Dieu et mon droit, honny soit qui mal y pense.
Questo motto della vecchia arme inglese, composto della più grande fra le affermazioni e di un complimento galante, che la erudizione solamente può rendere intelligibile, è divenuto nella tragica incredulità moderna la divisa di molte anime. Dio e il mio diritto, o meglio Dio è il mio diritto, honny soit qui mal y pense. La frase ironicamente pudica di Edoardo III, raccogliendo sul tappeto il legaccio di una contessa per riaffibbiarlo alla bella gamba, si muta così in una minaccia di altero disprezzo a coloro, che nel nome falso della critica contendono il diritto di credere ai fantasmi salienti dalle sue rovine.
Qualcuno ha proclamato ieri la bancarotta della scienza, richiamando le anime intorno alla dolorosa figura del Nazareno diventato un Dio morendo sulla croce fra due ladri. Il libro parve un grido di naufrago, che le onde tardano a sommergere, mentre credenti ed increduli gli rispondevano col medesimo sorriso, e coloro che dubitano perchè sanno, e sanno così di non sapere, si rivolgevano silenziosi.
Perchè queste anime indugiano sempre la risposta.
Lungamente provate dalla passione della fede, esse ne sentono l'ineffabile melanconia come quegli innamorati che non possono più credere all'amore; per gli altri [84] invece, che il dogma rivestì di una corazza imperforabile, la certezza delle soluzioni essenziali si venne cangiando nella inconsapevole comodità di una abitudine. Credono senza conoscere, giacchè non si avanzarono mai per l'ombra, che si distende tumultuosa da ogni punto raggiante della fede; o non discesero alle profondità, dalle quali salgono voci stridenti intorno ai suoi inni, coprendoli come in certe notti le nuvole fanno alla luna.
E voi, signora, credete?
Amate voi ancora? Se la fede nella donna è la certezza dell'amore meglio che quella della speranza, secondo la vecchia definizione di Dante, negli uomini invece sale ad una necessità di giustizia. Solamente per la dolcezza dell'amare voi credete forse ad un'altra vita, che diventa così la bellezza di questa nei suoi momenti migliori, mentre noi vorremmo piuttosto credere per risolvere il problema inintelligibile del male. Il vostro pensiero si adagia come quello dei fanciulli nelle favole della creazione, il nostro invece si dibatte angosciosamente nella critica di tutte le ipotesi sulle origini e sulla fine. Nella nostra storia i secoli della fede succedono a quelli della incredulità, la passione struggitrice dell'analisi alla passione poetica, che inventa invece di spiegare, ed erge sulle invarcabili barriere come sopra un altare qualche radiosa figura, cui si prosterna adorando. Ma, negando o credendo, in ogni tempo e in ogni modo, non possiamo mai quietarci nella fede o nella negazione, mentre la fede si ribella in noi alla ragione colla forza indomabile di un istinto, e la ragione si rivolta contro la fede colla logica medesima, della quale questa ha bisogno per affermarsi.
Una critica di cinquemila anni non è ancora riuscita ad impedire l'erezione di un tempio, la credulità alimentata da tutte le religioni non bastò ad assicurare una qualsiasi credenza. Le divinità appaiono nel mondo come gli amanti nel cuore della donna; ma Dio e l'amore restano? Sono una verità che l'incertezza medesima delle [85] sue manifestazioni conferma, o fantasmi che il pensiero suscita dalla natura, e la natura ignorerà sempre?
Affermando la bancarotta della scienza in un libro breve e concitato come un proclama, l'altero critico francese espresse certamente il tormento di molte anime vaganti nelle tenebre del dubbio, così diacce che gli occhi ed il cuore ne piangono ugualmente. Quindi rapido e violento egli ricalcò tutti i sentieri della investigazione moderna per arrestarsi sempre nel fondo al medesimo muro, non avendo constatato in ogni legge più certa che la costanza di alcuni fenomeni, mentre il loro perchè rimaneva pur sempre un mistero. L'occhio della scienza, miope e presbite nel medesimo tempo, non poteva andare al di là del microscopio e del telescopio: tutta la verità rimaneva dunque chiusa per essa in questa parentesi, della quale il pensiero indarno allargava ogni giorno le pareti senza uscire egli stesso dal proprio enigma. Come potrebbe infatti definire se medesimo, se per analizzarsi davvero deve diventare, colui che analizza, l'istrumento e l'oggetto dell'analisi? La scienza prigioniera dell'ignoto finiva così a non conoscere più nulla, giacchè la sua spiegazione frammentaria, per alzarsi a certezza, avrebbe avuto appunto bisogno della riprova nell'inconoscibile: essa era come una capanna in un deserto, un avanzo di nave sul mare, che nessun vento porterebbe mai ad una riva. Le sue vanterie contro il mistero avevano concluso alla più dolorosa disfatta: soluzioni e scoperte non facevano che raddoppiare i problemi e prolungare la discendenza delle ipotesi, anzi la stessa natura pareva compiacersi femminilmente a smentire ogni teorica con sempre nuove rivelazioni, mentre la coscienza avvallava nello sgomento, aspettando indarno la risposta alle proprie interrotte domande; Che cosa è la vita? Perchè il pensiero? Perchè l'amore, il male, la morte? Come agire colle altre coscienze? Come giudicare noi stessi?
La scienza non sapeva rispondere.
[86] Per lei non vi erano spiriti: la morale esprimeva anch'essa la lotta per la vita, nella quale il bene ed il male sorgevano come una illusione dell'egoismo: il pensiero non era nel mondo ma nell'uomo come un'eco moltiplicata delle sue sensazioni, e moriva nell'uomo, che nondimeno pretendeva di capire il mondo, quasi il pensiero potesse capire qualche cosa fuori del pensiero.
A che rifarvi, signora, tutte le critiche del libro e la sua critica?
Il dibattito fra scienza e religione, fra il pensiero che afferma e il pensiero che nega, è troppo antico perchè possa mai comporsi; nacque con noi, e la morte dell'ultimo uomo non lo chiuderà. Ognuno vi ascende per una, scala, donde sa di precipitare prima che il suo occhio mortale abbia riconosciuto le prode dei fuggenti orizzonti; eppure coloro che affermano e coloro che negano, gettano tratto tratto il medesimo grido di scoperta.
Questi come i marinai di Colombo, ad ogni volo di uccello, gridano: — Terra! —
Quelli coll'occhio intento nel cielo, ad ogni lampo che lo squarcia, mormorano: — Dio! —
Ma tutti gli altri esausti dal dubbio, sentendo ad ogni grido farsi più profondo il silenzio fra cielo e terra, soccombono alla sconsolata inutilità di qualunque affermazione, mentre gli echi della terra non potrebbero mai essere una risposta, e il vuoto diafano del cielo non consente speranza di altri echi.
Solamente per costoro, senza accorgersene, l'altero critico francese ha proclamato la bancarotta della scienza.
Il suo libro è involontariamente una riscossa della libertà contro i nuovi dogmi positivi, più grevi degli antichi dogmi religiosi: i suoi argomenti non provano la verità di alcuna fede, ma il diritto di averne una, dacchè la scienza anch'essa è senza certezza, e l'edifizio alzato dalla sua logica sulle più costanti apparenze non può diventare un ricovero per l'anima umana. Egli vorrebbe indarno dal fallimento di tutta la scienza moderna trarre una [87] nuova ideale ricchezza per il cristianesimo, dimenticando l'impossibilità di giustificare tale preferenza contro le accuse del cuore, che vorrebbe una sola religione, e le critiche della mente contro tutte le altre.
La scienza, così ridicola nella pretesa di rispondere ai quesiti della religione, diventa invincibile assalendo le sue risposte: al pari dell'amore, la fede deriva dal mistero, e nel tentativo di spiegarlo deve subire la confutazione di tutte le proprie prove: ecco perchè il cristianesimo dichiarò con profonda sapienza che la fede è una grazia come l'amore. Quella si compiace nell'assurdo, questo nel difetto: la fede si raffina nella contraddizione, l'amore cresce dai disinganni: la bellezza perfetta, la certezza assoluta, stancano ugualmente fede ed amore.
— Mi cercheresti tu se non mi avessi già trovato? — mormora Dio all'orecchio di Pascal.
— Mi amerebbe egli se fossi davvero quale gli sembro? — si chiede ogni donna davanti all'uomo innamorato.
La fede cerca Dio in Dio, penetrando con più ardente passione nel suo pensiero, appunto perchè un primo raggio le aperse gli occhi ciechi: l'amore trasfigura l'immagine, che lo attrasse, e più vi si appunta e più essa resiste alla trasfigurazione. Non vi è quindi amore senza inganno. Chi giudica innamorati e credenti colla misura della propria ragione non sa certamente che per essi l'idea e la persona si mutarono in un fantasma visibile soltanto ai loro occhi, e così fulgido che il pensiero può perdervisi come una fiammella nel sole. Ma credenti ed innamorati non lo attinsero che in alto, sopra una erta scala di dolori, dopo averlo lungamente cercato di porta in porta come gli affamati, abbassando il capo sotto le percosse di tutte le ripulse, bevendo l'aceto di tutte le false ospitalità, cedendo agli abbandoni di tutti gli ipocriti consensi, estenuandosi dietro l'ultima speranza, cogli occhi arsi dalle lacrime prima che la visione vi si accendesse [88] e dal suo mezzo sorgesse la divina figura. Saulo non incontrò Dio che sulla strada di Damasco dopo un lungo e furente pellegrinaggio; Dante non conobbe Beatrice che in paradiso, nella luce bianca della suprema rivelazione: e ad entrambi il fantasma non disparve più dagli occhi, che, posandosi sopra altri occhi, li abbacinavano. Ecco perchè la gente vide forse in loro il maggior apostolo e il più alto poeta di tutte le religioni.
Ma oggi serberebbero essi intatta la loro fede?
La scienza ha potuto da lungo tempo sorridere del paradiso, al quale Dante e san Paolo salirono viventi, ma non potè sostituirlo. Adesso noi cerchiamo Dio e la donna in un pellegrinaggio ben più doloroso, per un cielo ben più spirituale delle sfere mobili immaginate da Tolomeo. Il nostro mondo è così maggiore dell'antico, che il cristianesimo non vi appare più che una religione fra le religioni, un canto nel loro poema; la nostra terra così antica, che le sue epoche sorpassano i calcoli di tutte le cronologie; la nostra umanità così profonda, che attinge le ultime sorgive della vita al disotto degli animali e delle piante; il nostro pensiero così largo, che vi erriamo sperduti come una nuvola nel cielo. Il regno dell'uomo sulla terra finì coll'impero di Dio sull'universo nel giorno che questa non fu più il centro di quello. Che cosa importa oggi l'uomo alla terra e la terra agli altri mondi?
Se domani l'umanità sparisse sul nostro pianeta, che cosa vi mancherebbe davvero? Il nostro bene e il nostro male non la toccano, e poichè ogni altro astro fu o sarà una terra, dove dunque questo bene o questo male avranno un significato? Lungamente con appassionata pazienza tentammo la vita di forma in forma, di grado in grado, sino dove non è più che un punto, il quale si muove sopra se stesso, una identità che movendo si diversifica, senza che nella genesi ascendente degli organismi il mistero ci apparisse meno buio che nella genesi dell'antica creazione. Per Mosè questa era il capriccio [89] di un enorme fanciullo, che si divertiva a plasmare la creta e a soffiare sui vapori; per la scienza è una fucina senza artefice, nella quale gli inutili prodotti debbono distruggersi l'un l'altro in un ritmo incessante di apparizioni.
Ma il nostro pensiero, cresciuto in questa fucina, ricusa di esserne l'opera. Egli oppone l'infinito della propria astrazione all'infinito organizzarsi degli esseri: la nostra coscienza nell'alternarsi della vita e della morte crea le leggi della giustizia e il dramma della libertà, cercando con indomata passione il perchè della nostra anomalia. La natura non ci presenta che dei limiti e noi pensiamo l'infinito, non si rivela che coi corpi e noi li interpretiamo colla linea e col numero egualmente senza estensione, non ha che delle forme e noi le imponiamo dei principii, non mostra che dei mutamenti e noi le fissiamo dei rapporti; noi sappiamo immaginarla nè creata nè eterna, e noi, senza un passato prima di nascere, pretendiamo, morti, ad un avvenire senza fini.
Tutta l'opera nostra è fede d'immortalità.
L'amore e il pensiero non sanno concepire se stessi che eterni, pur non trovando prove a questa necessità. Inventammo Dio e non giungemmo ad immaginare la nostra vita nella sua: per Dante il paradiso è una girandola di cerchi luminosi, al sommo dei quali Dio raggia come un lampione: ecco a quanto è riuscita la più potente delle fantasie. In un romanzo recente Flammarion suppone che le anime ingannino la lunghezza della eternità percorrendo l'infinito di stella in stella: ma siccome queste appaiono già all'esame spettrale chimicamente composte come la terra, a che può mai ridursi la gioia e la novità di un simile viaggio?
Ecco tutta la poesia della scienza: il paradiso pagano era un banchetto, quello cristiano un concerto.
Non pertanto la nostra anima esige l'immortalità.
Adesso ci accorgiamo tristamente di non sapere più spiegare col Dio della creazione l'infinito vivente. Se [90] egli lo avesse creato, come concepire prima il vuoto e comprendere poi il momento e il perchè della creazione? Dio e il nulla, l'uno di fronte all'altro, sono per noi inintelligibili: se il mondo non è infinito, Dio e il nulla, oltre i confini di questo, formano una diade anche più impossibile. Se Dio non è che il mondo, dove ha la coscienza, poichè noi sentiamo la nostra? Che cosa siamo allora nel mondo? Che cosa significa questa idea di giustizia, questa tragedia di spiriti buoni e cattivi, che soffrono nel bene e nel male, dal momento che l'uno e l'altro sono identici nella coscienza dell'universo? Che cosa pensare di questa logica della vita, la quale conclude all'assurdo? Tutte le nostre cognizioni scientifiche sono inutili per intendere la natura, e ciò poco importa; ma la nostra spiritualità vi perde il significato, e allora la catastrofe della intelligenza diventa il risultato di tutta l'ascensione della vita.
Coloro, i quali affermano che la scienza sfonderà un giorno il mistero, mostrano di sperare che il pensiero possa diventare diverso da se stesso, senza dirne nè il quanto nè il come: gli altri, che consolano la propria sconfitta d'individui colla vittoria finale della umanità, mentono a se medesimi ed a lei, perchè l'umanità non può andare oltre gli individui. Poi gli uni e l'altra spariranno: e allora? Che cosa sarà la gloria per coloro, che l'avranno preferita all'amore? che cosa sarà l'amore, quando la vita sarà morta? Ricomincerà altrove, rispondono; ma il problema dei morti sarà risolto solamente perchè dimenticato?
Siete desta, signora?
Queste domande, le più importanti appunto perchè le più inutili, non vi hanno ancora prodotto sul cervello l'intorbidimento del sonno?
Io non miravo che a questo per sognare con voi.
Risogniamo insieme l'anima di Gesù la prima volta che uscì dalla povera casa di Nazaret per diventare un nuovo Dio. Egli è solo, scarno, povero: nè la sua famiglia, [91] nè il suo borgo lo sospettano; intorno a lui nessuna leggenda è ancora incominciata, non ha studiato ad alcuna scuola, non si è ancora confidato nè ad un amico nè ad una donna.
Certo ha pensato e sofferto. Molte delle domande, che vi rivolgevo or ora, hanno lungamente battuto come pietre sul suo cuore; ma il suo spirito giudeo, chiuso nella goccia mosaica, non ha dubitato un istante. L'infinito non esiste davvero per lui nè dentro la natura nè in Dio; questo è l'onnipossente, quella la materia sulla quale verifica la propria volontà. Per Gesù il mare segna ancora i confini della terra, gli astri sono lampade accese sovra di essa nella notte; il mondo creato per l'uomo come un paradiso, benchè diventato una landa di lavoro e di espiazione, non mutò, e l'uomo vi opera sempre sotto Dio o contro Dio. Gesù non potè pensare che la terra fosse un astro fra gli astri, e che in tutti si ripetesse il medesimo problema del bene e del male, la stessa lotta fra il pensiero realizzato nella natura e il pensiero astratto dello spirito. L'idea mosaica si sarebbe allora rotta in lui come una nicchia col proprio Dio: egli invece credeva.
Intelletto ebreo, egli non si preoccupava della natura più che del teatro gli antichi tragedi: il corpo era una maschera, la natura uno scenario senza importanza nel dramma. Il problema della vita per lui era la giustizia di Dio coll'uomo e dell'uomo con se stesso: la sua passione erompeva da quell'amore che la vita non può soddisfare, e che oltrepassa la morte. Forse aveva già provato in se stesso la doglia mondiale, gridando nella solitudine del proprio cuore al disopra di tutte le invocazioni: forse anche aveva anticipatamente spremuto l'amaritudine di tutti i beni, pesando sull'infallibili bilance del proprio disinteresse le ingiustizie dei grandi e dei piccoli, degli oppressori e degli oppressi. Ah, era sempre il peccato, che rendeva così tragica la vita! Quel piccolo popolo ignaro, povero, cocciuto, con un tempio solo, [92] un solo Dio, una sola legge, diviso, nemico a tutto il mondo, era bene il popolo messianico, il prediletto divino, malgrado la ingratitudine delle sue frequenti ricadute e le indomabili rivolte della sua impazienza!
Una lunga fila di profeti aveva al disopra di esso ripetute le promesse della redenzione e del trionfo: qualcuno di loro era stato rapito vivente da un carro di fuoco sino al trono di Dio, e non era più ridisceso.
Egli sognava su quella terra arida, fra quei monti calvi, lungi dal mare che fa pensare all'infinito, in una profonda ignoranza del mondo, che colla varietà delle proprie genti confonde le loro idee, e dalla promiscuità dei sistemi solleva la nebbia del dubbio ad intorbidare le intuizioni dei solitari. Qualcuno lo avrà certamente interrogato, e le sue risposte uscenti dal sogno ne comunicavano le vibrazioni misteriose: nessuno l'amava, egli non prediligeva alcuno. Nella sua mente piena nel pensiero di Dio, nel suo cuore gonfio di tutto l'amore umano, non vi era posto nè per altro pensiero nè per altro amore. Ma siccome l'umanità errava sotto la maledizione di Dio, e Dio pentito dell'opera propria era rimasto solo, la redenzione promessa si doveva compiere nella riconciliazione dell'uomo con Dio, che la volontà aveva divisi e il pensiero riunirebbe nuovamente al disopra del dolore.
Questo sogno antico era così necessario che oggi ancora prosegue.
Gesù non sognò altro.
Tutto era già sparito ai suoi occhi, persino il tempio e la sua legge; tutto era già in lui perdonato, le vecchie colpe di Adamo e le sentenze di Iehova: quindi, figlio dello spirito, egli non può avere che la madre, e deve essere mondo dal peccato originale. La sua generazione spirituale lo innalza sopra l'antagonismo dei sessi, il suo amore è senza voluttà appunto perchè egli ha vinto il dolore, mutandolo in una prova per un gaudio immortale. La sua predicazione continua quella dei profeti, ma la chiude: il suo avvento concorda colle profezie, ma le [93] oltrepassa: egli è il figlio dell'Uomo e il figlio di Dio, che promette la vita a chi crederà in lui, solamente a lui. Ma la sua parola, simile a quella dei semplici, non viene compresa nemmeno da loro, e si ripete colla monotonia di un soliloquio dentro il quale tratto tratto si ode un arcano prolungarsi di echi: il suo occhio è così calmo che nessuno può sopportarne lo sguardo; la sua bocca pura non ha ancora sorriso.
Egli è il sognatore della salvazione.
Non tentiamo destarlo: d'altronde chi lo potrebbe?
Perchè rinfacciargli che altri prima di lui si proclamarono figli di Dio per risolvere il medesimo problema, e che altrove il pensiero era già salito al disopra di Iehova, trovando leggi più umane di quelle di Mosè? Perchè dirgli che la sua redenzione sarebbe parziale come tutte le altre, lasciando fuori di se stessa i morti e tutti coloro che morrebbero senza averla conosciuta? che dopo di essa l'incredulità diventerebbe anche più dolorosa davanti alla superiorità di altre umane evidenze su questa nuova fede, mentre la giustizia subirebbe un'altra più intollerabile smentita dalla condanna eterna dei reprobi colpevoli soltanto nel tempo? Perchè avvertirlo che la sua maschera umana, inevitabile in ogni incarnazione, indurrebbe nella sua opera divina gl'inganni inseparabili dall'apparenza, esponendo la sua parola agli equivoci di tutti i linguaggi? Egli sogna, ma forse lo sa. Infatti i suoi precetti sono orali e le sue risposte spesso ambigue; talvolta uno spasimo d'incertezza sembra torcere la sua bocca pura nelle improvvise invocazioni al padre, che lo ha mandato. Un silenzio pesa sulla sua anima. La crudele diffidenza delle turbe reclamanti il miracolo ha messo la verità della sua buona novella a una prova mortale: egli ha potuto uscirne, ma il suo miracolo non diverso da tanti altri provò solamente la poca forza della sua parola. Certamente non si può essere Dio essendo uomo, senza che la contraddizione fra le due nature paia una menzogna.
[94] Ebbene lasciatelo sognare, perchè solamente la menzogna consola.
Egli mente come le madri mentono sorridendo ai bambini che sanno di avere partorito al dolore, come l'amore mente alla felicità, l'arte alla bellezza, la scienza spiegando i segreti della natura, la filosofia risolvendo gli enigmi del pensiero: lasciatelo mentire per consolare il dolore che non può essere consolato, per vincere l'ingiustizia che è invincibile, per mutare questa ridda dolorosa della vita in un pellegrinaggio ad un altro paradiso. Egli non ama che gli afflitti e perdona a quelli che fanno soffrire, accetta tutte l'esigenze della carne per sottometterle a quelle dello spirito, annunzia l'alleanza dell'uomo con Dio perchè senza Dio l'uomo ripiomba nella servitù della natura. Qualunque siano il suo sogno e la sua menzogna, egli è sempre la prima vittima di se stesso. Ha rinunziato a tutto, non ha madre, fratelli, amante, figli, patria, ricchezza, gloria: la sua stessa redenzione lo rende straniero al mondo ed incomprensibile ai discepoli, che lo abbandoneranno nel processo e dubiteranno della sua resurrezione.
Ma egli non si affermerà Dio che dinanzi a Pilato, e morente sulla croce non pronunzierà che due parole: — Consummatum est. —
Che importa dunque se la sua passione diventerà una menzogna nei vangeli, se le leggende cresciute dalla sua morte guasteranno la sua vita, e il mosaismo e la filosofia dei gentili si uniranno nel suo nome a mutare così la sua opera che egli stesso non saprebbe più riconoscerla? Il suo sogno di Dio, l'originalità della sua parola, l'anomalìa della sua figura faranno sempre di lui il figliuolo dell'Uomo. Che se invece egli non visse mai, e il suo fantasma è una risposta del sogno alla realtà; tanto peggio per noi, che non sappiamo più rinnovare nella nostra anima tale simbolo, suscitare dal nostro dolore e dal nostro amore un altro mito come il suo.
Adesso la bancarotta della scienza ridà al nostro spirito [95] divenuto sterile il diritto di risognare i vecchi sogni, di riamare le figure rimaste belle. Gli atei hanno abbastanza meritato di fantasticare sull'esistenza di Dio come i prigionieri sulla beatitudine della libertà: aprite le carceri, e nessun prigioniero diventerà felice rientrando nella vita, dalla quale era stato respinto; presentate una nuova divinità al mondo, e tutti gli atei si precipiteranno a guardarla, tornando indietro desolati di averla riconosciuta.
— Morire, dormire, forse sognare! — la divisa di Amleto — più antica dell'altra:
— Dieu et mon droit, honny soit qui mal y pense. —
Povero Gesù! Se la sua passione non si compì come nel tardo racconto dei discepoli, quella caduta sopra il suo sogno non poteva essere più crudele. La sublime menzogna della sua coscienza per ricondurre Dio nel mondo divenne nella religione del suo nome matrice di nuovi dolori. Una nostalgia del cielo si apprese alle anime: quelle assorte nel sogno, e che non ne caddero più, furono salve, mentre la moltitudine delle altre invece ne risentirono più tragicamente la contraddizione colla realtà, e con più disperata violenza si spezzarono nel mistero, maledicendo al rivelatore. Ma forse egli stesso nell'orto di Getsemani, quando lungi da tutti i discepoli pianse perchè l'orribile calice gli venisse risparmiato, in quello sforzo supremo di confondersi con Dio, credette d'intendere le bestemmie di coloro, che la sua redenzione non avrebbe salvato, e allora un sudore di sangue gli uscì dalla carne indarno vinta.
Questo fu probabilmente il dubbio che lo prostrò, giacchè nessun'altra visione di torture avrebbe potuto strappargli dalle labbra tali grida.
E se più tardi, dall'alto della croce guardando sul mondo, non potè più credere a se stesso, ben gli fu amico quel centurione romano, che vinto dalla pietà gli trapassò il cuore con la lancia e interruppe così il più grande dei dolori sulla terra.
[96] Leggeste mai, signora, un romanzo italiano dal titolo bizzarro Memorie di Giuda Iscariota, uscito in Francia fra i molti libri provocati dai primi mirabili scandali di Renan intorno a Cristo e al cristianesimo? L'autore era uno spirito ignorante ma non senza originalità, scrittore scorretto, artista mediocre: nondimeno il suo libro, concepito nell'arditezza di una vera incredulità pagana, fra scene volgarmente romantiche e anacronismi di storia, finiva al più tragico epilogo, che io mi conosca nella letteratura moderna. Sciaguratamente anche per questo epilogo non bastò l'idea a farne un capolavoro.
Eccolo.
Cristo non è morto sulla croce. Giuda, capo del partito patriottico contro i romani, amante della moglie di Pilato, una figlia di Tiberio, e amico di Gesù, ha potuto salvarlo subornando parte della scorta designata a vigilare la sua crocefissione sul Golgota. Quindi non gli spezzarono le gambe come a tutti i condannati, e si mescolò un narcotico a quella bevanda di fiele e di assenzio, che la pietà dei carnefici soleva porgere a tutti i giustiziati con una spugna piantata sopra una canna: poi, essendo sabato l'indomani, perchè gli occhi della città non fossero rattristati dalla vista dei cadaveri, poche ore dopo, nelle prime ombre del crepuscolo, Cristo così addormentato fu deposto dalla croce e chiuso in una di quelle grotte del monte, che servivano da tombe. Nella notte Giuda tornò, risospinse il sasso, che otturava la porta, destò Cristo e lo nascose poco lungi in una sua casa sicura; ma la notizia della tomba vuota, diffondendosi tosto per Gerusalemme, ricordò a qualche discepolo le parole di Cristo sulla sua resurrezione.
Qualche mese dopo, Giuda, vinto finalmente dall'impossibilità di ricostituire il regno antico di Gerusalemme col partito patriottico, se ne va, manda innanzi Cristo mezzo guarito a Cesarea, e vi si imbarcano assieme, quasi egualmente sconosciuti, per Roma, l'immensa metropoli.
[97] Sono passati degli anni.
Un giorno Pilato, reduce dalla Spagna, incontrando Giuda per una via di Roma, fra un discorso e l'altro, ad un ricordo di Gerusalemme gli chiede notizie di Cristo, il giovane Rabbi, che egli stesso, malgrado la moglie e il Sinedrio, aveva aiutato Giuda a salvare.
Triste notizie! Cristo sempre in casa di Giuda, guarito dalla crocefissione, è diventato tisico, non parla, non esce più dalla propria camera, fisso in un pensiero, che gli ha fatto diventare gli occhi troppo grandi e la carne di un giallore cereo.
Il Redentore risorto non crede più a se stesso.
Sentite voi, signora, la tragedia di questo risveglio, che lo ha lasciato solo dinanzi al vuoto della più grande idea e della più grande passione cresciuta in anima umana? A Roma egli ha scoperto finalmente il mondo dentro quell'immenso impero, pieno di tutte le leggi e di tutte le religioni, il quale ignora ancora il suo nome. Infatti la sua condanna vi passò inosservata: egli è ben morto per tutti, anche per pochi discepoli rimasti nella Galilea a predicarlo sommessamente un Dio: ma egli non lo sa, non può saperlo e sopratutto non potrebbe credere loro. Incontrandoli, dovrebbe nascondersi, come colui che ha truffato, per paura di essere riconosciuto: nessuno può vincere l'impero, nessuno essere consolato nel mondo, nemmeno colui che si era creduto il suo redentore. Rammentatevi le più illustri catastrofi: Saulle a Gelboè, Cesare sotto il pugnale di Bruto, Carlo V nel convento di San Giusto, Napoleone a Sant'Elena, Colombo cui si vieta di scoprire un mondo, Galileo al quale s'impone di negare la rivelazione dei cieli: salite nel mito di Prometeo, discendete la tragedia di Edipo sino all'abisso di Colono, cercate ovunque il dolore si è mostrato, ovunque si è nascosto, rammentatevi Maria sotto la croce, lui medesimo crocifisso, e non ne troverete un'altra come questa.
Egli è l'uomo che sopravvive al Dio.
Cereo, già coll'ombra della lunga solitudine dentro [98] le carni, e gli occhi troppo grandi aperti sull'infinito, muore tisico, silenziosamente.
Solo questo dolore avrebbe potuto riscattare l'anima umana, che dopo duemila anni sogna ancora dentro il sogno di Gesù, gridando sempre, come lui nel momento della morte:
— Dio, Dio! perchè mi hai abbandonato? —
Ma perchè tutti ci abbandonano anche prima? Voi stessa, che non potete rispondermi, siete anche voi una di quelle figure inconoscibili, che appaiono agli abbandonati dentro l'ombra lunga di un sogno; essi guatano, cominciano a parlare sommessamente, e la figura oscilla, non è più.
[99]