Ho aperto la finestra.
Un chiarore trema in alto ai primi raggi del sole nascosto dietro Monte Mauro, mentre un vento freddo passa silenzioso fra gli alberi ancora seminudi.
Pel vano della finestra senza tende guardo a questa alba pallida e lieve, che sembra ridare al mondo l'effimera infanzia della propria ora; non una nube nell'aria, non un moto sulla terra.
— Quivit, quivit! —
È un grido di rondine, come lo traduceva Anderseen in quelle favole da bambini, così delicate e profonde di passione anche per gli uomini.
Le ultime viole scomparvero già sotto l'erba alta dei prati, dacchè una brina avvizzì tutti i fiori dei peschi, che ne rimasero freddolosi e rabbrividiscono ancora in questa pura aria mattinale. Fiori e illusioni, cadendo, lasciano sempre lo stesso freddo ai rami ed ai cuori, ma quelli si vestono prontamente di foglie, questi non si coprono più che di muffe.
Eccola.
È risalita sotto la grondaia ad esaminare il vecchio nido e garrisce di gioia nel riconoscerlo intatto, perchè l'amore non le costerà quest'anno la fatica di costruire un altro. Sempre così: la voluttà è pigra nelle rondini come [116] nelle donne, che vorrebbero anch'esse sempre pronto il nido, riscaldato dal soffio delle stufe nell'inverno, profumato di fiori in ogni stagione.
Un freddo d'insonnia mi sorprende invece dopo questa lunga notte allo scrittoio, solo, dinanzi a me stesso. Dove si sarà fermata ieri sera questa bruna pellegrina in viaggio verso la mia casa? Era sola? Perchè sola e prima? Sotto la grondaia vi è sempre il medesimo villaggio pensile di nidi, e non ricordo sino da fanciullo di averne mai veduto cadere alcuno, mentre i calcinacci si staccano ad ogni impeto di pioggia o di vento. Forse che il mastice, formato dalle rondini colla saliva, è più tenace della calce usata da questi muratori montanari, o la forma tonda dei nidi, così simile ad una mammella virginale, attenua le scosse, e li salva?
— Quivit, quivit! —
Eccola ancora che si è posata colle zampine lanuginose sulla punta dello scuro, scuotendo la testina lucida nera. Ha il petto bianco, e dietro il becco corto ed acuto le sue labbra sembrano una sottile striscia d'oro.
Involontariamente sorrido salutando.
— Ancora qui — mi pare che essa risponda.
Ancora, ancora, e chissà per quanto tempo. Tu non sai, piccola viaggiatrice trascorsa su tanti mari e su tante contrade, perchè la mia finestra senza inferriate sia anch'essa di una prigione. Sei tu giovane? Sei tu vecchia? A quante stagioni si misurano la tua giovinezza e la tua vita? La tua patria è davvero sotto la grondaia di questa mia antica casa? Non lo so, ma posso darti egualmente una buona notizia: Toto, il magnifico gatto rosso, che si ostinava lunghe ore sul prato alla vostra caccia, è morto. Forse tu stessa hai sentito qualche volta sull'ultima punta delle ali la percossa delle sue unghie, e ti salvasti con un guizzo rapido ed imprevedibile. Te ne ricordi? Molte tue compagne morirono invece così nei giorni umidi, quando gli insetti abbattuti dalla pioggia tornavano coi primi raggi del sole a turbinare sui fili [117] più alti dell'erba dentro un tenue velo di nebbia. Io, che non ho mai sparato uno schioppo sul mio prato, nè permisi ad altri di farlo, assistei più volte a questa caccia senza interromperla: perchè? Eppure mi dispiaceva se nelle sconce prodigiose contorsioni del suo balzo egli atterrava la rondine addentandola viva, per andare a testa alta, colla coda che batteva orgogliosamente sull'erba, a seppellirla in qualche canto, giacchè, abituato signorilmente, Toto non mangiava nè topi nè uccelli. E adesso è morto; tanto meglio! La mia casa non ha più pericoli per te: lo dirai subito alle tue compagne, che arriveranno certamente nel mattino, se le hai soltanto precedute nel viaggio.
O invece sei giunta qui più presto, sfuggendo da qualche sventura? Il tuo compagno è morto, e tornasti come noi andiamo spesso, di nascosto, a guardare la casa dove soffrimmo ed amammo? Allora vattene. Se non aspetti più alcuno, e ti posasti sullo scuro della finestra a guardarmi ancora qui solo, come gli anni passati, come sempre, perchè anche tu adesso sei sola, vattene, fuggi dal nido, che altri riempirà. Quando tutto è morto dentro di noi bisogna andare lontano, non importa dove, lungi da coloro, che potevano e non vollero impedire alla nostra anima di morire. Chi non ama non ha più nulla da fare: la sua presenza è inutile, perchè ogni opera gli è diventata impossibile. Vattene, piccola vedova: le campane del villaggio annunzieranno fra poco la resurrezione solamente ai felici che amano, e agli infelici che credono.
Pasqua.
Aprile che torna. Gesù che risorge: nel suo sepolcro vuoto le colombe faranno il nido, o spunteranno piccoli fiori sulla polvere depostavi dal vento. L'amore ha vinto un'altra volta la morte, la fede trionfa nell'amore.
— Quivit, quivit! —
Vuoi tu barattare le tue ali col mio pensiero? Tu avesti un nido, io no; tu potesti amare la mia grondaia, alla quale l'inverno sospende così lunghe lagrime di [118] ghiaccio, quando dentro la casa un altro freddo vi rende la solitudine anche più tetra, perchè trascorrevi allora libera sui paesi della giovinezza e del sole. Se il mio pensiero, che non domanda più nulla alla vita, vale le tue ali, che nessun viaggio può stancare, adesso il mio cuore non è meno vuoto del tuo nido. Indarno le campane gettano nel mattino gli appelli di Pasqua per svegliare i morti dal sogno, nel quale si acquetò finalmente la loro vita; l'alba rutila, il cielo è sereno, le campane si rispondono da ogni cima di monte, ma vi sono molti morti laggiù che non vogliono risorgere, e altri vivi sulla terra che vorrebbero morire!
Questa Pasqua di resurrezione come diventerebbe triste, se i morti risorgessero davvero per rientrare nelle proprie case!
Gesù non promise infatti la resurrezione che dopo la fine del mondo, nel quale non volle egli stesso più ridiscendere, sebbene non vi avesse davvero patiti i dolori inconsolabili. Come avrebbe egli potuto soffrirli, non essendo nè figlio, nè fratello, nè amante, nè padre? Perchè il suo cuore sotto il bacio di Giuda avrebbe tremato più di quello di Cesare sotto il pugnale di Bruto? Gesù fu venduto forse alla prostituzione come oggi ancora tanti fanciulli? Le donne, che lo seguivano, in qual modo avrebbero potuto tradirlo, se egli non amava? Il popolo, abbandonandolo nel processo, difese mai altri messia? Perchè si dice dunque ancora che Gesù sofferse per tutti, più di tutti, per riscattarci dal peccato e vincere la morte, mentre passò invece sulla superficie della vita in un sogno di paradiso? A tale vittoria sarebbe stata necessaria ben altra passione che la sua, nella quale persino l'ultimo supplizio fu senza tragica originalità. Bisogna avere avuto una di quelle madri, che ci rimangono per sempre nell'anima come un coltello in una ferita, per essere stato infelice da bambino, quando non si capisce ancora; o aver gridato nell'agonia verso l'ultima sorella, sentendo nella sua indifferenza un silenzio di cosa, per sapere [119] come l'inutilità di un lamento divenga talora la più ineffabile delle torture; bisogna aver dato la propria anima ad una donna senza poterla più riprendere, perchè diventata una sozzura, per conoscere davvero che cosa vi sia nello spasimo di una degradazione: bisogna essere un eroe e non poter nulla fare, essere un genio e non poter nulla dire, avere chiesto tutto alla vita ed incontrando la morte non aver più d'affidarle nè un rimpianto nè una speranza, per vantarsi di risorgere come un Figlio dell'Uomo in tutti i secoli dentro il sogno consolatore di una Pasqua.
— Quivit, quivit! —
Arrivano forse le tue compagne?
Adesso le campane squillano troppo violentemente perchè sia possibile a te pure d'intendere da lungi il garrito delle viaggiatrici distratte forse nell'incanto dell'alba e delle memorie. Il viaggio è così facile e il ritorno così gaio, quando si ha la primavera nel cuore e un nido per meta! Quante volte d'inverno, colla fronte ai vetri della finestra, guardando sul bianco deserto della neve il saltellare inquieto dei passeri, ho pensato all'angoscia delle tue traversate al disopra degli oceani, nell'immensità dei cieli, ai primi soffi della tempesta! Allora le tue ali, che tagliano così rapide il vento, sentirono uno spasimo improvviso, mentre coi piccoli occhi tremanti cercavi lontano qualche punta immobile sulla livida distesa delle acque, per la quale fuggivano scrosciando le giogaie dei flutti. Poi nella oscurità le nuvole si accendono di lampi e le voragini urlano di spavento. Soltanto una nave, se non sprofondi essa medesima, potrebbe fra le vele e le corde offrire un ricovero; ma dove è allora una nave? Vi riparasti tu mai, piccola pellegrina? E che intendesti allora fra le preghiere e le bestemmie dei naviganti, rapite dalla tempesta fra i brandelli delle schiume così simili a penne bianche di uccelli naufragati?
La nostra anima urla dinanzi alla morte, mentre la [120] tua forse ha sempre taciuto, non sentendovi alcun mistero.
Un ricordo mi risale nella memoria e l'attrista.
Molti anni or sono, in un'alba come questa, guardavo dall'inferriata della mia camera, l'ultima a sinistra nell'angolo, sotto il cornicione. Ero stato messo nella terza camerata lassù da venti giorni: il collegio aveva nome da san Luigi, un santo pallido e giovane, che i fanciulli non possono amare, perchè non intendono ancora la recondita delicatezza della sua castità. Nemmeno io l'amavo. Allora, come adesso, il mio eroe era san Francesco, il poeta inebriato di tutti i dolori, che parlava con tutte le cose. In quella mattina dovevo essere ammesso per la prima volta alla Pasqua. Quasi tutti i miei compagni di altare attendevano i genitori, mentre io non avevo voluto nemmeno scrivere a casa per annunziare la festa della mia comunione nella divina tragedia. Ma dopo una notte insonne ero balzato dal letto ai primi chiarori, arrampicandomi sull'inferriata a guardare da lungi il primo trionfo dell'alba. La mia finestra dava sopra un vicolo contro finestre egualmente sbarrate di ferro, con una buffa saliente a mezzo della loro apertura, perchè i prigionieri non potessero guardare in basso sulla strada. Era anche quello un collegio, ma più triste, e si chiamava di san Giovanni.
Così scalzo e scamiciato nell'aria frigida, che mi pizzicava sottilmente le carni, sentivo dal fondo dell'anima salire come un gruppo di canzoni, quando improvvisamente, un'ombra mi fermò le prime note sulle labbra. Dietro di essa l'ombra della prigione era profonda: il prigioniero si reggeva con ambe le mani congiunte sul medesimo pezzo di sbarra, e il mento appoggiato sulle mani con uno sforzo penoso. Tutta quella faccia era rasa sino al disopra della fronte, ma i suoi occhi infossati lucevano come certi vetri nella notte.
Ebbi un freddo di dolore.
Allora egli mi scorse, volle farmi un cenno colla mano, e le forze lo tradirono, sparì.
[121] Dopo tanti anni veggo ancora quel suo sorriso. Così seminudo ed arrampicato sull'inferriata in una impazienza di fanciullo, come gli ero io sembrato? Aveva egli intravisto la mia piccola anima simile ad un'altra alba, che salisse verso quella del giorno? Perchè mi aveva salutato? Rimasi ancora alla finestra, ma tutta la mia gioia era caduta in un'ombra improvvisa; sentivo di essere anch'io prigioniero, e che avrei sofferto volentieri altri dieci anni di collegio pur di vedere quel suo sorriso sul volto di un altro uomo e di un'altra donna, i quali mi fossero venuti incontro, quando sarei uscito dalla chiesa, pallido ancora della prima emozione divina. Un singhiozzo mi strinse la gola.
In quel momento mi pentii di non aver scritto a casa, cedendo alle istanze del mio confessore.
Dirò qui il suo nome, si chiamava padre Lolli. Non era molto vecchio, ma i dolori e le penitenze lo avevano invecchiato: lunghe strisce di capelli grigiastri gli sfuggivano dal berretto sulla fronte e sugli orecchi; era sudicio negli abiti, sempre colla barba di molti giorni, e camminava curvo trascinandosi dietro un grosso piede ammalato. Ma i suoi occhi e la sua voce avevano una strana dolcezza stanca. Credo che, avendomi indovinato, mi amasse, perchè la sua mano pareva indugiare più a lungo, tremando sulla mia fronte, nel farmi ripetere un'altra volta le preghiere prima dell'assoluzione. Egli solo sapeva tutte le ribellioni del mio cuore e del mio pensiero.
Però quella lunga preparazione alla Pasqua mi aveva alquanto mutato.
Un getto caldo, rutilante, di fede m'irruppe così violentemente dal cuore nell'ultima confessione della vigilia, che egli stesso lo aveva sentito, buttandomi le braccia al collo, mentre io ripeteva fra i singhiozzi:
— Padre, padre! —
Era il mio grido, tutto il mio dolore di fanciullo non amato, altero, taciturno, che si fondeva in un'altra passione, [122] come se una lieve abbagliante visione di paradiso si fosse levata sulle squallide ambe della mia infanzia.
— Adesso lo ami san Luigi? —
Risposi di sì senza capire.
La mattina egli era solo, inginocchiato in un canto, quando mi avvicinai all'altare; io tremavo, vidi luccicare i suoi occhi; poi lo rividi ancora nel gabinetto del rettore, ove ci avevano adunati per trattarci a paste e a cioccolatte. Allegri e chiassosi, i miei compagni non parlavano che delle visite imminenti; soltanto io tacevo, mangiando silenziosamente in un angolo della tavola a testa bassa; quindi tutti, colla servilità ancora graziosa nei fanciulli, si strinsero intorno al rettore per ottenere la preferenza di un confetto o di una parola, mentre egli sorrideva di quel sorriso enigmatico, nel quale mi sembrava di sentire spesso una canzonatura.
Avevo ragione? Adesso ne sono anche meno sicuro di allora. Egli era ancora giovane, così pallido e sottile, che poi morì tisico; ma a tutti noi pareva bello. Lo vedevamo nei giorni di ricevimento passare signorilmente disinvolto fra le giovani mamme, che affollavano l'immenso salone, variando sempre il sorriso nel voltarsi da un volto di collegiale ad un volto di donna.
Improvvisamente mi guardò:
— Hai fame, Oriani?
— No, — risposi secco.
Vidi il padre Lolli tremare all'accento di questa mia risposta.
Poco dopo mi si accostò ed alzando la mano per farmi una carezza, senza che nessuno se ne accorgesse, mi benedisse sulla fronte.
Allora sentii che stavo per piangere, malgrado tutti gli sforzi della mia piccola volontà, resa più rigida dal dolore. Non volevo piangere, respingevo le lagrime dagli occhi sbarrandoli dentro la grande chicchera del cioccolatte, diventato una poltiglia giallastra colla immersione di tutte quelle paste.
[123] La solitudine futura della vita mi si parò dinanzi in quel gabinetto pieno di fanciulli sorridenti e felici, dei quali nessuno mi conosceva malgrado una intimità di due anni. Se in quel momento a me, che odiavo il collegio come una prigione, il rettore avesse detto:
— Vuoi andare a casa? — avrei risposto:
— No. —
Con uno sforzo disperato riuscii a non piangere.
Poi il padre Lolli mi si rivolse:
— D'ora innanzi devi essere un altro: Dio è disceso in te. —
Invece mi sentivo più solo di prima.
Eppure avevo tentato di salire a lui sino dall'alba, quando arrampicato sulla finestra vedevo il cielo suffuso di un vapore gemmeo, attraverso il quale passavano come fili di una trama misteriosa i raggi del sole. Poi laggiù nella chiesa sotterranea avevo provato tutte le angosce e le delizie di un'altra ascensione per l'ombra sacra, sospesa sopra l'altare indarno raggiante di candelabri e di candele. Il mio pensiero non era più quello di un fanciullo; mi pareva di capire tutta la passione di Cristo, e che un'altra passione di amore mi innalzasse col volo degli angeli, ai quali le ali tremano appena come una fiamma. Forse quell'impeto e quella leggerezza erano già nello spirito i segni della comunione divina, prima ancora che le parole sacramentali ne annunziassero il prodigio.
Ma la Pasqua di oggi non è quella di Gesù: egli ne aveva fatto il banchetto supremo nella tristezza della morte, la chiesa invece la volle nel trionfo della resurrezione, che aveva illuminato il mondo come un'alba incominciata nel sepolcro e dileguata negli ultimi cieli. La Pasqua di Gesù somigliava fin troppo a quella di Socrate: la Pasqua cattolica tenta ancora di riunire tutte le anime al di sopra della morte in una esultanza ideale.
Ecco perchè simile festa durerà forse più della sua stessa religione, benchè Cristo non vi risorga più; ma [124] tutte le coscienze vi si innalzano ancora come in un sogno: tanto peggio per coloro che non possono più sognare!
Perchè l'amore e il pensiero non proseguirebbero altrove dopo aver fatto l'infelicità della nostra vita? Entrambi passano in noi e non sono noi: lasciate dunque suonare a distesa le campane annunzianti la resurrezione, mentre il clamore del loro inno copre gli ultimi belati degli agnelli sgozzati in tutte le cucine per l'imminente banchetto. Noi siamo così: dobbiamo ammazzare un agnello per cominciare la festa di Pasqua e generare un bambino per compiere quella dell'amore.
Forse, ad interrogarli bene l'uno e l'altro, nè l'agnello vorrebbe morire, nè il bambino vorrebbe nascere; ma che importano le loro risposte, se in ogni festa vi deve essere una vittima?
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