonde volontà e pensiero, cosicchè tutto quanto è verità necessaria nel pensiero deve passare nell’opera attraverso la contraddizione della volontà libera: senza di questo l’individuo ripiomberebbe nella passività e non avrebbe più coscienza. Tale contraddizione della necessità e della libertà è pari all’altra della nostra perenne identità nel nostro continuo mutamento; questa esprime la individualità fisica, quella l’individualità spirituale.

La scienza non ha ancora potuto rispondere alla domanda, se la vita contenga una finalità ascendendo verso una meta, o ripiegandosi a mezzo l’ascensione si chiuda come un circolo: le filosofie sostennero l’una e l’altra ipotesi seguendo l’istinto che si lanciava come la rondine dal nido al primo richiamo della primavera, o cadendo sulle sabbie del deserto come il cammello senza più guardare nè intorno nè in alto, coll’occhio così inconsolabilmente nostalgico. Ma se non possiamo risolvere in noi stessi il problema della vita, l’altro della storia è più facile al pensiero, accetti questo la speranza che si protende oltre ogni fine, o si arresti nella sua disperazione costretto a nutrirsi soltanto del presente.

Per ambo i casi la spiegazione non muta.

In qualunque sistema l’uomo è il mezzo ed il fine della storia, o questa non ha nè l’uno nè l’altro, e allora il pensiero non potrebbe pensarla. La storia esercita e determina la spiritualità umana, è una irradiazione della sua coscienza: i morti vi sono presenti come i non nati o per le necessità che sopravvivono all’opera o per quelle che la preparano: tutto quanto resta di più significativo dopo ogni tempo è la modificazione prodotta sul suo spirito, che vi diventa un carattere. Quindi le idee salgono dall’istinto e si realizzano nella passione della massa: i grandi uomini le incarnano, e così una reciprocità nutre le alte e le basse coscienze: la piccola individualità collettiva si contempla nella grande individualità singola, che fondendo un popolo o un secolo in se medesima gli dà una figura immortale nella memoria, del mondo.

L’individuo secondo i modi del dramma e le necessità dell’idea è immolato alla massa, ma questa è egualmente sacrificata all’individuo: soltanto l’uomo di tutti i tempi, di tutti i luoghi, questa ideale individualità è il trionfatore della storia: gli altri, morti, viventi, non nati, vi sono e vi saranno vinti.

L’individualità singola non potrebbe esistervi senza la collettiva: prima è la famiglia, poi la tribù, l’orda, la nazione, lo stato, l’impero; solo, il bambino morrebbe e l’uomo non saprebbe vivere. Se egli dovesse ad ogni generazione ricreare il proprio patrimonio morale ed intellettuale soccomberebbe prima di miseria; ogni moto della massa è vibrazione nell’individuo, le vibrazioni degli individui formano il moto nella massa.

Quando lunghi secoli e vaste nazioni sono scomparse, il loro spirito sopravvive nella biografia anonima dei viventi, che non sanno o non ricordano; quando interi popoli vengono come ad offrirsi in olocausto sull’altare di una religione, o si precipitano quasi ebbri dentro gli ergastoli di un impero, quell’immenso sacrificio, misterioso per le vittime, sarà dopo molti anni una festa di libertà. Il grand’uomo, che sollevato dal turbine della tragedia si guarda sotto i piedi l’umanità camminare brucando e ruminando a testa bassa, è egli stesso l’immagine di quel gregge, e per guidarlo deve abbassare sino al suo istinto la propria coscienza. Un atto di superbia basterebbe a perderlo nell’isolamento.

Il sacrificio è la più intima delle comunioni: la grande anima accoglie tutte le più piccole, perchè la divorino.

Nel passato lo sforzo degli individui era di pareggiarsi alla individualità nazionale, ed ogni stato così chiuso in se stesso che la sua opera si compiva antagonista a quella di ogni altro popolo. Ma l’apparenza ingannava: anche allora le correnti ideali comunicavano fra loro: le religioni le scienze le arti gli imperi fondevano genti e razze non capaci ancora di affermare se stesse. Quindi la storia sembrò lungamente epica anche dopo il tramonto dell’epopea: i popoli si guardavano l’un l’altro come stranieri, ogni vita non era possibile che in una patria, ogni carattere della civiltà non si sviluppava che solitario. L’eccessiva intellettualità della Grecia doveva quindi concludere alla sua debolezza politica contro le resistenze dei vasti popoli circostanti, invece la strapotenza politica di Roma crebbe come una quercia da un terreno arido; Roma non ebbe nè religione nè filosofia nè arte originaria. O lo stato dava all’individuo la propria forza arrestandolo nei proprii limiti, o la libertà dell’individuo indeboliva la forza dello stato.

Quasi sempre ogni grande individualità oltrepassando il confine pubblico deve perire per la sua stessa superiorità, o sparire in alto per salvarsi: vedete Socrate ed Anassagora. Se la storia dello Stato era lunga, l’individuo quasi sempre vi si cristallizzava; se breve, sembrava apparirvi e dileguare.

Dopo il cristianesimo il problema mutò, e adesso, nella modernità, l’individuo autonomo dentro lo Stato deve sviluppare tutto il proprio carattere umano: ecco l’originalità del nostro tempo. Molti la concepiscono nella distruzione dei caratteri nazionali come in un ultimo trionfo della libertà; non più limiti esteriori, l’uomo ovunque identico all’uomo: il confine della patria è una clausura, il dogma della fede una cella, ogni uso antico un pregiudizio, ogni fisionomia nazionale una caricatura.

L’uomo e l’umanità, il due sostituito al tre.

Ma che cosa sarebbe allora l’umanità? Nella vita la differenza soltanto crea, l’identico è l’indistinguibile; l’umanità senza i caratteri nazionali sarebbe l’uomo senza fisionomia o colla fisionomia astratta della statue classiche. La natura sotto l’analisi della scienza si riduce a poche formule, la storia senza il dramma ad una dialettica, l’umanità senza le nazioni ad una folla.

La geografia è la cornice della storia, ma la cornice era già un quadro essa medesima, che doveva influire sui colori e sulle linee dell’altro: la differenzia geografica preparando la differenza storica è il primo momento della fisonomia nazionale; forse i geografi vi hanno creduto troppo e i filosofi della storia non vi poterono credere abbastanza, vinti dalla originalità inconciliabile di certi tempi e di certi popoli; tuttavia storia e geografia sono indissolubilmente legate, e le differenze di quella hanno sempre un motivo in una diversità di questa.

Per attingere la più alta vetta del carattere umano l’individuo deve prima toccare quelle del carattere nazionale e soltanto dopo potrà poi levarsi alla bianchezza luminosa dell’idea senza perdere se stesso. Infatti gli uomini più universali della storia sono appunto quelli, che più profondamente e intensamente ne riassunsero un periodo o una gente; non si soggioga il mondo che imprimendogli sulla maschera qualche cosa del nostro volto, ma quello di un uomo non sarà mai più originale che esprimendo la fisonomia di un popolo. L’individualità è un popolo in un individuo, mentre il tipo è soltanto un’astrazione e sta nell’arte come uno scheletro ad una figura.

Nella nostra modernità, che attenua tutti i limiti da classe a classe, da nazione a nazione, il problema dell’individuo si intensifica: oggi essere italiano così che tutti gli stranieri vi sentano inevitabilmente originale contro di loro è ben più difficile che ai tempi di Cesare e di Dante o soltanto di Goldoni e di Garibaldi. Qualcuno invece può essere sempre riconosciuto per qualche cosa, che gli manchi; ma difetto od assenza non creano fisionomia: mancare di un braccio sarà un segno di riconoscimento per la polizia, non un carattere per un pittore.

Una volta l’Italia aveva fisonomie distinte e rivali di regioni e di classi, di città e di campagne, sulle quali i secoli passarono uguagliando; lo spirito nazionale livellò la superficie e condensò il fondo; bisogna quindi che la nuova Italia conquisti nel mondo un’altra originalità, o quella antica le rimarrà sulla fronte come un’etichetta sopra un vaso. Se l’individuo moderno non sarà più forte dell’individuo romano e di quello medioevale trovando più profondi motivi nella poesia, e dalla sua sovrana coscienza di elettore traendo uno spirito e una forma più alta di vita, ciò vorrà dire che dopo il secolo XIX, il più mondiale fra tutti, quello XX gli avrà messo una stanchezza nel cuore e un’ombra nel pensiero.

Stringetevi dunque la corda sui lombi e guardate le ultime stelle; ve n’è sempre qualcuna che non vuol tramontare, quello è l’astro dell’ideale che si perde non si spegne nel sole.

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