LA POESIA DEL DOLORE

Povero gobbo!

Visse nel dolore e morì senza gloria, giovane come Raffaello, il miracoloso pittore della bellezza.

Egli invece era così brutto che la sua anima ne soffriva inconsolabilmente come della più crudele fra le ingiustizie della sua vita abbandonata sino dalla fanciullezza nella solitudine di una famiglia avara e fastosa, bigotta ed egoista. Un orgoglio patrizio, esasperato dai debiti, vi rendeva aspre le più intime relazioni: all'intorno la piccola città era poco più di un borgo selvaggio, nella provincia e nello stato null'altro che abitudini servili sotto un governo prelatizio. Si viveva come nell'altro secolo: le famiglie nobili formavano una aristocrazia anodina, la borghesia oziava in una parsimoniosa mediocrità o esercitava come un mestiere qualche professione liberale, il popolo lavorava poco e non pensava affatto. Nella politica, riassunta da minuscole tirannie di governatori, solamente la carriera ecclesiastica rimaneva aperta alle ambizioni di comando, il resto degli studi era condensato nelle lettere, e queste nella scuola, indarno erudite, più indarno classiche. Mentre Germania, Francia, Inghilterra rinnovavano un'altra volta lo spirito moderno, nello Stato pontificio Monti dominava ancora unico poeta, che aveva cantato a tutti senza indovinare [192] mai nè il segreto storico nè la vitale originalità dei troppi avvenimenti. Quindi raggiante e sonante aveva travolto Omero e Napoleone nell'onda del medesimo endecasillabo, trattando egualmente temi antichi e attuali nella sicurezza di una immunità fattagli dall'arte, e facendosi della lingua bella una religione.

Così aveva potuto essere paragonato a Dante, quantunque nel suo pensiero non si ripercotessero che gli echi delle piazze, e il suo verso fluttuasse appena sulla superficie d'Italia.

La Romagna aveva Monti, la Marca Perticari.

Eppure un profondo mutamento era avvenuto nell'anima nazionale battuta per venti anni dallo spirito nuovo che le aveva dato ogni primizia democratica nelle repubbliche e tutte le avventure dei principati nell'impero, sino a quella inintelligibile meraviglia di un regno con Roma capitale e l'unico figlio di Napoleone per re. Poco dopo le ristorazioni, raddrizzando gli antichi scenari, non riuscivano a rammendarne gli strappi, mentre le scuole, riprendendo i vecchi testi, non ne ritrovavano più le tradizionali interpretazioni per insegnare ai fanciulli di un'epoca nuova la fede di un mondo defunto.

Secolo e mondo mutavano.

Mentre il piccolo Giacomo Leopardi a dieci anni si chiudeva nella biblioteca domestica per impararvi da solo il greco, altri fanciulli, che si chiamerebbero Giuseppe Garibaldi, Giuseppe Mazzini, Camillo Cavour, Carlo Cattaneo stavano per nascere o crescevano già nell'antipatia della scuola. Invece egli era sino d'allora il poeta destinato a cantare come il passero solitario dalla cima di una torre: il suo cuore aveva già pianto e il suo intelletto si era ribellato, senza che la madre, che doveva un giorno pentirsi di averlo partorito, se ne fosse accorta, o la gelosa vanità del padre s'irrigidisse ai divieti. Come a tutti i fanciulli deboli e precoci, una sensibilità dolorosa gli faceva troppo presto scoprire sotto i sorrisi quella immancabile durezza dei caratteri, che [193] nella vita non vogliono dare più di quanto ricevono: capiva troppo e non capiva abbastanza, soffrendo della propria inesplicabile superiorità come di una malattia senza commiserazione negli altri. Egli non era un fanciullo, perchè non diventerebbe mai un uomo. Gli mancava l'ingenuità e quella letizia quasi animale, che rende la fanciullezza così bella a se stessa e alla gente: allora si sorride, si ride, tutto è giuoco, si vuole tutto, si dimentica tutto: la gioia è una ginnastica che il sonno interrompe per ravvivarle le forze; i piedi saltano e l'anima balza. In tale festa mattinale della vita il dolore punge appena come l'ortica sul prato: se ne piange per la sorpresa e si ricominciano le capriole.

Invece la precocità è una malattia, dalla quale raramente esce il genio.

Coloro, che la soffersero, ne portano il segno per sempre, se la precocità fu intellettuale, il loro spirito inaridì come quelle costiere, sulle quali l'estate arriva troppo presto e dura troppo a lungo; se più facilmente fu sentimentale, il loro cuore si coprì di ulceri come le foglie troppo tenere, ancora umide di rugiada ogni mattina, quando il sole le incendia coi primi raggi. E non potrebbe essere altrimenti. Nella fanciullezza, ordinata dalla natura solamente alla preparazione, ogni eccesso primaticcio vizia sempre l'organismo o deforma lo spirito.

Ecco perchè nei pochi uomini di genio nulla altro è straordinario che l'opera sovrana: anzi la natura loro è così comune, e ritmica la concordanza delle facoltà, che nel tempo lungo della vigilia non rivelano quasi mai la propria stupefacente perfezione.

Quel fanciullo pallido, dall'occhio grave, colla parola già studiata, che si chiudeva notte e giorno nella biblioteca domestica a cercarvi le prime compiacenze dell'ingegno fra i deserti delle grammatiche o pei taciti cimiteri della erudizione, non diventerebbe mai un genio. La sua facilità singolare ad apprendere le lingue morte, e quella curiosa insistenza intorno ad opere senza malìa [194] di bellezza o di rivelazioni non erano il segno, cui si riconoscono i creatori, giacchè la passione del libro, inevitabile a coloro che dal libro trarranno un mondo, non impedisce l'altra della vita, ma dentro il libro medesimo ne va in traccia. Il suo ingegno bambino cominciò come tanti ingegni vecchi finiscono, quando nell'ultimo scetticismo non resta più altra verità che la parola, e nell'arte, diventata letteratura, la dottrina del professore prevale alla ispirazione dell'artista. Egli era già il bibliotecario, che preferisce i libri sconosciuti ai libri belli, dimenticandosi del mondo nell'orgoglio della propria solitudine: studiava, ordinava, classificava, scolaro e maestro di se stesso, colla pazienza di un cenobita e l'instancabilità di un nomade. Ogni prospettiva l'attirava, qualunque cifra segnata sopra una pagina diventava per lui un problema, perchè voleva anzitutto sapere più di tutti, mentre dagli echi di tante cose morte si svegliavano nella sua meravigliosa natura di umanista voci profonde di poesia intorno ad un dolore quasi dimenticato. Simile a quei fuorusciti, che l'odio di parte rendeva così terribili, egli si allontanava dalla vita nell'antichità a cercarvi ostinatamente una via di ritorno, alleanze e conquiste, per le quali riapparire alto sull'ammirazione della gente. Da principio non erano che scorribande di ragazzo sopra argomenti da vecchio, ma presto la sua mente si costrinse in una visione sistematica. Quindi dalle parole ascese alle idee, dalle forme ai fantasmi, dai letterati alle letterature: allineò i secoli, confrontò le opere, pesò, respinse, prescelse, seppe essere critico ed artista, dotto e pensatore, imitare lo stile e le figure di un'epoca, lentamente, inconsciamente, sospinto dalla nativa originalità, più importante di quel tesoro con sì dura fatica ammassato, al sagrificio ben altrimenti doloroso della propria rivelazione.

Per lui la gloria diventava la rivincita ed insieme la sua condanna di ammalato.

L'orgoglio di tale mostruosa erudizione non bastava infatti alla sua ambizione di gloria.

[195] A sedici anni potè tradurre e commentare così la vita di Plotino scritta da Porfirio che un vecchio ed illustre critico tedesco se ne giovasse ammirando: più tardi ripetè simile meraviglia sulle lettere di Frontone a Marco Aurelio, scoperte dal cardinale Mai, il più fortunato fra gli esploratori di biblioteche; più tardi ancora finse un inno di Simonide, un'ode di Anacreonte, e una cronaca italiana del Trecento con abbastanza abilità da ingannare i più difficili specialisti di queste materie; ma egli era già troppo poeta per illudersi sopra un simile dilettantismo. Molti prima di lui, intorno a lui, ne erano stati egualmente capaci: Chatterton, e Macpherson avevano spinto l'inganno letterario più alto; Daniele di Föe era arrivato con Robinson Crosuè al capolavoro; altri seguirebbero.

Invece la sua immensa dottrina non concludeva ad alcuna opera vera; mancava a lui la profonda scienza della storia e il trascendente pensiero filosofico per una nuova interpretazione delle letterature, mentre se ne cominciavano già altrove i primi stupefacenti tentativi. Il secolo decimonono rimutò infatti quasi tutti i criteri sull'arte latina, greca, ebraica, orientale, senza che una scoperta o una teoria di Leopardi v'influisse: e, maggior poeta di lui, Giosuè Carducci può adesso vantarsi di aver segnato nella critica letteraria una traccia non meno profonda che nella poesia.

L'ignoranza della grande rivoluzione francese e la riverenza ai nomi consacrati dalla scuola gli offuscarono spesso il pensiero naturalmente acuto. Certo egli si accorse di quanto Annibal Caro avesse ammodernato Virgilio, e come il verso del Parini sarebbe meglio convenuto a tale traduzione; ma lo disse timidamente e non sentì abbastanza la differenza fra Omero e Virgilio, mentre l'Iliade è l'epopea di un popolo e l'Eneide il poema di una letteratura, che Caro doveva falsare in un'altra. Quindi seguitò ad ammirare Caro e Monti, invidiando l'immortalità delle loro traduzioni, garantita [196] dalla immortalità dei testi. Per un poeta come Leopardi, ammirabile ed ammirato grecista, non sentire la menzogna del paludamento rettorico gettato da Monti sopra Omero, o non preferire almeno il verso di Foscolo, così più puro e potente, è un'altra prova del come la letteratura sia spesso il rovescio della poesia, e un poeta si guasti attardandosi troppo nella tradizione scolastica.

Bisogna esser Dante per non degradare la propria originalità, seguendo ovunque Virgilio, o un politico come Machiavelli, uno scienziato come Galileo per creare inconsciamente uno stile vivo fra l'imitazione di tutti i modelli dissotterrati dagli umanisti. Così più tardi Manzoni, nè dotto, nè professore di letteratura, inventò una forma di lirica, di romanzo e di tragedia; e Mazzini, facendosi un'arma della parola, riuscì a quella eloquenza, che Leopardi riconosceva appena nella Apologia di Lorenzino dei Medici e nelle canzoni del Petrarca. Eppure Manzoni e Mazzini scrivevano con lui, più potentemente di lui, quegli rinnovando tutta l'arte, questi tutta la coscienza nazionale. Ma Leopardi non sa nulla del proprio tempo: la rivoluzione francese, Goethe, Byron, Shelley, Schiller non sembrano essere esistiti per lui; non vede la verità e la vita che negli antichi, dei quali ammira sopra tutto la bellezza formale. Avrebbe egli potuto credere che, malgrado Orazio, Virgilio e Plauto, la poesia latina non merita nella storia un alto grado di originalità; che Cicerone non è un grande oratore, perchè era una piccola anima e un mediocre carattere; che l'inno a Venere non basta a fare di Lucrezio un poeta; che Boccaccio e Petrarca sarebbero riusciti più belli sapendo meno il latino; che gli artisti si formano meglio nella vita che nella scuola, poichè nei grandissimi, in Dante, in Shakespeare, in Balzac e in Tolstoi, la novità redentrice, la bellezza inimitabile, ascende in loro dalla coscienza nazionale?

Egli invece legge, intaglia, ritaglia le frasi di antichi scrittori, impara ed assimila: Giordani, un pontefice della [197] letteratura, è il suo consigliere e gli suggerisce il solito precetto di scrivere prima in prosa e poi in verso. È possibile che scolasticamente la prosa di Leopardi sia perfetta, tutti anzi ne convengono, ma non è viva, non è la prosa del nostro secolo, non si piega, non si colora, non grida, non si oblìa nella nostra passione e nel nostro pensiero: sarà senza un difetto, ma le manca la naturalezza; è tersa come uno specchio, non come un'onda. Provatevi con questa prosa a sorprendere un dialogo, a stendervi un racconto attuale, a muoverla in un discorso fra gente mossa: immaginatevi Cavour, Mazzini, Ferrari, Manzoni costretti ad esprimere in essa la propria irresistibile modernità. Malgrado i letterati, che lo vantano ancora ultimo modello dei prosatori, Leopardi non è per gli artisti che un classico fra i classici imbalsamati dalla tradizione della scuola, senza ripercussione nella vita. Nessun scrittore veramente vivo derivò da lui la propria prosa dell'articolo, della novella, della storia, del trattato: i modelli ne sono altrove, e per diventare modello alla propria volta non bisogna averne troppi. Manzoni e Mazzini invece proseguono così dentro di noi, che ognuno li ripete inconsciamente. Rileggete i dialoghi di Leopardi, dimenticando che siano suoi, e vi sarà difficile trovare nelle loro movenze la scultura o la flessuosità di un carattere. Confrontate i suoi pensieri con quelli di Pascal: costui sembra parlare e la sua parola s'incide indimenticabile nello spirito, l'altro invece scrive per scrivere e non dice quasi mai nulla. Pazientemente, per prova, rileggete la sua Storia del genere umano, l'Elogio degli uccelli, il Parini, i Detti così poco memorabili di Filippo Ottonieri, e domandatevi quale di queste pagine possa vivere davvero nell'anima del pubblico.

Eppure il poeta della Quiete dopo la tempesta, del Sabato del villaggio, delle Rimembranze, avrebbe potuto vivere anche fuori del verso se il suo pensiero, invece d'isolarsi nella scuola, si fosse come la sua passione qualche volta obliato nella vita. Ma egli era troppo [198] ammalato e troppo solo. Bisogna in Leopardi distinguere due uomini; il prosatore, nel quale si rivelano le attitudini e le abitudini dell'intelletto; e il poeta, che, abbandonandosi nelle liriche più intime al proprio cuore, trova finalmente l'originalità di se stesso in una nuova parola, dentro una nuova musica. Il prosatore non è nè grande nè piccolo, poichè la sua maniera non ripresenta che una forma morta; il poeta invece appare meraviglioso senza essere grande. Egli non inventa alcuna forma, il suo verso non sembra e non è più perfetto che in altri, la sua fantasia è grigia come la sua vita, con pochi fantasmi, e anche questi quasi senza rilievo; ha la voce roca, l'accento monotono, una sola corda sulla lira, l'atteggiamento lugubre. Ma non è più il letterato, e dimentica ogni erudizione, non imita modelli e non si compiace nella frase, non ricama la parola; è vero, intimo, profondo, così inconsolabile che tutti si ammalano, ascoltandolo, della sua malattia. Perchè questo poeta non è che un malato. Dolore, pessimismo, disperazione, non hanno in lui altra causa ed altra forza: indarno egli lo nega orgogliosamente con Gioberti per darsi un contegno, giacchè in lui manca l'ascensione filosofica. Il suo ateismo è quello di un infermo, al quale ogni preghiera tornò inutile per ottenere da Dio la guarigione; il suo pessimismo è rimasto ingenuo come in tutti coloro, che negano la vita per non esservisi potuti abbandonare, e invece vi credono più intensamente degli altri, che la vantano. Paragonate il pessimismo dell'Ecclesiaste a quello di Leopardi. Il poeta non ha sofferto che contemplando il mondo come da una finestra di ospedale, non ha posseduto nessuna donna, e quelle che amò furono un profilo appena intravvisto: come capirebbe dunque l'antica parola di Salomone: «La donna è più amara della morte»? Se patì per l'ignobile, inintelligente egoismo dei genitori, non saprebbe ribellarsi loro; la tragedia politica della patria non lo punge, l'isolamento stesso lo salva dall'atroce battaglia della concorrenza. [199] Questo ateo adora tutte le virtù cristiane, questo infelice non odia alcuno: è disgustato della vita e morirà sognandola. Promettetegli un sorriso di fanciulla, un complimento di amico, un applauso della folla, e lo vedrete ridiventare lieto e confidente: ridategli la salute e gli avrete ridata la paura della morte. Altri poeti del suo tempo furono più disperati di lui, perchè non si può davvero odiare la vita prima di averne spremuto tutto il veleno, mentre ai poveri e agli infermi rimane sempre l'illusione che ricchi e sani avrebbero potuto essere felici.

Leopardi non è il poeta della doglia universale.

Bisogna essere Diocleziano o Carlo V per soffrire davvero la nausea della gloria, o avere esaurito tutta la filosofia come Kant, tutta l'arte come Michelangelo, per sentirsi così stanco della vita da non rispondere più nemmeno con un sogghigno alla eterna tentazione del suo sorriso. Leopardi non bevve come Musset e come Heine a molti cuori di donna per poterne morire avvelenato; non provò il vuoto nè della gloria, nè dell'amore, nè della libertà, nè della ricchezza; accusò la natura ed affermò l'infelicità di tutti gli uomini nella tristezza appunto di essere solamente uno spettatore fra essi. Quindi la sua bestemmia è senza fiele, la sua invidia senza satira, e vaga la sua disperazione. Egli non è stato il poeta di alcuna miseria: ingenuo ed inconsolabile, non parla e non canta che di se stesso; il suo cuore buono ma chiuso non sente gli altrui spasimi, non avverte le tragedie, che circondano e superano la sua. Che cosa gli è mai accaduto? Chi lo tradì? Se i genitori non lo amarono, non furono nemmeno di quelli che disonorano la vita dei figli. Vide distrutta l'opera propria? Dovette stendere elemosinando la mano? Gli fu interdetta la parola, falsato il pensiero, violata l'anima? La sua poesia non esprime che la passione di una minoranza tra gli infermi, quelli da una primigenia debolezza inguaribile messi fuori della lotta e della vita.

[200] Così egli non potè diventare un grande poeta.

Thierry, ammalato quanto lui, forse più di lui, crebbe invece a grande storico; Swift, ammalato anch'egli, arrivò nell'ironia alla significazione di un dolore ben più raccapricciante che nella Ginestra o nel Bruto minore; Burns trovò nella fame grida che fanno torcere le viscere; Pöe e Baudelaire vissero nel delirio, Verlaine mendicò ai conventi, Murger morì all'ospedale, Lenau pazzo, Riga impalato, Acuna si suicidò. Ma in Leopardi l'originale bellezza prorompe appunto dall'antitesi della sua ingenuità colla sua disperazione: è sempre il medesimo fanciullo, che sorride penosamente volendo sogghignare; il collegiale, che s'innamora da lungi e sogna la gloria sui libri, fra le vanità erudite della scuola, finchè un battito del cuore lo desta da quel sonnambulismo. Allora vede come in una chiarezza di risveglio la quiete di un piccolo paesaggio dopo la tempesta, una sera di sabato nel proprio villaggio, ascolta nel tramonto la canzone di un passero solitario, e la ripete; o cantando di notte come un pastore alla luna, improvvisamente, crede di riconoscere fra i veli di una rimembranza l'incerto profilo di Nerina, il volto altero di Aspasia, e scoppia in un inno impetuoso come una meteora all'amore e alla morte.

Ma, cessato il canto, il poeta non è più.

Quando vuole esserlo deliberatamente per gridare all'Italia o fantasticare col cardinale Mai, invece il pensiero gli si abbrevia e la strofe non vola: è un imitatore più abile che fortunato, un retore indarno sicuro del proprio strumento. La Ginestra, tanto vantata, non è che un riassunto in versi delle sue prose, una canzone di fattura buona ed antica, senza grandi qualità: nel Bruto minore mancano Roma e Bruto, il dramma e la figura, l'invettiva si diluisce nella disquisizione, e il poeta filosofeggia in versi troppo studiati perchè la scena e la passione ne escano sinceramente. Aveva Leopardi letto il Giulio Cesare di Shakespeare? Si ricordava il [201] Bruto degli ultimi atti? Non lo so. Migliore è forse l'ultimo Canto di Saffo, quantunque non veramente di Saffo e nemmeno di donna, ma di lui, sempre lui, l'innamorato senza amante, che racconta se stesso maledicendo; però quell'ambiguo fantasma pare vivo all'accento. Nel Consalvo invece il fantasma è evidente, perchè di un malato all'ora estrema, mentre gli atti e le parole sono di un romanticismo fortunatamente unico in Leopardi. Dopo di lui Tennyson in tale genere ha saputo fare più e meglio.

Che altro vi è ancora nella sua opera poetica? Alcune traduzioni di idillii e una satira moderna in ottava rima, piuttosto facile che originale: pare un poema politico, continuato dalla Batracomiomachia; ma non è nulla, non ricorda, non disegna, non colpisce. Il riso è impossibile a Leopardi, la realtà non gli si rivela chiaramente nella flagranza delle contraddizioni. Il vero poeta della satira lanciava già i primi razzi da Pisa fra le grida allegre della studentesca, senza un pensiero dell'altro, che moriva a Napoli fra la disattenzione della gente spaurita dal colera. Oggi Leopardi torna di moda, e Giusti invece attraversa un'ecclissi; ma questa moda non è più la prima ammirazione, delicata e profonda, pel grande infelice.

Una nuova teorica passò devastatrice sulla vita di tutti i più illustri, togliendo loro la verità della supremazia: adesso il grand'uomo non è che un malato, e l'ingegno una degenerazione. Lungamente, accanitamente, si scrutò dentro intorno a coloro, che meglio significarono la profonda moltiplicità dello spirito, per concludere che il genio è un difetto solamente perchè in esso durano tutti i difetti dell'umanità. Se una volta il grand'uomo pareva al disopra di questa, ora appare al disotto; prima l'apoteosi, dopo la gogna. Ma la teorica era cominciata più in basso fra i delinquenti, nei quali non si voleva vedere che un arresto o un ritorno alla primitiva barbarie, una categoria di malati ereditari ed inguaribili. Costoro si dichiaravano per certi segni; a [202] qualunque vizio di forma corrispondeva un vizio d'intelletto; a ogni errore di linea un errore di condotta: quindi nessuna colpa in essi, poichè il libero arbitrio era una illusione e la morale soltanto un risultato meccanico degli interessi. Per conseguenza i codici della giustizia dovevano mutarsi in codici sanitari, le prigioni in ospedali, i giudici in medici di ammalati incurabili. Era una resurrezione dell'antico materialismo senza novità nell'idea, ma con metodo migliore. Soppresso lo spirito, ridotto l'uomo ad un animale e questo ad un organismo, siccome i moti vi dipendono dalla struttura e la fisonomia è appunto una forma costante di questi, bastava cercare in essa il segreto di ogni atto. La psicologia stava sulla faccia e il pensiero nel cervello.

La scienza diventava facile.

Ma il mondo del pensiero non è così.

L'uomo, essendo un animale, non è solamente animale, il pensiero ha espressioni personali ed impersonali, il volto è una fisonomia e una maschera. Vi sono nello spirito idee, che la parola non può significare; il cuore ha sentimenti, che la faccia non rivelerà mai; il delinquente non è un mostro, ma un uomo come gli altri, nel quale il delitto cominciò dal peccato, prima invisibile opposizione della nostra volontà alla legge. I delinquenti, analizzati, classificati per segni esteriori dalla nuova teoria, non erano che i condannati della vecchia legge, giudicati quindi sopra una sola azione, con prove fatalmente monche, da giudici insufficienti. Il tribunale non è l'ambiente, nel quale il delitto fu commesso; i testimoni sono sempre interessati all'accusa o alla difesa, le relazioni parziali, i giudizi frammentari, la coscienza dell'imputato un mistero. Egli può essere colpevole; ma, se lo è, l'essenza della sua colpa ha ragioni misteriose anche per lui: il delitto come ogni altra azione è un punto in una serie, un anello in una catena. Tutta la vita individuale e sociale di quell'uomo vi passò e decise; ma come conoscere, riassumere, giudicare una vita? [203] La legge e la scienza vi sono del pari impotenti: la legge condanna l'azione ed applica una pena al delinquente senza pretendere ad una vera equazione fra questa e quella: la nuova scienza invece pretenderebbe all'equazione anche più impossibile fra delitto e delinquente, saldati nell'immutabile unità di un organismo. Ma i segni rivelatori della delinquenza nell'individuo non bastano alla determinazione del tipo: scoperti prima dell'arte, rimasero sempre dubbi come tutte le rivelazioni sull'uomo, che, condensando in se stesso l'intera umanità, somiglia ad ogni altro uomo, può tutto pensare, tutto sentire, tutto commettere.

Vi è certamente un rapporto fra il nostro spirito e il nostro corpo, la nostra volontà e il nostro organismo, ma nessuno potè mai precisarlo: sappiamo soltanto che in certi momenti l'anima subisce una ecclissi, durante la quale sembra ubbidire ad impulsi materiali, mentre in altri si libra nella sfera delle più pure astrazioni.

La recente teoria aveva il torto di essere vecchia, negando il dualismo del nostro essere, e contraddicendo al proprio vanto di non poggiare che sui fatti, mentre cominciava dal sopprimere in questo il fatto più primordiale e costante.

Ma il suo orgoglio falliva anche nell'analisi. Se tribunali e giudici istruivano fatalmente processi monchi e davano sentenze insufficienti, i nuovi scienziati non ottenevano nei gabinetti e nelle cliniche migliori risultati: le loro inchieste moderne non valevano più delle antiche istruttorie, i loro schemi patologici meglio delle categorie giuridiche, mentre le loro decisioni apparivano anche peggiori degli altri verdetti. Ma se non vi è nell'uomo una morale, un diritto, una giustizia superiore all'uomo, a che pro quest'ultima ipocrisia di sostituire le carceri cogli ospedali? Perchè, in nome di quale interesse, i sani manterrebbero a proprie spese malati inguaribili, e gli aggrediti gli aggressori?

Che cos'è più il delitto fuori della morale?

[204] Nella lotta per la vita i vincitori sopprimono i vinti: la nuova teoria invece non aveva il coraggio della propria logica, proclamando la utilità di eliminare colla morte tutti coloro, che la maggioranza giudicherebbe inconciliabili nella sua vita.

Se il delitto è senza colpa, e la difesa contro di esso soltanto una necessità sociale, l'utile solo può e deve deciderne i modi e i limiti.

Infatti nessuno fra i penalisti della scuola positiva aveva osato scrivere un codice. Il loro sistema, costruito con molte osservazioni, belle e parzialmente vere, giovò solamente a richiamare il giure antico dalle sottigliezze delle analisi idealiste ad un nuovo esame degli ambienti e dei caratteri umani; e fu bene. Tutto il resto passerà indarno come la teoria della degenerazione nel genio.

Sempre, nei tempi anche meno civili, l'istinto della folla credette sorprendere rapporti fra il disordine della follia e quello del genio, poichè sono entrambi due momenti prossimi della ragione umana; visione e giudizio si combinano falsamente nell'una; imprevedibilmente nell'altro. L'uomo di genio non è l'uomo perfetto, ma l'uomo più grande. La perfezione non è della nostra vita, quantunque vi si realizzi per qualche istante, su certi punti; quindi nel genio permangono tutti i difetti dell'uomo ordinario, fors'anco più vivaci per una maggiore intensità di rapporti. Ma egli può armonizzarli in se medesimo con altre virtù, sino a compiere opere, per le quali non basterebbe qualunque altra somma d'individui. Ecco tutto il suo segreto. Però l'uomo di genio non ha nello spirito categorie ideali che manchino al resto della gente: la sua grandezza si compone nella massa delle solite relazioni sotto la legge comune, senza consentirgli il diritto di alcuna violazione.

Come vedere dunque nel genio una degenerazione?

Se il grand'uomo soffre ogni umana malattia, e ha le debolezze, commette gli errori, può compiere gli stessi delitti degli altri, ciò prova solamente che il suo genio [205] non è una differenza, ma un grado mobile della natura, il quale s'innalza a certe ore, in date circostanze, per ricadere poco dopo nel livello comune. Difatti non in tutta la sua opera, e nemmeno nella parte migliore, la verità e la bellezza attingono la medesima purità.

Secondo il vecchio significato della parola, il genio non veniva riconosciuto che in quei pochissimi, i quali avevano potuto significare con potenza presso che uguale tutto un lato del poliedro umano: Dante, Beethoven, Michelangelo, Shakespeare nell'arte, Hegel nella filosofia, Cesare nella politica, Keplero nella scienza, Mosè nella religione: ed anche in questi uomini la sintesi fu parziale, e il sistema talmente incompiuto che si dovette ricorreggerlo. Così nel genio sentimentale dei santi la virtù non giunse mai a comporsi in un'assoluta armonia, benchè apparisse dentro un accordo meraviglioso e consolatore. Alcuni fra essi furono costretti ad isolarsi dal mondo, altri ignorarono la giustizia nella pietà, altri immolarono il corpo all'anima, altri ancora s'innamorarono del dolore con passione di amanti vedendo in esso la sola ascensione della vita.

Nè perciò furono degenerati.

La pretesa di trovare la verità nell'uomo medio è anch'essa un vecchio sofisma democratico.

Anzitutto l'uomo medio non esiste: la verità è in tutto e in tutti, sale per sfere, sfavilla nelle più alte. Il grande, il mediocre e il piccolo uomo sono lo stesso uomo, che un medesimo mistero ricinge, mentre lotta indarno contro di esso: nessuna idea necessaria manca ad alcuna coscienza, se la morte non vi sia già entrata con qualche malattia micidiale o colla sua ombra profonda; nessuno dei problemi fondamentali sarà mai sciolto da alcun uomo. Siamo tutti egualmente liberi sotto la legge che ci governa, ignari dell'infinito che ci avvolge, infelici della vita che ci sfugge, enigmatici in un enigma, del quale ogni rivelazione raddoppia in noi simultaneamente i deliri del dubbio e gli spasimi della fede.

[206] Meglio dei delinquenti i grandi uomini avrebbero potuto scoprirsi alla nuova teoria, se invece di cercare il loro segreto nelle biografie, questa l'avesse estratto dalle opere. Ogni biografia non vale più di un'autobiografia: nella prima l'uomo è mostrato come apparve a qualcuno, nella seconda come egli stesso avrebbe voluto apparire: le biografie sono un giudizio unilaterale, monco nei fatti, insufficiente nei criteri, che quasi sempre volle dare di un uomo superiore un altro inferiore. L'autobiografia ondeggia fra l'apoteosi e la confessione, entrambe false anche se in buona fede. Ma vi è un documento senza menzogna in ogni opera sovrana. Dante bisogna cercarlo tutto dentro la Divina Commedia; in questo sforzo supremo egli giunse necessariamente alla sincerità inconsapevole, e tutto il resto, che di lui si racconta, non è più vero degli aneddoti e delle accuse paleggiate sui giornali contro gli attori viventi del nostro dramma storico. Perchè dunque alzare ogni biografia a documento di scienza per giudicare un grande uomo?

E la biografia del biografo non sarebbe egualmente necessaria prima della sentenza?

Coloro, che vissero presso Napoleone e Garibaldi, li conobbero forse meglio di noi, che li vediamo nella prospettiva storica? Si è forse dimenticato che ogni superiorità è una maschera per la maggior parte della gente, la quale, interrogandola, ne intende soltanto le risposte più gradite?

Ma contro Leopardi l'indagine passò ogni misura per non giungere che ad una inutile negazione. Con quella ingenuità così facile alla scienza, quando dimentica se medesima nella vanteria delle spiegazioni, si volle anche per lui cercare l'origine dell'opera negli antenati, e si risalirono cronache domestiche e paesane dietro ai malati e agli infelici della sua casa, che per legge atavica dovevano avergli trasmessa l'eredità del genio doloroso, senza dubitare un solo momento che questa legge resterà sempre un'ipotesi nella razza umana. Per la scienza [207] l'uomo non ha altro parente che la madre, mentre tutti gli altri figurano appena come rappresentanti legali nella buona fede del costume o per la fede sublime dell'anima; ma, sapendo il vagabondaggio sessuale del maschio e della femmina, come potrebbe la scienza costruire sulle parentele una serie qualunque? Le rassomiglianze forse? Ma facilmente fallaci, perchè dominate in noi da una prevenzione, non sono mai bastevoli, e quando anche lo fossero, in qual modo precisarle al di là dei vivi?

La generazione è un mistero.

Quell'inglese Galton, che in un libro studiò la figliazione del genio, fece opera di poesia e non di scienza: sciaguratamente il libro non riuscì abbastanza bello, e poesia e scienza vi tramontarono nella rettorica. Con peggiore fortuna e più acre caparbietà si vollero quindi radunare nel giudizio su Leopardi tutte le sue miserie, le confessioni, le dicerie di amici e di nemici, di dotti e di ignari, come coefficienti decisivi alla diagnosi della sua malattia.

Malato certamente era, ma il suo cuore e il suo intelletto si mantennero sani. Malgrado le nebbie della melanconia, nessun'altra figura appare più limpida della sua; poco importano i suoi urli di dolore, o le idee in certi momenti a lui suggerite dalla disperazione. Se egli fa pessimista, tutti gli uomini, discendendo a certe profondità, lo diventano; ma anche in queste, piangendo e maledicendo, serbò fede alla bellezza e alla virtù. Il suo pessimismo non scivolò mai nella immoralità, le sue bestemmie affermano una religione più alta della comune, il suo disprezzo tradisce lo spasimo di una aspirazione ideale, il suo odio della vita non è che un'acredine dell'amore. Egli non chiede consolazioni all'empietà: è uno stoico che protesta, un cristiano che si duole, e sopratutto un infelice che invoca.

Ecco perchè il mondo lo ama.

Nessuno prende sul serio la sua filosofia e tutti s'interessano alla sua disperazione.

[208] Le donne sole non lo guardano: egli ne singhiozza notte e giorno, forse in questa angoscia la natura esasperata lo trascina giù a qualche miserabile e solitaria rivincita, ma nella sua anima il fantasma della donna sfavilla sempre nella stessa luce cilestrina, e il suo orgoglio di uomo non si drizza che una sola volta dinanzi alla crudele vanità di una dama. In tutta la sua poesia non una parola contro il padre e la madre, che furono il suo primo e più lungo dolore. Se la compagnia mondana gli ripugna e non vede la magnifica sanguinante tragedia già incominciata con Mazzini e Garibaldi, egli è un malato, chiuso fra i libri, che difficilmente può avere del mondo bastevoli notizie: se il suo cuore di poeta non canta i dolori degli altri, questo egoismo è una miseria comune a tutti gli infermi, e nondimeno in qualche ora meno tormentosa la sua simpatia si effonde e la sua parola consacra alla gloria della immortalità qualche effimero quadro nella esistenza dei poveri, come in quella mirabile quiete dopo la tempesta, o in quella sera di sabato, quando nel villaggio la gente si riprepara alla breve gioia della domenica.

Egli ama la gloria; gitta un grido di riscossa all'Italia, un altro d'invocazione a Dante; si crede Simonide sul colle d'Antela, Bruto nella pianura di Filippi, Consalvo morente e beato per un solo bacio di Elvira; invidia a Silvia di essere morta nella purezza degli anni giovanili; il giorno delle nozze ammonisce la sorella Paolina di augurarsi figli miseri piuttosto che codardi; ad un giocatore da pallone addita più nobili giuochi e più generosa palestra; dinanzi al ritratto di una bella donna scolpito sul sepolcro nessuna sensualità lo turba, ma austero e melanconico saluta quella morta, che lo ha preceduto nel mistero.

I degenerati non sono così.

La salute nel suo spirito si rivela nella purità della forma poetica. Non una rilassatezza o una contorsione nel verso; la sorgente ne è profonda quanto la musica, [209] la frase castigata quanto il pensiero. Affamato di gloria, non concede nulla alla vanità, non cerca affannosamente il pubblico, insidiandolo nel gusto per carpirgli un applauso. Una stupenda euritmia gli accorda le figure col fondo dei quadri, una stessa verità perfeziona il loro atteggiamento e le loro parole: vi è la tradizione classica, ma più ancora di questa tradizione una coscienza magnanima di arte. Dopo l'abbarbagliamento rettorico di Monti, e nel primo incanto della poesia manzoniana, dietro la quale tutta Italia saliva osannando, serbarsi così lontano, originale, non contrarre alcun vizio, non degradarsi nella celebrità per meglio attingere la gloria, ma cantare solamente a se stesso come un cigno non visto e non ascoltato, è forse la più stupefacente meraviglia di un poeta in questo secolo.

Altri lo vinsero d'ingegno.

Egli non poteva essere grande, perchè la grandezza di un uomo si forma appunto dalla quantità di vita rappresentata, e per un poeta come per un politico il teatro diventa misura. Tutta la sua immensa dottrina rimase inutile meno per colpa sua che del mondo nel quale passò: altrimenti nato e vissuto, che sarebbe egli diventato? Inutile chiederselo: questo è uno dei tanti problemi assurdi, nei quali la fantasia si compiace a compromettere la storia. La sua figura è ormai precisa nell'anima d'Italia.

Se Manzoni gli sovrasta, avendo rinnovato pressochè tutta l'arte; se Foscolo prima di lui, meglio di lui, aveva indotto nel verso una non superabile bellezza, evocando nell'Aiace con minore erudizione più vere anime greche; se Carducci oggi sembra ed è lirico di più lungo e vario volo, nessuno come Leopardi seppe essere tanto antico e tanto moderno, classico ed ingenuo. Il suo bagaglio poetico è piccolo, ma non si può altrimenti galleggiare sul fiume sempre più grosso della posterità. L'Italia, preparandosi alla tragedia del risorgimento, aveva già in Mazzini, in Garibaldi, in Cavour, in Ferrari, in Cattaneo tutta l'eroica modernità del pensiero; Monti e Foscolo [210] erano morti, Manzoni non cantava oramai più, guardingo della propria gloria e dubitoso per terrori cristiani; mentre Leopardi mandava gli ultimi lamenti, quasi preludi a più tragiche disperazioni.

Ieri, a festeggiare il centenario della sua nascita, convennero nel natio borgo selvaggio rappresentanti di ogni parte d'Italia: vi furono discorsi, si murarono lapidi, si scoperse la statua, si disse tutto l'elogio e il biasimo, le volgarità antiche e le nuove. La gloria è così. A Recanati adesso ogni cosa si intitola dal nome e dall'opera di Leopardi; nel suo palazzo sono esposte anche le sue cambiali.

Ne sarebbe egli contento, sapendolo? Troverebbe dopo un secolo mutata la sua famiglia?

Povero gobbo!

Egli non è grande. Nel secolo decimonono, cominciato sotto l'occhio olimpico di Goethe e finito dinanzi allo sguardo profetico di Tolstoi, Leopardi appare un solitario. Molti lo superano dell'omero, ma la sua figura rimarrà indimenticabile. Sainte-Beuve e Hamerling hanno indarno voluto tradurlo, perchè la sua bellezza è un segreto essenzialmente italiano: di Byron, di Musset, di Hugo, di Lecomte Lisle, di Witman, di Swinburne, di Heine, di Morris qualche cosa resta nelle traduzioni: la loro fantasia ha creazioni più prestigiose, immagini più abbaglianti, scene più vive, fantasmi più originali: la loro passione solcò come un torrente il loro secolo, e la loro parola può quindi echeggiare in altre lingue, ottenere diritto di patria presso tutte le nazioni.

Adesso l'arte pare mutarsi in tormento. Le sue forme più certe ondeggiano e si dissolvono; poesia e pittura, libro e teatro, musica e verso non hanno più una limpida coscienza di se stesse: il pubblico avido e distratto esige la novità senza intenderla, il clamore dei giornali copre la voce dei solitari, le necessità del commercio e le brutture del successo viziano opere ed autori. E la scienza, arrivata ultima, raddoppia l'imbroglio. Se una [211] volta infastidiva la religione colle pretese a spiegare tutti i misteri, oggi guasta l'arte colla prepotenza delle intervenzioni e l'insania sistematica: medici e sociologi s'improvvisano critici; grandi romanzieri come Zola hanno potuto vantarsi senza ridere di applicare il metodo sperimentale ai proprii personaggi.

L'arte non è così.

Come la filosofia e la religione, essa comprende tutto l'uomo, ma il suo capolavoro erompe da un mistero d'ispirazione spontanea, di critica inconsapevole, di morale profonda. Bisogna quindi restare fra la folla puro, come Leopardi nella solitudine; essere meglio di lui novatore, continuando la tradizione, uscire dalla scuola ad ascoltare le risposte della vita nelle affermazioni più eccelse e nelle negazioni più basse per ridirne il segreto. Egli invece la contemplò sempre come un malato dalla finestra di un ospedale, o come un erudito che vi si riaffacciasse tratto tratto dalla lontananza dei secoli; visse nel dolore e morì senza gloria nella casa di un amico, che gli fece poi pagare con ignobili rivelazioni la vanitosa ospitalità: ma nessun poeta, pure assorbendo dalla vita tutti gli elisiri e tutti i veleni, diventerà di lui maggiore, se nella coscienza non gli si rinnovi lo stesso culto di un'arte superiore all'artista ed al pubblico.

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