L'ho vista nel quadro di Lembach.
Non sono che poche linee, e la testa appare senza sfondo, immobile, fredda, dura, viva, quasi per una evocazione improvvisa, davanti alla quale si abbassano gli occhi e la mente si turba di riverenza. Il grande pittore mutò pel grande ministro la propria maniera: egli, tedesco, capì che la posterità avrebbe voluto vedere di Bismarck solamente la fisonomia per confrontarla coll'opera, perchè una stessa vita doveva averle animate e, i lineamenti dell'una non potevano essere che lo schema dell'altra. Così fu, così ricompare nella magnifica pittura. Il gigante, che coagulò l'impero germanico stringendone nel pugno per venti anni i frammenti, non mai vinto, e, morto finalmente nell'esiglio della propria casa, è ancora lì, altero e solitario, coll'occhio fiso, la faccia impenetrabile nella lunga ostinazione. Egli volle subito e sempre. Basta guardarlo per sentire che nulla e nessuno avrebbe potuto resistergli: le membra non si vedono e sono di colosso: l'abito non è disegnato, ma deve essere quello di guerriero, montura o corazza, insegna od arma, che lo significhi tutto e dovunque, perchè la sua idea è tutta di opera; non ha la propria coscienza che nel fatto, non può esprimersi che nella lotta.
Il genio germanico, che aveva con Hegel conquistato [180] l'impero della astrazione, si contraddice in Bismarck, l'attore che maneggia la materia di un nuovo impero e doma la realtà come l'altro signoreggia l'ideale. Non so che di Hegel vi sia un ritratto illustre, ma nessuno ne chiede, e basta questo a definire l'uomo. Leggendo i suoi libri, il pensiero resta per lunghi intervalli abbacinato: l'idea vi si svolge ad una altezza senza misura, in una serenità troppo lucida, senza ombre che diventino figure: siamo in un paradiso simile a quello di Dante, fra un bianco ardente, nel quale le anime sono fiamme e le apparenze un fremito della luce. Non vediamo più il filosofo, non sappiamo più immaginarlo uomo nella nostra esistenza di tutti i giorni, fra i pettegolezzi di una carriera di professore. Nessuna gloria salirà forse al disopra di questa, ma l'anima della gente non può seguirla lassù.
Hegel è l'intelletto.
Su lui morto uno dei suoi illustri scolari credette poter dire: — Egli fu il Cristo del pensiero; — e disse male. Hegel è ancora più alto, la sua vita sparisce nel suo pensiero, poichè questo aveva già disciolto nella più eccelsa astrazione tutto il mondo.
In Bismarck il genio si capovolge.
Egli è l'eroe della vita; per lui ogni fatto è un ostacolo o un aiuto, ogni uomo un istrumento da maneggiare o da frangere nella propria opera. Mentre tutti intorno a lui cercano l'unità della Germania nella poesia e nella storia, fra i filosofi o gli scenziati, egli la sente in se stesso: nessuna differenza tedesca l'offende, perchè nessuna è invincibile; non crede alla verità delle idee che non sanno realizzarsi, non si arresta davanti ad alcuna anticaglia; vuole mutare per creare, e gli abbisogna il comando per fondare l'impero. Se Napoleone è la più terribile volontà in una fantasia di condottiero, Bismarck è una volontà capace di diventare l'anima di una nazione attraverso venti anni di conflitti nella corte, nel parlamento, nelle caserme, nelle piazze, nei campi: egli vuole anzitutto una nuova Prussia compatta e sottomessa [181] alla necessità di mutarsi in impero, divenendo una patria di soldati, che non discutono gli ordini e combattono coll'orgoglio di essere invincibili nella infrangibilità della propria disciplina. Invece la Prussia, prostrata da Napoleone, umiliata nella ristorazione, usciva allora da un carnevale sanguinoso di accademia e di strada, colla doppia esasperazione di un disordine democratico e di una impotenza dinastica egualmente ridicola in Europa. Le passioni fervevano ancora, lo sbaraglio delle menti si mutava in una rotta di tutte le coscienze, in uno sbandamento degli interessi e dei costumi.
Bismarck era già pronto.
Come tutti i veramente forti, egli aspettava il proprio momento senza affrettarlo, quasi nella calma di una indifferenza capace di accettare tutto, una funzione di borgomastro o di mercante, di ministro o di agricoltore. A questa ultima si era già deciso. Non vi sono bassi temi per i veri poeti, nè piccoli teatri per i grandi attori.
Il suo carattere si era già significato da giovinetto, all'università, nella diplomazia, nell'esercito, nella Dieta di Francoforte, nella rivoluzione, sempre lo stesso, senza amore nè alle parole nè alle idee, impetuoso ed ostinato, sicuro nella forza, superbo nella volontà. Il bisogno di azione lo vinceva spesso: nel primo giorno d'università si era battuto tre volte, iroso nella sfida, senza rancore nella vittoria: ufficiale, si era dimesso per la insofferenza di una prima attesa nell'anticamera di un colonnello: diplomatico nei gradi inferiori, vi aveva una villania aristocratica ed insieme plebea rotta più di una volta l'etichetta: all'assemblea di Francoforte, fra il chiasso di tutte le rettoriche, egli solo aveva osato negare il diritto e la forma della sovranità popolare: nella rivolta di Berlino e delle campagne aveva armati i proprii contadini, si era armato lui stesso per offrire al re, come un feudatario di altri tempi, una schiera di vassalli.
E tutti avevano riso.
Ma l'uomo non mutò.
[182] Quando nella tormenta sempre più fiera del nuovo parlamento, fra le incertezze dei ministeri e della corte, qualcuno suggerì il nome di Bismarck come del solo uomo capace di sovrapporsi a tutti, e il re gli offerse il portafogli, allora solamente, davanti all'avvenire della propria opera immensa, il formidabile novizio tremò, chiedendo due giorni a risolvere. Quella vigilia ignota a tutti condensò certamente il magnifico poema dell'impero germanico in una delle anime più grandi e solitarie di tutta la storia. Egli dovette prevedere e presentire la dolorosa enormezza dell'impresa, alla quale la strage di tre popoli doveva appena bastare, quindi le violenze, le ingratitudini, gli abbandoni, le falsità, i milioni di anime infrante, e la sua sempre più sola sotto la maschera impassibile di eroe egualmente incompreso ai vincitori e ai vinti. Se avesse scoperto subito il proprio disegno, nessuno gli avrebbe creduto, ed egli potè proclamarlo così nel più sicuro ed efficace degli inganni: fare della Prussia una grande nazione, opporsi all'Austria e alla Francia, preparare nel centro di Europa l'argine all'immenso mare slavo, raddoppiare la vita della nazione soffocandola quasi nell'esercito, sollevare tanto alto la dinastia che tutta la Germania potesse stringersele sotto, e l'Europa da lungi contrastasse indarno nella soggezione del miracolo improvviso.
Così prima la Danimarca, poi l'Austria, finalmente la Francia furono vinte.
Egli sorse quale era prima: apparentemente sottomesso al re, non obbedì che al futuro imperatore del proprio pensiero: cancelliere, nel parlamento ordinò invece di discutere, entrandovi di rado e superandolo sempre nelle domande e nelle risposte: avvolto nell'odio popolare, ne sdegnò il pericolo e l'ingenuità, in una visione di gloria troppo alta per la riconoscenza di una generazione. Ma, poichè la sua anima era il centro della patria, tutte le altre vi convergevano con una passione inconsapevole: per molti anni egli fu il bersaglio degli [183] intelletti, che si ribellavano al suo istinto e non avrebbero voluto soggiacere nella sua opera: parve piccolo nella stravaganza, e pesò come un incubo su tutte le coscienze.
La forza misteriosa gli veniva dall'unità della vita, nella quale il pensiero, la volontà e l'azione procedevano indissolubili. Come tutti i creatori, egli credeva in Dio, concependo la sovranità nella tutela del genio sulle moltitudini eternamente cadette: la sua politica derivava dalla profondità del passato pei rivi più limpidi della tradizione, accettando colla spontaneità della giovinezza ogni novità vitale. Una magnifica ostinazione lo rendeva al tempo stesso sincero ed impenetrabile; qualche volta invece una semplicità di selvaggio copriva in lui, anche più pericolosamente, le più sottili cautele del cortigiano e gl'invincibili istintivi pregiudizi dell'aristocratico. La differenza di tali nature formava anzi l'originalità della sua, meravigliosamente atta a qualunque funzione dentro le immutabili linee di un immenso quadro. La sovrapposizione delle classi nella società doveva quindi apparirgli come una intima, necessaria bellezza della architettura nella storia contro il concetto democratico di un mondo piano e ondulante, dal quale i gruppi s'innalzano e si abbassano come flutti sul mobile livello delle acque. Tutta la sua cultura era nei fatti del passato o del presente: credeva più alla religione che alla scienza, avendo forse, nell'aprire il proprio solco dentro l'umanità, traveduto talvolta l'impronta di un disegno misterioso.
Ma quando la gloria, nell'abbarbaglio della propria luce, lo trasfigurò agli occhi del mondo, e le leggende rampollarono dalla sua vita, questa resistette ancora nella semplicità della prima forma: il cancelliere era sempre lo stesso deputato alla Dieta di Francoforte, il diplomatico che aveva ingannato tutti dicendo la verità, trattando ogni affare al medesimo modo, camminando sulla linea più breve, rovesciando con la forza gli ostacoli che non [184] poteva girare, opponendo la propria unità agli interessi divisi dei nemici. L'Austria non poteva essere l'impero germanico per antitesi irreducibili di razza, di religione e di storia: Napoleone III non era la Francia, ma l'ultimo esperimento di questa nella postrema forma cesarea. La necessità dell'impero germanico erompeva invece dall'anima moderna, che vuole essere libera nella propria individualità, mentre per costituirsi deve accettare la forma vivente del proprio costume. Ecco il segreto delle due grandi vittorie monarchiche in Prussia e in Italia. Se Cavour in un popolo più antico e più vario aveva già risolto trionfalmente lo stesso problema, dovendo mentire spesso nell'idea e umiliarsi nei mezzi, Bismarck, alla testa di una nazione più compatta e più forte, non fu mai costretto ad abbassare la testa o la bandiera: l'opera dell'uno era più difficile, quella dell'altro riuscì più poderosa; Bismarck vi fu solo, intorno a Cavour grandeggiarono rivali ed aiutatori Mazzini e Garibaldi, così profondamente moderni che la loro modernità rimase in gran parte profetica. Il supremo ostacolo nell'Italia era il papa: per la Prussia l'ostacolo era in se stessa, nella necessità di diventare così forte e di apparire così grande da vincere le gelosie della Confederazione colla riverenza della vittoria.
In questo sforzo Bismarck sorpassò Cavour, avviluppando tutti, la corte, il parlamento, il popolo, la borghesia, l'esercito nell'ostinato entusiasmo per la grandezza della patria. Silenziosamente, lentamente, infiammò le anime: e vi era un orgoglio così alto in ogni suo atto, una fede così sicura in ogni disegno, una forza così instancabile in ogni preparazione, che tutta la Prussia si trovò un giorno stretta in falange dietro di lui, come nell'epoca delle invasioni un popolo intero seguiva un solo uomo attraverso l'avventura misteriosa della conquista. Ma in quel punto il credente dubitò. La certezza, che lo aveva sorretto sino allora, lo abbandonò improvvisamente nell'ultima vigilia, quando nessuno più dubitava. [185] Egli medesimo confessò di avere per tutto il tempo della campagna contro l'Austria tenuta la rivoltella in tasca per farsi saltare le cervella al primo annunzio della sconfitta. Accade sempre così in ogni creazione. La stanchezza ci sorprende sulla fine, il dubbio scoppia nel momento dell'adesione universale, perchè l'errore non sarebbe allora più riparabile; prima si è superbi di una priorità, che ci consente di vedere più lontano e meglio della massa: dopo, l'improvviso consenso di questa abbassa quasi il nostro intelletto al suo, e lo rende incerto di aver avuto ragione. Così i più grandi artisti tremarono spesso per la verità della loro opera, quando la folla l'acclamò col facile applauso delle sue effimere predilezioni.
Anche Bismarck era un artista.
Solo un grande poeta lirico poteva infatti, scrivendo l'inventario della presa di Sédan, cominciare così: «l'imperatore»: solamente un grande poeta tragico poteva prima aver falsificato il dispaccio di Ems, freddamente, seguitando a cenare con due generali e mandandolo al re per deciderlo alla guerra: solamente un grande poeta della scena poteva sentire la necessità di proclamare l'impero germanico e d'incoronare Guglielmo nella immensa sala di Versailles, dedicata a tutte le glorie della Francia. Ogni decisione suprema è sempre un atto di poesia: l'intelletto aveva tutto preparato, l'evento era maturo, la fatalità impaziente, tutta l'angoscia del mondo sospesa ad un attimo, ma quell'attimo diventa senza fine nella coscienza dell'uomo, che deve precipitare la catastrofe. La risoluzione allora erompe come una luce: è la scintilla che illumina l'avvenire o una sua aspirazione, che solleva l'anima come sopra un vento per gettarla al trionfo o alla morte. «Alea iacta est», la estrema parola di Cesare, chiudendo gli occhi e precipitandosi attraverso il ponte nella oscurità della storia; il grido di Pietro Eremita: «Dio lo vuole!»; il gesto di Garibaldi, decidendo l'impresa dei Mille.
[186] Ma il Bismarck non era veramente un soldato.
Se la sua faccia fra l'elmo e la corazza può sembrare di guerriero, l'idea, nella quale rimane irrigidita, è più profonda di ogni combinazione militare, e il suo occhio, illuminandosi di una fiamma interiore, rischiara un più vasto segreto. Come tutti i creatori, anch'egli ha vissuto nel sogno di un mondo ricomposto dal proprio genio, e lungamente immutabile nell'avvenire.
Il sangue della strage non era per lui che il sangue di ogni parte per il chirurgo, mentre tutti i dolori stanno per essere consolati dal primo grido del bambino. Sotto quei lineamenti significati dal pittore con poche linee non vi è una vera durezza; la fronte minaccia, la bocca è severa, nell'atteggiamento sembra crescere ancora l'intensità della lotta; e nullameno, contemplando quella testa, l'anima non trema che di riverenza. E a poco a poco quella testa diventa malinconica nella solitudine della tela vuota: si pensa che il grande uomo è già relegato dall'egoismo della nuova generazione nella lontananza della gloria, verso la quale solamente alcune anime di poeti si avviano in devoto pellegrinaggio, mentre il resto della folla vive indifferente nell'opera immensa o la viola con critica ingrata.
Chi fra i giovani d'Italia ama adesso Garibaldi? Bismarck fu cacciato, vecchio ma intero, fuori dell'opera propria, nell'esiglio di un ozio certamente a lui più greve di ogni fatica: il primo imperatore era stato seppellito da pochi giorni; il secondo aveva ricevuta la corona dalle mani della morte; l'ultimo, quasi un fanciullo, volle regnare solo. Il gigante non si piegò, non sentì forse d'essere vinto, e si ritrasse mormorando. Allora nella moltitudine scoppiarono colla stessa fulminea intensità tutti gli odii e tutti gli amori per lui: la massa gli rimase fedele; i partiti invece, sfuggendo alla lunga terribile stretta della sua mano, gli si voltarono contro come monelli, insultando. Tutti si vantarono simultaneamente del suo esiglio e nessuno capì che l'impero solo aveva vinto Bismarck. [187] Poichè la grande giornata della creazione era finita, l'artista diventava un pericolo per l'opera, un ostacolo al suo sviluppo. Un'altra generazione riempiva già l'impero, compiendone l'unità col numero inesausto delle piccole transazioni, crescendovi nuove forze con differenti ideali, mentre i soldati delle prime battaglie non vi rimanevano più che una decorazione ingombrante, e la tremenda pressione, già necessaria a determinare il getto nella ganga, poteva, curando, spezzare l'uno e l'altra.
Il grande sognatore non lo aveva sentito.
Quindi si destò per parlare ancora, senza che nessuno più lo comprendesse nemmeno fra coloro che lo ascoltavano. Napoleone I non aveva egli pure parlato indarno da Sant'Elena? Non si può essere la guida di due generazioni, perchè i momenti della storia si succedono senza ripetersi nel loro eterno bisogno di originalità; ma quando la morte comincia coll'esiglio, pochi uomini sono così grandi da accettare nel suo silenzio la prima solennità della gloria. Invece seguitano a parlare, e i loro ultimi giorni nell'inutile sforzo di un estremo atteggiamento non sono più che un epilogo, la più vacua delle forme rettoriche.
Una malinconia annebbia la tela del ritratto.
Pochi se ne accorgeranno, forse il pittore stesso non la sentì che tirando quelle tre o quattro pennellate brutali, quasi disperate, dietro la testa senza sfondo come i fantasmi nella memoria. Il ritratto di tutto l'uomo avrebbe diminuita la sua rivelazione: che importa l'uomo? La posterità non voleva che la sua fisonomia, quella linea essenziale, immutabile nell'opera e nell'attore. Bismarck vecchio, che brontola invece di comandare e si rannicchia ad ogni rimprovero del medico, e utilizza i ricordi della propria diplomazia per ottenere il permesso di fumare in una pipa o di mangiare una frittata, non è il Bismarck vero della vita e della storia.
Lembach ha avuto ragione: tutti gli altri biografi, moltiplicando le analisi e frugando nei più ignorati ripostigli, [188] non troveranno mai il segreto del grande cancelliere.
Questi era già morto prima che il giovane imperatore accorresse per stringergli la mano nell'agonia e tremare più che dinanzi alla morte del nonno e del padre. L'uno e l'altro, i due imperatori, non erano che due maschere dell'impero: l'imperatore vero moriva allora in quel castello dei Bismarck, fra un cappellano ed un medico del pari insignificanti, con pochi contadini sotto le finestre.
Poi l'imperatore offerse di seppellirlo fra i proprii avi, ma l'altero esule aveva previsto anche l'ingiuria di quest'ultimo complimento, e volle essere solo nella morte sulla cima di un colle, sotto un cippo, con questa scritta: «Ottone di Bismarck, servo fedele dell'imperatore».
L'orgoglio umano non può salire più alto.
Servus servorum, il motto del papa, la definizione del genio.
Adesso la recente generazione germanica non può sentire la bellezza e la enormità dell'opera compita da lui, appunto perchè vi si compiono ancora troppi spostamenti: solo più tardi, quando altre generazioni vi si saranno composte, l'enormità dell'opera e la sua bellezza riveleranno l'uomo.
Ogni popolo a certe distanze di tempo si riassume in un individuo: per noi nel secolo passato Napoleone I fu la Francia, Garibaldi l'Italia, Bismarck la Prussia; il loro eroismo assorbì per un periodo tutta l'anima di un popolo per darle un'altra forma e un'altra vita. Dopo Napoleone, Garibaldi, Bismarck, nessuna delle tre nazioni riconobbe più se stessa, o guardando indietro potè credere di seguitare la propria tradizione. Una originalità si era in loro rilevata, sospingendole nell'avvenire.
Napoleone e Garibaldi sono due condottieri: quegli l'ultimo Cesare delle rivoluzioni, questi il primo cittadino veramente mondiale, che si batte per tutti e ha una patria [189] ovunque un uomo si sente libero: Napoleone sogna nella conquista, Garibaldi nella libertà.
Bismarck è l'eroe tedesco sempre imperiale come Barbarossa, come Goethe, come Hegel, come Wagner: è l'idea germanica colla rivoluzione dentro la tradizione, la libertà nell'obbedienza, l'originalità sotto l'ordine, l'impero e l'imperatore nell'armi, nella poesia, nella filosofia, nella musica.
Carlo Marx, il solo rivale di Bismarck, è anch'egli un imperatore che disegna nella negazione di tutta la storia un sistema con frontiere invarcabili come quelle dell'impero germanico, colla stessa preparazione, la stessa disciplina, il medesimo esercito: ma il suo non è che un genio di semita, e i semiti da troppi secoli non creano più.
Goethe e Bismarck, Napoleone e Garibaldi non potevano essere ebrei.
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