EPILOGO

Ecco l'ultima lettera.

Potrete mai leggerla? Se questo libro vi cadrà sotto gli occhi, indovinerete dalle sue pagine perchè l'autore pensava spesso a voi nel freddo silenzio della solitudine?

Eppure non vi raccontai cosa alcuna della mia vita, nemmeno nelle ore più tristi, quando le confidenze salgono dall'anima come un singhiozzo o prorompono come una spaurita invocazione del dolore, che torna a credere forse perchè non può più sperare. Anche adesso voi per me siete bionda, alta, sottile, colla bocca breve e i grandi occhi pensosi: le vostre mani lunghe e fini rivelano tutta la nervosa delicatezza della vostra natura, avete la fronte diritta, le spalle larghe, il seno piccolo, indeciso sotto i contorni dell'abito molle. Una pallida superbia dà al vostro viso quella regalità, davanti alla quale le anime s'inchinano come dinanzi alla bellezza prima ancora che il desiderio si accenda o la invereconda curiosità del pensiero la tenti; siete giovane, perchè oltre la giovinezza non vi è più donna, ma tutti i fiori della vita si apersero già nei vostri meriggi, e nelle notti qualche rugiada li bagnò forse di pianto.

Non so altro di voi, nè conoscendovi chiederei di più.

Potrei forse amarvi?

Talvolta mi sono posto questo problema nella sincerità [214] di una solitaria emozione, senza che dal fondo del mio cuore si destasse una voce di risposta. Per amare è sempre necessario credere? Gli animali amando chiedono forse alla natura la sua suprema verità? Fra noi stessi quanti davvero hanno bisogno nell'amore di un'affermazione spirituale?

Pochi e non sempre.

Ma io sento che per amare dovrei ascendere dall'amore umano alla passione divina, adunando tutte le torture dell'ideale intorno ad una gioia ardente e luminosa come un incendio. La bellezza è per me un velo gettato sull'anima di una donna come per il poeta biblico i soli e le stelle ne trapungevano un altro dinanzi alla faccia di Dio: nell'accordo più violento o squisito della voluttà il mio spirito si tende sempre ad ascoltare una musica più lontana, che trema anch'essa sul limite di un mondo invisibile. Per amare bisogna credere se non alle forme almeno allo spirito della vita, giacchè l'amore momentaneo è una menzogna inutile, pari a tutte le religioni rivelate dall'uomo. Dio e l'amore sono al di là.

I grandi poeti non sentirono e non cantarono mai altrimenti.

Guardate nel cristianesimo, il più profondo fra i poemi, come le figure s'innalzano per una lenta perfezione. Indarno oggi una critica prosaica ha voluto rimetterle dentro l'orbita della cronaca, quasi potesse da questa uscire il segreto della loro verità, mentre folgoreggia invece nel simbolo lungamente creato da tutta la coscienza di un mondo. Veri o falsi i vangeli non hanno che lo spunto della sinfonia, entro la quale l'anima umana si avvolgerà cantando da Cristo sino a noi dietro una processione di fantasmi salienti verso una continua più pura bellezza, giacchè non l'individuo è vero, ma il modello segreto, sul quale fu formato e cui somiglia per una gamma di gradi, che diventano la nostra fisonomia. Ognuno di noi non è che l'aborto o l'abbozzo della propria statua. Quindi gli amanti appaiono l'uno all'altro in una [215] invisibile bellezza anzichè nella realtà della loro forma; altrimenti come spiegare l'amore? Nessuno ama il difetto come tale, ma perchè oltre di esso travede un'altra imagine e, quando questa scompare e il difetto resta, l'amore è già dileguato colla propria rivelazione.

Così la Grecia significò nella scultura la suprema verità del nostro tipo, alla quale potemmo appena giungere qualche accento; e se oggi nella bellezza noi non preferiamo più l'assoluta euritmia, è questa ancora una conseguenza del cristianesimo latente nel nostro spirito, il quale nel corpo non vede che lo schiavo dell'anima e da un vizio dell'uno assurge ad un maggiore trionfo dell'altra.

Nei vangeli le figure di Giuseppe e di Maria scoprono appena la loro linea divina sotto il volgare contorno ebraico: egli vecchio sposa la piccola vergine per farle più da padre che da marito, ma di racconto in racconto questa delicatezza del suo pensiero diventa la castità di tutta la sua vita; il marito scompare, e il padre s'innalza alla suprema spiritualità del proprio ufficio. A Maria invece appare un angelo per annunziarle che concepirà; la vergine turbata nega, preferendo la propria purezza all'onore di una maternità divina; poi cede al decreto, e il suo cuore si apre come il suo grembo. Lo spunto è così meraviglioso che resta unico nella storia di tutte le letterature, mentre nei vangeli Giuseppe e Maria, ripresi dalla volgarità della vita, sembrano quasi inutili nella educazione del figlio, finchè, da questo uscendo il Messia, dileguano inavvertiti anche alla riconoscente devozione degli apostoli. Adesso la loro immagine, scolpita da una poesia di venti secoli, diventò il tipo ideale del padre e della madre: un profondo istinto drammatico ha inventato in essi tutti i dolori e tutte le virtù, sollevandoli al disopra del sesso, nel quale l'animalità della funzione degrada inevitabilmente l'ufficio dello spirito. Che importano più i primitivi racconti, le loro lacune e le loro contraddizioni, dacchè la gente potè [216] finalmente adorare in un simbolo le cause immediate della propria vita? se adesso un padre e una madre per sentirsi tali debbono somigliare a questo divino modello?

Guardate Maddalena: essa è una cortigiana, sulla quale l'amore degli uomini passò come l'acqua dei torrenti, deponendovi una melma: Cristo la guarda, e da quella melma non spuntano più che fiori. Ecco l'amante di tutte le nostre letterature, nella quale l'amore è una improvvisazione irresistibile e una dedizione suprema. Ella è impura, ma la passione le ridona una verginità, sa tutto e non se ne ricorda, non si offre perchè la verginità è un'attesa, curvandosi invece umilmente a lavare i piedi di Cristo per riasciugarli coi proprii capelli, mentre il suo cuore si leva già a confessarlo davanti alla folla incredula. Chi se non Maddalena ha messo nel nostro amore moderno tanta bramosia e tanto rimorso di peccato? Chi prima di lei seppe rinnovare così la propria anima ed assorgere dal sentimento della colpa all'incanto di un'altra innocenza? Dov'è nella poesia antica una figura che le somigli? In quale donna moderna non rivive?

Ma il cristianesimo era troppo pessimista, perchè tutti i suoi tipi dal sacrificio dell'amore non si perdessero nella rinuncia della vita, mentre le promesse di questa si compivano al di là della morte, e le esigenze della carne significavano il tragico ripetersi della prima caduta nel dolore e nel peccato. Fu questa la sua gloria, alla quale dovrà forse di non morire, quantunque divenisse presto il limite della sua potenza. Quando l'ideale è troppo alto, la sua forza di attrazione si attenua, e nel suo simbolo si alterano del pari la bellezza e la verità.

Come dunque esprimere veramente l'amore? Ebbene dite ad un poeta più alto di Dante e più vero di Shakespeare di riunire nella stessa scena, invece di Paolo e Francesca o di Otello e Desdemona, san Francesco e la Sulamitide, ed avrete in un simbolo nuovo il più originale fra tutti i capolavori.

L'amore è così, un impeto di fame e di fede, la più [217] intensa sensazione della vita e il più profondo smarrimento nell'infinito. Ecco perchè i casti solamente sono voluttuosi, e il grido della dedizione suprema quasi sempre è un appello alla morte. Chi non crede non ama: se l'amore non brilla come una stella sulla cima più alta dell'anima, e la sua luce non pervade ogni vostro pensiero, e la sua fiamma non vi abbrucia il sangue dentro ogni vena: se tutte le virtù del vostro spirito e tutte le energie del vostro corpo non vibrano nel suo accordo, non crediate di amare. Avrete scelto qualcuno fra la folla, vi sarete a lui abbandonata per rimanere nondimeno sola. Come il genio e la bellezza, l'amore è una gloria di pochi: a mantenere la razza basta l'istinto animale, nell'amore invece bisogna che l'anima s'innalzi oltre quel limite, dal quale la vita discende, e cui ritorna colla morte.

Amate voi, signora?

Quante volte mi siete apparsa in questo gabinetto non più grande di una cella, di notte e di giorno, quando l'inverno aveva disteso intorno alla casa deserta il suo mantello bianco, e per la valle, sui campi, dai colli, un silenzio di abbandono, quasi un freddo di astro spento, cresceva nel trionfo della morte! Quest'anno l'inverno è stato più lungo e più squallido. Sulla neve gli scheletri degli alberi parevano immobili in atteggiamento più disperato, una nebbia alta nel cielo velava il sole, o abbassandosi si apprendeva in lagrime di cristallo a tutti i rami scarni, mentre gli ultimi uccelli erravano indarno pigolando e mendicando. Molte notti, nel ritornare solo, ho trovato il vostro fantasma alla porta della casa: eravate sempre così vestita, di un abito molle e scuro, colla testa nuda, lievemente inclinata sulla spalla sinistra: altre volte invece vi scorgevo improvvisamente a fianco della scrivania guardandomi segnare su queste pagine qualche tappa di una fra le carovane di idee, che mi attraversano lo spirito. Perchè scrivere ancora quando nessuno aspetta più il nostro messaggio? Perchè il silenzio [218] è così insopportabile allo spirito, che per romperlo parla a se stesso?

Indarno coloro, che non amano, vogliono dimenticare l'amore, o quelli che amarono la gloria, sperano di potersi distrarre dall'incanto ardente della sua visione. Dopo la morte di tutte le speranze ve n'è un'altra in noi che non vuole morire, ma cresce e vigoreggia simile all'erba dei cimiteri indarno piegata dal vento e corrosa dalla terra fangosa intorno alle croci. Di questa erba troppo grassa la religione ordina l'olocausto, perchè gli animali domestici non abbiano a mangiarne, ricevendo forse dalle mani del figlio un qualche gambo cresciuto sul cuore della madre. E alla gente pare così di essere poeti.

Lasciate che lo credano: la felicità comincia appunto dall'ingannare se stessi.

Abbiamo tutti qualche morto nell'anima, pel quale soffriremmo troppo nel vederlo maltrattato: qualcuno porta la mamma seppellita nel proprio cuore, altri un figlio, altri ancora una donna amata nel primo fervore della passione o nelle sue ultime melanconie. Questi morti dormono come dentro un altare, al quale torniamo inginocchiandoci nell'ora delle segrete preghiere, sotto lo spasimo di nuovi abbandoni.

Ma vi è chi, non avendo più alcuno nemmeno fra i morti, seppellì nella propria anima qualche magnifico fantasma, cui offre ancora corone votive. Così la mia fantasia alzò da molti anni un invisibile monumento a san Francesco, il magro poeta del dolore, che nello spirito profondo intendeva pure il linguaggio delle cose più morte; e ho scolpito il santo colla pallida testa nuda, le mani scarne e tremanti nel fervore della preghiera. I suoi occhi brillano di uno splendore stellare, il suo sorriso ha lo stesso fremito dell'aurora sul fondo cupo della notte, quando la luce riappare come una speranza: non l'interrogate, non chiedetegli una grazia, perchè se siete infelice, egli potè già ottenervela. Da un grado più basso, [219] ritta nel candore dell'impassibile nudità, Venere lo guarda coi grandi occhi glauchi: anche essa ha vinto il dolore, e, trionfatrice nella bellezza, sorride al Santo perduto nell'estasi di una astrazione divina. Se qualche statuario comprenderà un giorno come san Francesco e Venere rappresentino la stessa vittoria, forse questo mio segreto monumento apparirà agli occhi attoniti della folla, che da secoli si prosterna a questi due simboli senza poterli conciliare in un solo culto.

Ma ogni bellezza è pura.

Quante generazioni di poeti e di scultori dovette esaurire la Grecia per estrarre dalla deformità del nostro corpo la linea divina della Venere? Quante generazioni di penitenti e di martiri allineò il cristianesimo per attingere l'ideale della perfezione nel dolore con san Francesco? Chi s'inginocchia più dinanzi alla Venere del Louvre, riconosciuta oggi per una vittoria, alla quale il peso dello scudo spezzò forse le braccia, o chi in tanto rifiorire della letteratura francescana osa dire che san Francesco fu un poeta silenzioso pari ai più grandi immortalati dalla parola? Il verso non è sempre la forma più bella e profonda della poesia: Cesare morente, che dice a Bruto: — Tu quoque, fili mi — non è forse maggior poeta di Leopardi nel Bruto minore? Quale canzone a Dante vale la firma di quello scultore toscano sotto l'istanza al papa per il ritorno a Firenze delle ossa esigliate: «Michelangelo Buonarroti impegnandosi a fare un monumento degno del grande poeta»? Nell'ode di Carducci per Aspromonte vi è forse accento più lirico che nel grido di Garibaldi ferito ai volontari: — Non tirate, viva l'Italia? — Gli ultimi versi di Amleto, concedendo a Fortebraccio di attraversare la Danimarca col proprio esercito, così belli di eroica cortesia, superano l'estrema lettera di Mazzini per chiedere il permesso di morire incognito a Pisa?

Il verso è un vaso, nel quale la poesia lascia talvolta cadere qualcuna delle sue lagrime fragranti, ma più [220] spesso le piange sui venti, che ne diffondono l'aroma divino su tutta la terra, o più spesso ancora il vaso pazientemente cesellato rimane indarno sull'altare, finchè uno scriba non venga a riempirlo di fiori intagliati in una qualche carta olezzante.

Al pari della religione la poesia non può sottrarsi alla degradazione del culto: scuola e sacrestia corrompono egualmente il testo col commento, o falsano colla decorazione dell'idolo la bellezza pura del simbolo: e allora i poeti non parlano più che nel linguaggio di tutti, o al di là della parola cercano le sorgenti di un'altra poesia.

Mentre alla corte d'Isabella la cattolica gli umanisti si vantano di resuscitare l'epopea esumando autori latini, Cristoforo Colombo, nuovo poeta, salpa sulla Santa Maria verso la terra del mistero; e nella corte di Ferrara invece Lodovico Ariosto seguita a credere che la poesia dell'avventura sia tutta nelle cavalleresche leggende del medio evo, così morte anche nel suo pensiero che gli eroi vi ricompaiono evocati dal capriccio di un sogno, simili alle maschere di un carnevale, cui un'ironia troppo cosciente nega persino questa ultima verità.

Quale poeta in Europa ha saputo cantare il viaggio di Nansen o il volo di Andrée al polo? I rapsodi che scrissero l'Iliade non sarebbero già discesi nelle miniere per trarne il poema di un'altra guerra più lunga, con eroi non meno veri di Aiace e Diomede? Perchè Marco Polo non ha trovato come Giasone un altro Apollodoro? Perchè Pizzarro, un avventuriero ben altrimenti originale del pio Enea, invece di Virgilio ebbe Marmontel? Perchè Alfieri rifece indarno tante tragedie greche senza accorgersi che ogni cronaca dei nostri comuni era affollata di figure ben più terribilmente belle che nelle corti di Tebe e di Atene?

La poesia italiana del Cinquecento perì nella scuola sotto il peso della nuova letteratura: il Trecento ebbe Dante; dopo, invece di Shakespeare, l'Italia trovò Ariosto.

[221] Oggi ancora l'ultima originalità ci è venuta dalla Russia, paese senza tradizione classica; ma Tolstoi vale più di Omero, perchè Guerra e pace è tutta la Russia contro Napoleone assai meglio che l'Iliade non sia stata tutta la Grecia contro Priamo. I letterati però non ne converranno che fra qualche secolo, quando Tolstoi, diventato antico, vivrà soltanto nell'ammirazione della scuola.

Al pari della gloria anche l'amore non ottiene che dalla morte l'indiscutibile consacrazione.

Rivolgete la testa a contemplare il passato e, per quanto triste, vi parrà diverso da quello che viveste; avverrà pel suo paesaggio spirituale come per tutti gli altri della terra, ai quali la prospettiva compone un'irreale bellezza con una nuova musica di linee e di colori. Allo stesso modo c'innamoriamo delle grandi figure solamente quando appaiono nella gloria dei secoli, sullo sfondo della storia, mentre non intendiamo che parzialmente quelle del nostro tempo destinate al medesimo trionfo. La lontananza del tempo cancella forse come quella dello spazio i loro piccoli difetti per meglio rivelare la magnificenza dei loro contorni? O è questa ancora un'altra delle nostre illusioni?

Perchè il vostro fantasma ha visitato nell'inverno e nella primavera questa mia solitudine? Appariste mai altra volta a' miei occhi nella folla o eravate sepolta nell'ultimo fondo del mio cuore, laggiù, dove si trema di guardare, perchè le tenebre vi oscillano come sopra un abisso?

Chiunque voi siate, lontana al di là delle Alpi e del mare, o vicina in qualche città o campagna italiana; qualcuno de' miei libri abbia o no impresso sulla vostra memoria un ricordo incancellabile; la mia vita si esaurisca in questa solitudine come certi torrenti scompaiono fra le sabbie per una landa riarsa, o con impeto nuovo rovesciando qualunque barriera prorompa superba verso il mare della gloria, voi siete l'ultima donna alla quale si è levato il mio pensiero. Con voi ho risognato l'ebbrezza [222] della primavera sotto un sole giovanile, fra profumi e canzoni, e le mie mani tremarono ancora una volta nello spasimo di una carezza, tendendosi verso il vostro fantasma di bionda signora alta e sottile, coi grandi occhi pensosi nel volto opaco e fragrante. Il mio sogno vi avvolgeva come un vapore mattinale; io vi parlavo coll'abbandono confidente del cuore, che ridomanda tutto quanto già ottenne, e rinnova il proprio dono colla lieta prodigalità di un fanciullo. Se ho pianto nelle mie ore più tristi, quel pianto era meno amaro, perchè voi eravate nella mia solitudine, riempiendola della vostra presenza; se davanti a voi disperai nuovamente, l'orgoglio dell'ingegno e la incredulità del cuore non avevano più quella collera muta, che ci rende così crudeli con noi stessi e cogli altri. Forse non perdonai, ma come Dante, incontrandosi con un altro fuoruscito e parlando di Firenze, sentiva fondere nella dolcezza dell'accento materno il proprio rancore, provai anch'io la sensazione di un dissolvimento, quella improvvisa leggerezza dell'anima, dalla quale cade un peso insopportabile. Eppure il vostro non era che un fantasma silenzioso. Vi avrei dunque amata senza conoscervi? Perchè amare, quando i capelli cominciano ad imbiancare, e non si potrebbe offrire all'anima di una donna che un cuore insanguinato come un campo di battaglia, un ingegno alto forse, ma simile a quelle roccie solitarie, che rimangono inintelligibili nel paesaggio?

Per quelli, che compirono soli la prima e più lunga parte del viaggio nella vita, è ancora più difficile dire a se medesimi: — Adesso comincia il deserto! —

Credetelo, signora, questa parola è così pesante che ci ripiomba troppe volte sull'anima prima ancora di uscire dalle labbra.

E tuttavia bisogna dirla.

Non è un addio, perchè nessuna figura resta dietro di noi a guardarci, mentre l'ombra della sera cade sulla via e la nasconde; non è un grido d'invocazione, che [223] salga a percuotere in alto, e lontano qualche eco, al quale rivolgere gli ultimi passi colla speranza di una meta; il cuore si restringe; la testa si abbassa.

L'ultimo fantasma raggiunse già quelli, che ci abbandonarono per i primi: l'amore non ci conosce più, la gloria non ci venne incontro. Anch'essa ama i giovani, e quando illumina la fronte di un vecchio, non è più che un chiarore lunare, una luce di astro spento. Le donne ci rasentano senza vederci, il nostro sguardo s'immerge nei loro occhi come in uno specchio, che non ne trema; la loro parola più gentile ha per noi un accento straniero, ogni giorno ci distacca qualche cosa dall'anima. Quindi una segreta, indefinibile paura ci respinge dentro noi stessi, il nostro egoismo si raggomitola, mentre una nuova invidia falsifica le parole della nostra esperienza, facendoci indarno queruli e saggi. Attori malcontenti di avere così recitata la propria parte, diventiamo giudici incontentabili ed inintelligenti pel dramma, che prosegue davanti a noi, senza che qualcuno se ne distragga un momento per consolarci con un'occhiata: la nostra vita somiglia a quelle foglie secche dell'autunno, che l'inverno putrefece, e le nuove erbe della primavera seppelliscono già nel rigoglio.

Tutto è finito.

Ogni orma si cancella giorno per giorno dietro di noi, nella notte ci tornano i pensieri lunghi del passato. L'impaziente ironia dei più giovani ci sibila agli orecchi come i venti di aprile fischiano fra i rami secchi, che non possono più rifiorire quantunque tutto l'albero non sia morto; e allora avviliti, dimenticati, nella nuova primavera, mentiamo l'ultima volta, vantando la festa della nostra gioventù.

Ma nessuno ci ascolta.

Tutto è finito, signora.

Bisogna tacere.

FINE.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (follia/follìa e simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

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