IL DUCA DI REICHSTADT

Nemmeno Victor Hugo seppe cantarlo, giacchè, ravvolgendolo con lirica furia dentro le immense pieghe del dramma napoleonico, ve lo perdette come il vento finisce col perdere attraverso la foresta i fiori che vi aveva strappato. In quell'ode più concitata che la più incalzante fra le Olimpie di Pindaro, Napoleone solo appariva, mentre il duca di Reichstadt non era più che l'ombra pallida del suo ultimo sogno, costretta a seguirlo nella fantasia del mondo lungamente stupefatta dalla ruina imperiale.

Ma Napoleone aveva creduto veramente all'impero di quel fanciullo? Sentì mai per lui la tenerezza di Ettore per Astianatte in quel meraviglioso libro sesto dell'Iliade, quando nel lucido improvviso presentimento della morte al Priamite pareva già di vedere Andromaca ritta presso una fonte greca a riempirvi un vaso con disperata umiltà di schiava? Allora traendosi il grande elmo dalla fronte per non spaventare il bambino, egli si chinava a baciarlo per l'ultima volta; la madre piangeva, ma l'eroe, sollevando sulla forte palma il figliuolo, lo sacrava con nuova speranza a Giove datore di vittoria, quindi chiuso nell'arma scendeva procelloso verso il campo dei greci. L'ignoto rapsodo di quel canto omerico fu certamente uno dei più profondi e drammatici poeti di tutte le letterature, degno di uguagliarsi a Tolstoi, [100] che nel campo di Borodino ci dipinge Napoleone studiante una posa di padre davanti al ritratto del piccolo re di Roma mandatogli dalla lontana Parigi. Meglio di Victor Hugo Tolstoi comprese l'uomo in Napoleone, non d'altri mai preoccupato che di se stesso, dentro un sogno di gloria, pel quale dileguava egualmente ogni realtà della vita e della storia, come nel luminoso sonnambulismo del filosofo le ombre delle cose si accendono in fantasmi ideali.

Certo egli non fu mai nè amante nè sposo nè padre. Le tarde rivelazioni degli ultimi fra i suoi biografi non bastano a mutargli l'impassibile maschera di egoista, nato solamente a comandare e a distruggere. Dopo i lugubri eroi della rivoluzione Napoleone doveva vivere più lungamente di loro nella loro stessa insensibilità della morte, tracciando l'orbita dei nuovi regni come le trincee dei suoi accampamenti, senza altro motivo che di guerra, in un molteplice assurdo disegno d'impero. La sua non è la città mobile di Attila rotolante sul vecchio mondo romano, ma l'orda medesima della rivoluzione, stretta intorno all'ultimo fantasma imperiale contro tutti i re. Per venti anni gli eserciti si rinnovano senza tregua intorno a quel fantasma in una guerra senza nome, fra battaglie che lo perdono nella memoria sopraffatta della moltitudine; ma se per rinnovare la Francia monarchica la rivoluzione aveva massacrato quasi un milione di uomini, per mutare l'Europa dovranno morirne altri tre, e sparire le generazioni rivoluzionarie ed imperiali prima che appariscano i segni della nuova storia.

Napoleone è la rivoluzione chiusa nell'impero, l'impero chiuso nell'accampamento, che cangia confini col cangiare di vittoria: l'opera di Cesare e di Carlo Magno diventa sogno in lui, perchè solo dentro di esso qualcuno avrebbe potuto disciplinare la rivoluzione portandola da Roma a Berlino, da Lisbona a Mosca. Quindi una prodigiosa coreografia abbacina tutti gli sguardi, vincitori e vinti ignorano egualmente il proprio motivo e credono [101] anch'essi di aver sognato, mentre l'imperatore si desta a Sant'Elena, e il popolo, sentendo di essere nato ad una nuova epoca, si leva ad interrogarne il pensiero fra le rovine.

Invece Victor Hugo non vide mai Napoleone che dentro un pensiero biblico, come un altro Figliuolo dell'Uomo mandato a rinnovare il mondo colla spada, quantunque pochi uomini vi abbiano compito con maggiore inconsapevolezza l'opera propria, nella quale le più belle qualità umane non potevano entrare. Nulla infatti ne rimase, perchè tutto vi era personale. Capitano di un esercito di guastatori, le sue distruzioni sono irresistibili e tutte le sue ricostruzioni effimere; ha una sicurezza di sonnambulo in una visione di allucinato; improvvisa come i retori, e al pari di questi è intrattabile nell'orgoglio e pronto all'oblio delle proprie improvvisazioni; si sente più alto di tutte le grandezze abbattute, ma, solitario fra le scene lacerate dell'immenso teatro, finirà col drappeggiarsi come un attore nei loro brandelli, e morirà rammaricando il vano titolo imperiale.

Egli non ebbe eroica nè la mente, nè il cuore: non credette, non amò, non volle che se stesso. Però nessuna fantasia di poeta si creerà mai un sogno più grande del suo, nessun'altra volontà umana saprà imporlo così: quindi l'uomo parve indarno mostruoso in lui, e il genio falso perchè solamente negativo. Oggi ancora che la storia, disegnando l'orbita del suo ciclone, dissipò intorno alla sua fronte tutti i vapori, la vita moderna, da lui fecondata quasi in uno stupro, sembra ricordarlo con gratitudine lasciva ogni qualvolta nel sangue fatto più acre le tornano desiderii di nuove violenze.

E lascive furono le due mogli di Napoleone, la creola rimasta un'avventuriera anche sul trono, l'austriaca sempre null'altro che arciduchessa anche nell'impero; entrambe ugualmente incapaci di sentire i profondi turbamenti dell'anima femminile, quando lo spirito sta per passare sopra di essa. Mancava a Napoleone la segreta [102] irresistibile grandezza dell'uomo, o piuttosto a Giuseppina e a Maria Luisa la sensibilità dell'ideale? Certo egli non s'ingannò giudicandole dalla solitudine di Sant'Elena, ma nemmeno in quella lunga agonia il suo cuore pianse mai sul fanciullo già orfano e al quale la gloria di una immensa ruina preparava un più lungo e muto martirio nei castelli della corte di Vienna.

Il figlio dell'aquila non aveva più nido.

Invece lo allevavano col becchime dei pulcini, tagliandogli prudentemente il rostro e le ali, perchè in un volo improvviso non avessero a rompere le vetrate sempre chiuse delle finestre: ma era così piccino e così debole che si reggeva appena dritto.

Nullameno si ritraeva con lungo ribrezzo da ogni mano, che si allungasse per accarezzarlo. Ricordava egli le tempeste ruggenti intorno al suo nido? Il suo orecchio si tendeva qualche volta istintivamente ad ascoltare lo strido dell'aquila rovesciata dagli uragani sopra uno scoglio dell'oceano, e alla quale i corvi allargavano ancora col becco le ferite? Che cosa tremava nei suoi occhi limpidi come il cielo delle vette più alte?

Chi può capire un bambino?

Forse egli soffriva già di essere solo fra tutti quei cortigiani, che lo sorvegliavano come un prigioniero, del quale mezza Europa avrebbe dovuto essere il riscatto. Qualche ricordo gli ondeggiava nella memoria di un'altra grande città tumultuante, di qualcuno che veniva a guardarlo nella cuna ravvolta entro una nube di merletti; ed era un uomo dal volto pensoso di statua, cogli occhi che lucevano nella penombra della camera come una fiamma. Ma di lui si ricordava solamente che il sorriso era diverso da quello delle donne, così dolce per ogni bambino. Egli però non era un bambino come gli altri.

Venti guerre, duecento battaglie, una tragedia nella quale popoli numerosi e gagliardi salivano ancora cantando eroicamente, un impero vasto come un desiderio, una gloria sfolgorante come un sole, e al disotto, d'intorno, [103] più lontano, dovunque un brivido continuo di tempesta, una trepidazione di terremoto, una muta incertezza di catastrofe, avevano fatto tremare la sua culla nella mano della nutrice, mentre lo addormentava nel ritmo sommesso della ninna-nanna.

Così piccolo occupava già troppo posto nel mondo.

Tutte le corone, destinate alla sua testina quasi calva, non avrebbero potuto capire nella sua culla; il suo cuore, non sapendo ancora di battere, regolava la vita a centinaia di milioni di popoli nemici l'un l'altro e costretti a tacere intorno a lui, nato da un pensiero di conquista e da una voluttà senza amore. Suo padre non era un uomo ma l'imperatore, sua madre era una imperatrice, che se ne scorderebbe presto per diventare una duchessa in un ducato allora piccolo come una perla sul suo manto imperiale. Egli nominato, prima ancora che sapesse parlare, re di Roma, una città così grande che nemmeno il genio dell'imperatore avrebbe potuto riempire, doveva come i fratelli e le sorelle del padre diventare subito un istrumento del suo pensiero, che deformava colla stessa violenza presente ed avvenire in una continua vittoria, dentro un turbine di morte e di follia.

Quindi intorno al bambino si era fatto un freddo e un silenzio. Egli non era bello: i suoi capelli biondi, i suoi occhi azzurri, il suo viso gracile non ricordavano ad alcuno l'uomo pallido dal profilo di aquila, che con un gesto sollevava all'ultimo assalto tutto un esercito, come l'uragano gonfia ed avventa l'oceano alle scogliere. E neppure somigliava alla mamma, nata sopra un trono come certi fiori spuntano a caso in un vaso anzichè in un prato: infatti ella pareva tranquilla, colla fronte leggiera sotto l'enorme diadema, e il sorriso indifferente fra i brividi e i rombi, che passavano nell'aria. Chi era quel bambino? Che sarebbe di lui un giorno? Per quel mezzo milione di uomini, stretti intorno a Napoleone sulla via di Mosca, nessun dubbio era possibile: egli era l'imperatore piccino, il loro primogenito, al quale conquisterebbero [104] il resto del mondo, solamente perchè sorrideva loro mentre gli sfilavano davanti, vedendo confusamente il suo volto come un gran fiore bianco.

Ma nessuno di coloro rimasti nel palazzo imperiale credeva veramente che egli fosse il figlio di Napoleone, e potesse mai divenire re di Roma.

La stella del conquistatore, così radiosa per tanti anni, era improvvisamente impallidita, mentre il segreto del suo matrimonio dalle anticamere della corte scivolava insudiciandosi per le vie. La folla devota ricusava di crederlo; ma quell'impassibile, che livellava col medesimo dispregio popoli e re, era già diventato piccolo e vile davanti all'arciduchessa nata sopra un trono antico. Ella ne rideva e lo spregiava trattandolo come un avventuriero brutale, cui bisognava persino insegnare il valtzer per non dovere arrossire di lui nella solennità delle feste: egli si piegava umiliato ed iracondo, senza amare la donna ma superbo che l'imperatrice fosse nipote di Maria Antonietta, l'ultima regina di Francia. Poi si era saputo che Maria Luisa amava un bel gentiluomo tedesco prima ancora di essere offerta pegno di pace al vincitore, il quale per diventare padre voleva imparentarsi coi vecchi monarchi. Il matrimonio trattato da diplomatici si era compíto fra lagrime di sacrificio: quindi il bel gentiluomo aveva seguito l'arciduchessa in Francia, rimanendo qualche tempo nella casa del marito.

Indarno una pompa fantastica di feste aveva abbacinato la moltitudine, che da quel matrimonio vedeva già cominciare una nuova dinastia al disopra di quante regnavano in Europa, giacchè la sùbita inaspettata degradazione del grand'uomo davanti alla arciduchessa raddoppiava i dubbi provocati dalla improvvisazione della sua opera. Egli riappariva l'avventuriero dei primi giorni, diventato successivamente generale, console, imperatore attraverso una fantasmagoria di scene troppo labili per imprimersi nella coscienza del mondo. La vanità aveva nel suo cuore troppo spesso vinto l'orgoglio, [105] e nella sua mente l'impero non era mai stato che una decorazione dell'imperatore.

Ma un vento di catastrofe ne faceva già oscillare l'immenso scenario.

Intorno al re di Roma crescevano il freddo e il silenzio.

Tutti sapevano che Maria Luisa aspettava la rovina dell'impero per tornare a Vienna, fuggendo dalla Francia, che aveva decapitata Maria Antonietta. Come nei primi giorni le pareva ancora di essere prigioniera del vincitore in una reggia rubata agli antichi re e incancellabilmente rossa del sangue sparso per la sua parente: ella non comprendeva nè la Francia, nè l'impero, nè l'imperatore. Il suo cuore di donna non batteva che per il bel gentiluomo tedesco, la sua anima di madre rimaneva chiusa davanti a quel bambino francese, uscito dal suo ventre e fatto subito re di Roma. Sapeva ella davvero che fosse figlio di Napoleone? Le donne non distinguono sempre il padre dei propri figli, ma quasi sempre non amano che quello in questi. Ella invece non amava. Quel bambino non era il figlio del suo cuore, rampollato dalle profondità della sua vita di donna e di regina: il suo titolo di re di Roma era per lei cattolica una bestemmia, quell'impero dilatato da un ultimo sforzo per abbracciare tutta l'Europa non le appariva che nella terribilità di un castigo imposto da Dio ai popoli ed ai re dopo il peccato della rivoluzione, e che cesserebbe, lasciando il mondo ricomporsi come prima. La sua alterigia di arciduchessa trionfatrice di Napoleone le toglieva di sentire in lui l'epica grandezza di un conquistatore non anco fermato da un popolo o da una idea. Ingenuamente ella credeva di averlo nobilitato, sposandolo per ubbidienza di figlia e devozione di austriaca: quindi in quella corte composta di sergenti vestiti da marescialli, di serve mascherate da duchesse, sanculotti trasformati in ciambellani, le sue ripugnanze si acuivano sino all'asprezza dell'odio.

[106] Poi la catastrofe finì di confonderla: si trovò nel piccolo ducato di Parma come in una grande villeggiatura, seppe Napoleone a Sant'Elena e dimenticò il re di Roma, mutato in duca di Reichstadt a Vienna.

Il fanciullo adesso doveva parlare tedesco.

Nessuno gli diceva nulla nè del padre, nè della mamma, nè di lui stesso. Per quanto vinto e prigioniero sopra uno scoglio dell'Atlantico, Napoleone spaventava ancora tutte le corti; la sua fantastica riapparizione dei cento giorni era bastata a rivelare l'inanità di tutte le restaurazioni, e i suoi soldati raggruppati sotto altre bandiere lo sognavano ancora fremendo d'impazienza. Quel fanciullo pallido, tremante dinanzi a tutti i servitori, diventava nei racconti delle veglie notturne fra contadini, nei ricordi delle caserme, negli inni dei nuovi poeti, nella muta tenerezza dei vecchi, il figlio del Titano, l'erede dell'impero non anco cancellato nella geografia delle scuole. Un vuoto era rimasto nella coscienza del mondo. Nessuno credeva più che Napoleone potesse fuggire da Sant'Elena, ma nessuno si fidava nemmeno alla stabilità delle nuove monarchie davanti alla rivoluzione, che stava per ricominciare.

Un'altra epoca si apriva: un'altra volta le aquile striderebbero chiamando le vecchie legioni, e la bandiera tricolore sventolerebbe su nuovi campi. Napoleone lontano era presente dappertutto. Ma il duca di Reichstadt non lo sapeva.

Egli solo rimaneva fuori del mondo, che suo padre aveva riempito di se stesso senza poterne serbare neppure la poca terra necessaria alla propria fossa. Come quegli orfani, ai quali l'ospizio può dare una camera ma non mutarsi in casa, si sentiva abbandonato fra la gente, che lo vigilava con rispetto taciturno: nessuno gli diceva mai una di quelle parole così necessarie ai piccoli cuori; e quindi egli non seppe che molto dopo come il padre morisse e la madre sposasse il conte di Neipperg. Al fanciullo non era permesso di mescolarsi [107] cogli altri principi per la paura che dal loro chiacchierio un lampo della gloria paterna si accendesse attraversandogli l'anima: fors'anco si temevano le sue interrogazioni, quella curiosità così terribile nei fanciulli, quando non si può rispondere una bugia e il silenzio diventa una risposta. Che dirgli infatti se avesse chiesto chi fosse suo padre? Napoleone a Sant'Elena non era più un uomo, appunto perchè tutto il mondo creato dal suo pensiero finiva in lui: la sua conquista si trasformava in una epopea e quello scoglio in un piedestallo, dal quale come l'antico Prometeo dominava sul mondo. Era difficile spiegare al figlio chi era quel padre, e perchè la moglie lo avesse abbandonato, dimenticando il bambino. Tutte le ipocrisie e le contraddizioni della vita, così agili ad insinuarsi per ogni varco, si arrestano interdette davanti alla innocenza di un fanciullo, che le giudica coll'infallibilità dell'istinto.

Forse avrebbero potuto dirgli che suo padre era un soldato prigioniero in un'isola per la colpa di aver vinto tutti i re di Europa; ma il nonno imperatore avrebbe indarno chiesto al proprio ministro, così fine diplomatico, una formula per giustificare l'assenza della madre da Sant'Elena e da Vienna.

Invece il fanciullo l'apprese a poco a poco dalle reticenze ancora più che dai discorsi di tutti.

Più tardi la vedova di un veterano di Wagram gli narrò nella propria capanna, poco lungi dal villaggio di Suwembrünn, la presa di Vienna, e il matrimonio di Maria Luisa col vincitore, dinanzi al quale anche i vinti s'inginocchiavano applaudendo; poi lettere, giornali, libri gli giungevano nascostamente, rivelando l'immensa storia, che si dilatava dietro la sua infanzia come un panorama luminoso scosso ancora da vibrazioni oceaniche. Ma allora i suoi occhi s'incantarono e la sua anima si chiuse. Egli era troppo piccolo e troppo solo per resistere alla fatica di quella visione, la più grande apertasi in tutti i secoli agli occhi di un fanciullo. Nato [108] di un'aquila e di un'anitra, non aveva nel rostro e nell'ali nè la passione del volo nè quella della rapina; ma timido e quieto frugava fra le aiuole del giardino alzando spaurito la testa ad ogni brontolìo lontano di tuono.

Al pari di sua madre, egli non sentiva e non capiva l'imperatore.

Invano una nuova ammirazione gli si addensava intorno, dacchè la morte di Napoleone aveva tragicamente raddoppiata la sua eredità: più invano ancora le recenti monarchie apparivano ogni giorno più tremule ai crolli delle impazienze rivoluzionarie, mentre da tutti gli angoli d'Europa, dalla vita e dalla storia, salivano i soffi di un'altra immensa passione. In quel primo tepore della giovinezza egli non soffriva che per l'isolamento e la vacuità della propria esistenza misteriosa ed inutile, senza nè famiglia, nè danaro, nè libertà. La gloria di un mondo dileguato gli toglieva ogni posto fra quei parenti costretti a trattarlo come un estraneo per non temerlo come un nemico. Ma se la mortificazione di qualche ingenua simpatia o la paura di un rimprovero lo ritraevano in se stesso, quel grande sogno napoleonico lo risollevava improvvisamente fra le proprie spire di turbine, come il vento straccia talvolta nell'aria i veli delle spume marine, per lasciarlo ricadere più tristamente dentro il confronto di quella vita di cadetto alla corte e nell'esercito. Per lui non vi erano funzioni, non diritti, non doveri. La sua educazione, ordinata con crudele sapienza a ridurlo mezzo uomo e mezzo principe, gli nascondeva quanto sanno anche i giovinetti più poveri, ai quali il mondo si rivela colle sue stesse difficoltà.

Dentro le sue vene impallidite nell'ombra troppo lunga fervevano soltanto alcune acredini del sangue materno, quelle bramosìe del senso e del sesso, che le vampe dell'anima non alzano ancora e non purificano: la sua fronte era stretta, i suoi occhi opachi, il suo volto insignificante. Se quei soldati, che sognavano ancora di lui prigioniero, [109] avessero potuto vederlo così scialbo dentro quella tunica di ufficialetto austriaco abbassare gli sguardi ad ogni parola con una trepidazione di paggio mal sicuro del proprio ufficio, tutte le cicatrici dei loro cuori si sarebbero riaperte, e i loro occhi non avrebbero potuto più piangere. Non così, non così vedevano essi da tanti anni il figlio dell'imperatore; non così lo aveva veduto l'ultimo granatiere della leggenda, che, coricandosi in un fosso per morire, diceva al compagno: — Torna in Francia, io non posso più camminare adesso che l'imperatore è prigioniero. Se mia moglie ha fame, le dirai che vada a mendicare coi bambini; ma appena sarò morto, mettimi bene il fucile fra le mani, perchè possa subito alzarmi e presentare l'arma, quando l'imperatore ripasserà! — Ma era il figlio, che avrebbe dovuto ritornare; al figlio certamente pensava quel granatiere nel delirio delle ultime parole!

L'imperatore, morto da pochi anni a Sant'Elena, aveva invece ottenuto da Dio la misericordia di non vedere lo spettacolo di quel giovinetto, che le dame guardavano con un sorriso di sprezzo enigmatico. Esse sapevano che si struggeva per loro di una fiamma segreta come una candela dimenticata in qualche angolo; quindi i loro occhi si accendevano di piccole fiamme dinanzi al figlio di quel Napoleone vinto da Maria Luisa e così presto rinato ad un'altra degradazione. Più infelice del Narciso greco, morto di amore al proprio volto riflesso nell'acqua di un ruscello, egli non osava ascendere verso la bellezza, ma si nascondeva colla sua immagine a singhiozzarle davanti nelle convulsioni e nei crolli di uno spasimo voluttuoso.

Forse la stessa anima adamantina di Napoleone si sarebbe spezzata dinanzi alla viltà di questa miseria.

Non altro erede, non altro dimani aveva Dio preparato alla sua vita! Che cosa significavano dunque tutte le sue battaglie, quella corsa vertiginosa dai deserti della neve ai deserti delle sabbie, gli eserciti sconfitti, le capitali [110] violate, le corone infrante, l'aver dominato l'Europa, l'esser apparso sui confini dell'Asia come un fantasma trionfale balzato dalla immaginazione di un poeta nel campo della storia, se di lui non restava che quell'ufficialetto austriaco dalle mani tremule, che non avrebbero mai saputo sollevare nè una spada, nè una gonna?

Per chi aveva egli vinto?

Cesare potè ravvolgersi alteramente il capo nella toga per morire, perchè Roma sarebbe stata nei secoli magnifico guanciale alla sua testa d'imperatore, e la sua vita e la sua opera avrebbero attinto dalla morte la suprema verità. Così il nome oggi ancora è cornice, dentro la quale ogni imperatore si riaffaccia sulle moltitudini, mentre Napoleone ci appare appena sul confine dell'altro secolo come uno straniero misterioso, che attraversa a grandi passi l'Europa per sparire nell'oscurità dell'oceano, silenziosamente.

Sua moglie a Parma non era invece che la moglie grassa di un colonnello, la quale lasciava il governo della fattoria al parroco per preoccuparsi più comodamente di ogni festa in chiesa o in teatro; suo figlio a Vienna amava finalmente una ballerina, che lo rivoltolava scherzosamente sui divani battendogli colle nacchere sulla testa bionda. Egli sorrideva, contento di essere preso, senza intendere nemmeno la poesia di tale capriccio donnesco. Forse quell'anima di farfalla, stanca di danzare sui fuochi della ribalta fra nimbi di fiori e di sorrisi, si era improvvisamente lasciata vincere da quella delicata magrezza di arbusto in fiore. Nei primi giorni di aprile le farfalle si posano lungamente sui rami odoranti di gemme, e allora il sole al meriggio ha appena un tepore di alba estiva, il vento è un sospiro, il profumo una carezza. La danzatrice era piccola, colle gonne tenui come ali di falena, col gesto lieve come un tremito di ombra, col sorriso lucido come un raggio. Se l'avessero proclamata regina, mentre tutti gli occhi della folla brillavano e la musica, stringendo il ritmo, sembrava finire in un singhiozzo, [111] ella non vi aveva sbattuto che più lievemente i propri veli, ondeggiando inafferrabile sul tumulto delle note e degli applausi.

Qualcuno disse poi che un ministro scarno e freddo si era servito di lei per abbreviare l'agonia del duca di Reichstadt, mentre nuove rivoluzioni minacciavano le monarchie di Francia e d'Italia; ma forse non fu vero. La piccola regina, che aveva per trono un palcoscenico, amò di un amore di farfalla quel re di Roma, al quale non restavano che le spalline di ufficiale austriaco. Ella rideva, egli s'inebriava di quel sorriso.

Ma l'ufficialetto soffriva; quindi pianse quando la seppe lontana. Nella nuova solitudine gli parve di essere più abbandonato di prima, più povero degli altri parassiti, che in quella corte ricevevano come lui l'elemosina di un piatto principesco. Si ricordava delle occhiate tristi dei vecchi soldati, e talvolta le parole scherzose di lei su quel titolo di re di Roma datogli da Napoleone. Allora la paura lo faceva piangere come se quel padre morto lo guardasse da Sant'Elena con le braccia conserte, e l'occhio fisso in un pensiero insopportabile. Egli avrebbe voluto, ma che cosa doveva volere? Quali erano i suoi consiglieri? Chi gli darebbe un esercito? Ove dirigere la prima marcia? Su tutte le grandi strade d'Europa rimanevano le orme di Napoleone, tutte le capitali erano state per qualche giorno la nuova capitale del suo impero.

Una volta, visitando il campo di Wagram col principe Carlo, cadde quasi di sella al suo gesto, che gl'indicava il terreno, sul quale il maresciallo Lannes era stato abbattuto da una palla di cannone: ma il principe non seppe mai se fosse dolore o paura; il duca tornò a casa colla febbre.

Da quel giorno non chiese più di tornare su altri campi. Come tutti i tisici ebbe ancora degli impeti, dopo i quali ricadeva in profonde melanconie; la febbre gli gettava dei lampi nel pensiero e delle vampe nel cuore; poi si [112] fece più muto, perchè la vita sembra appunto rinchiudersi nelle anime, dalle quali sta per fuggire. La sua giovinezza passò per tutti i capricci effimeri, le ansie improvvise, le caparbietà deboli e violente della paura dinanzi alla morte, che sale misteriosamente come un freddo di sotterraneo.

Allora una arciduchessa, maggiore di lui almeno di un lustro, cupida e lubrica, lo amò. In lei rivivevano l'anima superba di Maria Antonietta e quella crudele di Maria Carolina: non era bella, ma il suo sorriso aveva talvolta dei rossori di fiamma e la sua parola dei soffi di follia. Più tardi fu madre d'imperatore, imperatrice e finalmente amante di un bano croato.

Ella gualcì il fiore, che la farfalla aveva appena accarezzato. Un'altra rivoluzione minacciava la Francia; altri Borboni dovevano andare per sempre raminghi: nuovi congiurati, veterani della vecchia armata, vennero segretamente al duca di Reichstadt nel nome di Napoleone, ma il poema era già chiuso.

Nessun poeta vi aggiungerebbe più un verso, poichè il re di Roma non poteva entrarvi nemmeno per morire: egli non era più che un bianco fantasma fra le mani tormentose di una donna.

Dicono che negli ultimi giorni la sua anima si rischiarò. Come se la morte gli rivelasse finalmente il segreto della vita, rivide dentro una luce purpurea di tramonto l'epopea napoleonica, parlò degli eserciti che avevano sfilato dinanzi a lui bambino. Da quel letto, già abbandonato come una tomba, chiamò la mamma, e chiese la culla d'argento, nella quale era stato re: dentro quella cuna, offerta dalla città di Parigi, Napoleone l'aveva cento volte covato col suo sguardo d'imperatore. Potè avere l'una e l'altra e vide la madre piangere decentemente. Qualcuno gli suggerì di lasciare un ricordo al reggimento assegnatogli, forse per scherno, perchè portava il nome di un altro eroe, Gustavo Wasa; sotto il più bello dei propri ritratti scrisse per l'arciduchessa [113] Sofia «Memoria eterna di un moribondo», chiamò il prete, parlò di Napoleone.

Quel nome l'avvolgeva.

I suoi occhi lucevano, la sua bocca pallida e chiusa somigliò allora a quella del padre.

Adesso egli non è più che l'ombra del suo ultimo sogno, una misteriosa figura incisa da Dio sul fermaglio dell'ultimo poema concesso all'Europa.

Sulla tomba di Napoleone non vi è che una lettera sola, nera, muta: si legge, non si pronunzia. La tomba del duca di Reichstadt non ricordo ove sia, nè che cosa vi abbiano scritto; ma nessun poeta nell'orgoglio del proprio genio avrebbe potuto accettare l'onore di dettarne l'inscrizione.

Solamente Maria Luisa, se fosse stata davvero la moglie dell'uno e la madre dell'altro, l'avrebbe trovata nel proprio cuore.

Era vuoto.

[115]

Share on Twitter Share on Facebook