Dalla laguna

Appena il passatore toccò colla zattera la ripa della strada, alta come una banchina nel mezzo della palude, la piccola Venezia mi apparve nel tramonto su tutto quel bianco tremulo delle acque silenziose.

Eravamo affranti da quei dodici chilometri a piedi nelle sabbie del relitto marino, squallido e deserto malgrado le lunghe vigne che tratto tratto vi rosseggiavano ancora.

Quell'altro passatore del Reno ci aveva ingannati, assicurando che avremmo potuto percorrerli in bicicletta, mentre la strada, se può nemmeno chiamarsi così, non vi era tracciata che dai solchi profondi delle ruote nell'arena ammonticchiata dagli ultimi capricci del mare. La forza antica dei flutti rimaneva segnata nelle ondulazioni della vasta sodaglia, sparsa di ciuffi spinosi fra praterie quasi gialle, sulle quali erravano gruppi di vacche bianche.

Un fanciullo anch'esso giallo di febbre le guardava, e si accostò stupito vedendoci affrettare violentemente il passo colle biciclette a mano. Ogni tanto uno stormo di allodole si levava nel sole, poi appariva un tugurio, e sulla sua porta una donna colle sottane corte e il viso macilento.

Ma ci mettevamo appena in sella che le ruote si sprofondavano [74] dentro una rotaia senza poterne più uscire, mentre la sabbia vi cadeva dentro slabbrando, e l'arrestava.

Eravamo partiti sulle nove da Porto Corsini sopra un battello, infilando il lungo canale, che conduce alla Pineta. Il cielo nebbioso pareva mettersi all'acqua, poi si rischiarò; approdammo ad una brughiera, e ci apparve subito il capanno, nel quale Garibaldi, fuggendo dopo l'epica ritirata da Roma, potè riparare dalle pattuglie tedesche.

È un capanno come tutti gli altri di quel luogo, coi muri di mattoni e il tetto di canne palustri marezzato da licheni e da liquipodi. Adesso per farne una cappella democratica vi hanno murato a fianco della porta tre o quattro lapidi, che raccontano il tragico episodio colla più scempia rettorica. Solamente una stela bianca, proprio dove Garibaldi pose il piede dal battello, dice degnamente: «Qui approdò Garibaldi 2 agosto 1849».

La serratura rugginosa stride lamentevolmente sotto lo sforzo della chiave, e un tanfo erompe dalla porta. Corone secche, sfogliate pendono dalle pareti, nastri neri ed ammuffiti spenzolano da altre ghirlande intorno ad una statuina dell'eroe reso idiota dallo scultore e dalla iscrizione incisa a grandi lettere sul plinto per ricordare la magnificenza di chi pagò quel minuscolo monumento. Appoggiato al petto dell'eroe un cartoncino rivela subito i nomi illustri dei commissari vigilanti il capanno: in un'altra cornice, scritti colla penna e sbiaditi dalla umidità, si possono leggere ancora quelli dei generosi che li hanno nominati; e di fronte sopra il camino, dentro un quadro più largo, un canto di Garibaldi copiato da un maestro di calligrafia, il solo abbastanza altero per serbarsi incognito, sembra voler ricordare un difetto del grande uomo, che, degno di essere cantato da Omero, volle talvolta scrivere versi.

Il battelliere lungo e scarno ci racconta, con quell'accento così triste del dialetto romagnolo nelle ultime valli, [75] che tutti gli anni la Società del capanno viene a farvi una merenda e una commemorazione: si mangia, si beve, qualcuno recita il discorso, un altro tira agli uccelli col fucile, poi si ritorna nei battelli, e qualche soldo della gozzoviglia resta anche a lui.

Meno male.

Ma egli non sa nulla della leggenda cresciuta come una cuscuta della Pineta intorno a Garibaldi errante nel bosco colla moglie gravida e morente, assistito, salvato veramente da alcuni, che poi crebbero di numero, inventarono, mentirono, si vilipesero accusandosi reciprocamente di pretendere soli all'onore di non averlo vilmente abbandonato.

Dentro quel capanno deserto e muffoso egli sopportò l'ora più terribile della vita. Forse la sua anima, non mai spaurita da naufragi e da battaglie, tremò nella sicurezza di quel nascondiglio, piangendo la prima volta dinanzi a se stessa.

Anche Anita era morta. Tutto era stato inutile in quella guerra, entusiasmi di moltitudini, promesse di re, benedizioni del papa, poi le rivolte contro i tradimenti, le evocazioni delle antiche repubbliche, le ire dei vecchi comuni risorgenti dalle catastrofi, le difese supreme nell'ebbrezza della morte contro la crociata europea discesa dalle alpi e sui litorali a riconquistare contro la nuova Italia il Sepolcro dei Santi Apostoli. Il popolo non voleva battersi, non sapeva morire. Le campane di Roma richiamavano già il pontefice, rispondendo con lunghi rintocchi allo scoppio dei cannoni sotto le mura di Venezia, mentre per le città e per le campagne echeggiavano le ultime fucilate, e per tutte le strade altri esuli come lui erravano nella stanchezza dell'agonia. Finalmente era solo, senza Anita, senza l'Italia, senza bandiera, senza spada: la sua gloria stessa finiva di disonorare la sua patria, che lo avrebbe lasciato moschettare dagli austriaci come un brigante. Uscendo da Roma per subirne la capitolazione, egli aveva sognato di [76] riapparire con quella piccola truppa alle porte di tutte le città come l'invincibile messo di un'altra rivoluzione; e invece non era più nemmeno un soldato. Adesso sulla sua anima l'ombra di quel sogno cadeva come l'ombra del tramonto sulla squallida palude a risvegliarvi le febbri e le paure della notte.

Gli ultimi sguardi di Anita gli erano rimasti negli occhi come spilli roventi.

Essa lo aveva guardato silenziosamente, disperata di lasciarlo così sotto i fucili della prima pattuglia tedesca, amandolo ancora come il primo giorno, quando le apparve nell'abbarbaglio di una visione, che dieci anni di battaglie avevano riempito di fantasmi fra le vampe e le sonorità di una gloria simile all'incendio di una foresta. Già nel proprio cuore geloso aveva sentito che l'Italia non lo amava. Quindi il suo orgoglio si era alzato sdegnosamente sulla viltà del popolo, per lei doppiamente straniero, nel quale le donne la guatavano con ritrosa meraviglia senza intendere la sua passione di creola fuggita per lui dal marito, e sempre con lui nella guerra, dimenticando di essere madre e di essere incinta.

Anche quella Pineta indarno cantata da Dante e da Byron doveva essere sembrata ben meschina ai suoi occhi memori delle immense foreste americane, impenetrabili al sole come l'oceano. Ed era morta come una zingara estenuata dalla miseria e dal viaggio, cercando gli occhi del suo uomo, con un bambino forse già morto nel ventre dolorosamente teso.

La tragedia diventando sublime era rimasta naturalmente inintelligibile a quella gente troppo sopraffatta dall'egoismo nel pericolo, ma Garibaldi ed Anita avevano anch'essi vacillato nella fede? L'infinita amarezza della disillusione era rifluita al loro cuore in quella improvvisa degradazione dell'eroe, che non sente più la fatalità della propria missione e si sveglia dinanzi alla morte come un uomo ordinario, mentre la storia prosegue [77] dimenticando l'opera della illusione e dell'illuso? Davanti al cadavere di Anita quale altra morte vide egli?

Si ricordò nemmeno dei figli lasciati a Nizza colla vecchia madre?

Come Gesù nell'orto di Getsemani, forse gridò, pianse, poi si levò solo.

L'Italia aveva finalmente il proprio cavaliere fatato, ma intorno a lui nessuna donna sarebbe più la sua donna, e i suoi figli non sarebbero i figli della sua anima; tutte le sue vittorie apparterrebbero ad altri, un re lo fucilerebbe dopo aver accettato da lui un trono, una repubblica gli rinfaccerebbe il vecchio mantello, ricevendo dalle sue mani nell'ora della più tremenda fra tutte le disfatte la sola bandiera presa al nemico: non avrebbe patria, perchè quella da lui liberata venderebbe la sua città allo straniero, e morrebbe sopra uno scoglio vigilato da una ingratitudine più profonda del mare, preparandosi indarno colle vecchie mani il rogo per sottrarre il proprio cadavere alla ipocrisia di una postuma venerazione.

— Tu pensi a Garibaldi — disse il mio giovane amico, stringendomi la mano, mentre il battello scorreva silenzioso fra le cannucce del canale.

— Eh! deve averla passata bella — si volse il batteliere — quando da questa finestra vide una pattuglia di tedeschi portare via Luraghi; — e col remo accennò la strada bianca, che orlava la Pineta.

— Credi che Garibaldi avesse paura? — l'altro rispose.

— Chi lo sa? si muore una volta sola, però quella non sarebbe stata una morte da pari suo. —

Guardavo di fianco il suo viso scarno dal lungo naso e la bocca pallida, aperta nello sforzo della respirazione: la sua fisonomia era sparuta.

— Che cosa farebbe oggi Garibaldi se avesse la tua o la mia età? — chiese improvvisamente Enrico.

— Nessuno può dirtelo. Il popolo, che non si batte [78] oggi più che non si battesse ieri, se lo immagina generale dei socialisti alla testa di una seconda rivoluzione per ottenere così da un nuovo prodigio delle sue vittorie la giustizia, per la quale non vuole sagrificarsi: ma che cosa farebbe egli davvero coll'infallibile istinto degli eroi? Tu sollevi ingenuamente il maggior problema della nostra vita politica: sapere che cosa farebbe Garibaldi equivale a sapere che cosa dovremmo fare noi. Forse non farebbe nulla, se nessuna cosa grande è ancora possibile: sarebbe uno sconosciuto divorato dalla febbre della propria inesplicabile grandezza, uno squilibrato per il buon senso dei più, uno stravagante ridicolo per il popolo, che indovina l'idea solamente attraverso i fatti. Credi tu che altre anime come la sua non sognino adesso come egli sognerebbe, sentendosi capaci di rinnovare le sue imprese? Eppure non si può credere loro!

— Bisognerebbe credere a troppi.

— Così non si crede ad alcuno: il poema resta inedito e il poeta attraversa la vita mascherato chi sa come. I santi, poeti anch'essi, erano meno infelici; invece di una maschera sul pensiero, si mettevano un cilicio alle reni. —

Passavamo per un largo canale fra pini piccoli e radi sopra sponde verdi e ondulate: si poteva credere di essere nel parco di una villa. Non un uccello cantava, non un rumore nel bosco: era dunque questa la Pineta così celebre, la selva vantata in tutti i discorsi di Romagna? Forse non passavamo che sul suo orlo, però ne rimanemmo melanconici. Il cielo era sempre così nebbioso, l'aria greve, l'acqua torbida ed inerte, e all'orizzonte quella stessa linea grigia come saliente dalle praterie vallive si perdeva nel vuoto.

Uscimmo sopra un immenso campo arato, nel quale un gruppo di donne zappava cantando: il canale si restringeva, poi apparve la strada di Sant'Alberto. Sciaguratamente era ghiaiata così da parere un acciottolato: non importa, in sella e al trotto, correndo sui margini a rischio [79] di precipitarne. Adesso il paesaggio si allargava su campi e prati deserti: torme di allodole vagavano, qualche cornacchia passava in alto remigando verso la Pineta. Ma dopo venti minuti la ghiaia cessò. Un'altra strada di un bianco latteo, orlata di pioppi, si allungava dritta lontanamente; abbassammo entrambi la testa sul manubrio ed entrammo in Sant'Alberto come dentro un tubo, cercando fra le sue commessure l'insegna di una bettola.

C'era.

Quando ripartimmo, un sole giallo stendeva una scialba doratura su tutto, e non sparve che dietro i campanili di Comacchio scura sulla argentea vastità della laguna.

Le prime vie della città sono deserte, ma vi si passa come fra un martellàre di nacchere, perchè uomini e donne vi girano su piccoli zoccoli di legno, dentro i quali sono appena al coperto le punte dei piedi: le donne sgonnellano con un grazia di ballo, gli uomini invece appaiono mal fermi e ridicoli, quasi nella imitazione di quella civetteria. Tutti si fermano a guardarci: ecco la piazza non più vasta di un cortile, la torre dell'orologio poco più alta delle case, cinta alla base da una frangia di uccelli vallivi, spennati, che aspettano ancora il compratore: il canale è così stretto che un ragazzo potrebbe saltarlo e così poco profondo che un suicida dovrebbe stentare troppo ad affogarvi. Un puzzo grasso e greve, di anguille arrostite pesa nell'aria già scura come un fumo; la strada sudicia, le case sembrano lebbrose, una umidità trasuda dai ciottoli, mentre l'ombra della sera si addensa ad ogni minuto sul brusio della gente.

Improvvisamente è buio.

Ma quel fetore di anguille c'insegue dappertutto, lo si sente sulla bocca, sui vestiti, è un alito che esce da tutte le finestre ancora aperte, dalle porte tenebrose, sale nel fumo dei camini, ridiscende colla nebbia. L'acqua nel canale si è fatta nera: non pare più acqua, è immota, silenziosa. La strada non ha nemmeno il parapetto, passa poca gente.

[80] — Ho fame — proruppe Enrico.

— Consòlati, siamo nella cucina di Venezia: Comacchio non è altro.

— Ma io detesto l'anguilla.

— Ebbene, le donne di Comacchio sono belle: almeno lo si dice. —

Vidi i suoi occhi brillare dietro gli occhiali.

— Guarda! — esclamò.

Un'ombra veniva verso di noi battendo gli zoccoli e ondulando lievemente: i capelli biondi le facevano una chiarezza sul capo. Ci passò fra mezzo, colle braccia sotto lo scialle stretto sui fianchi, e la testina in alto come annusando.

Quando mi fermai sull'uscio dell'albergo, non avevo più Enrico vicino.

Ma quel puzzo era anche lì dentro.

Alle nove della notte la piccola città è vuota; le tenebre vi sono così nere che le vie paiono androni, e i fanali troppo radi sempre sul punto di spegnersi.

Una tristezza mi veniva da tutti quei viottoli, che si profondavano nell'ombra e nel silenzio egualmente immemori, perchè io non sapevo e non so nulla di questa piccola capitale lacustre, per tanti secoli vissuta di polenta e di anguille. Essa ignora la passione ardente e tumultuosa delle messi, sulle quali gli insetti ronzano e gli uccelli cantano. L'acqua della sua laguna sembra uno di quegli immensi specchi a lastre macchiate dagli anni e penetrate dalla nebbia; i suoi battelli sono ancora più miseri che piccini, e alzano un cencio per vela.

Tutti i giorni, tutte le notti, specialmente le notti, perchè solo rubando nei bacini del municipio si può vivere, la povera gente erra sulla laguna tacitamente, tentandone il fondo con una fiocina per ritrarne fitte nelle punte del suo ventaglio le anguille dal lungo ventre d'argento. La sua vita, la sua anima è in questa pesca: i suoi sogni in un soldo di acquavite o di tabacco. Una madonna dal capo estremo della città veglia [81] sulla laguna e la feconda: hanno costruito dinanzi alla sua chiesa un portico lungo mezzo miglio senza nè una imagine nè una parola. Ma la madonna avrà voluto così: ella regna sola. Il vento più furioso non basta a sollevare una tempesta su questa laguna, dalla quale un ragazzo può emergere superbamente col petto nudo: talvolta il ghiaccio la rapprende, e allora la sua vitrea pianura, nei giorni belli incendiata dal sole, aspetta indarno qualcuno, che vi scorra volando sui pattini dentro l'incanto di un nordico sogno.

Pattinate voi, signora? Provaste mai l'ebbrezza di quell'impeto muto, fra un candore di cristallo, che ci fa sentire così stranamente di essere bruni e leggieri, mentre l'aria sembra piena d'invisibili labbra che ci mordono, e il cielo diventa più lucido sopra il puro immenso riverbero?

Scivolare senza cadere, ecco forse il grande segreto di tutti i trionfi.

Ma anche allora bisognerebbe non ricordarsi troppo che sotto al magnifico specchio gelato, così terso che le nostre imagini vi si ripetono e ci precedono, l'erba è imputridita e le anguille si divincolano vischiosamente negli spasimi dell'agonia.

Odo un gallo cantare, certamente da una stia: forse è il primo prigioniero desto nella città.

È tardi.

Cercate di sognare, signora; io mi contenterei di dormire.

[83]

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