Contrabbasso

Il teatro Brunetti era già pieno. Una folla incredibile lo stipava da cima a fondo. Nella platea, un ciottolato di teste slavate da un immenso riverbero, i colori vampeggiavano qua e là sui cappellini delle signore; mentre un ondeggiamento sollevava ancora qualche fila, appena un nuovo arrivato volesse allinearvisi, o una qualunque curiosità serpeggiasse. Non si discerneva più nulla, nè differenza di persone, nè diversità di posti. Solamente la riga delle poltrone guernite in felpa rossa, serrate dagli altri scanni, che l'altezza delle loro spalliere diventava quasi invisibile nell'accavallamento di tutte quelle teste, aveva ancora qualche punto sanguigno. E dalla porta, sotto l'ombra della prima galleria, che i becchi di tutto il teatro non giungevano a diradare; fra le due gradinate, gremite quanto la platea e perdute egualmente in una penombra di cantina, nuovi flotti venivano a schiacciarsi contro le ultime panche con un vocìo soffocato di violenza. Ai lati dell'orchestra, più numerosa del solito e piena di un'animazione febbrile, salivano altre due file di persone, che gl'inservienti in livrea gialliccia non riuscivano a trattenere, e le quali ostinandosi contro ogni evidenza a trovar posto, si serravano sotto le colonne fra le gradinate e le panche. Un moto sordo di pigiamento dava un tremolìo quasi minaccioso alla base del teatro, che le esili colonne di ghisa inargentata parevano sostenere con uno sforzo supremo. Ad ogni istante, fra la gente già seduta, qualcuno si alzava in piedi per respirare a pochi centimetri più in alto, e si girava intorno uno sguardo meravigliato. Il caldo era soffocante, l'aria torbida. Nullameno la folla cresceva, le teste si moltiplicavano assiduamente a tutti gli ordini; la ressa alle porte dell'orchestra, per le quali si arrivava ai posti distinti diventati platea, e dalle quali i tardivi guardavano sollevandosi sulle spalle di chi stava loro innanzi, si raddoppiava. Le corsie brulicavano. E in alto, nel cielo del teatro, le scalee del loggione parevano in un'ondulazione di bosco, mentre, forse nella vanteria di una sfida alle vertigini, molti corpi si protendevano dal davanzale, e molte mani balenavano in un gesto inesprimibile; e tutta quella siepe umana restava bruna, campata in aria sopra un pericolo, che poteva essere una minaccia per chi la riguardava dal fondo agitarsi tempestosamente. Poi il susurro della platea, che lassù scoppiava in clamori; le grida, nelle quali andavano rotte le parole, e che le volte comprimevano ingrossandole, davano un fracasso di tumulto a quel frastuono di agitazione, una violenza di rivolta alla impazienza di tutto il pubblico, nel quale l'attesa aumentava col numero, e il sangue s'infiammava col calore di tutti gli aliti e l'attrito di tutti i corpi. La prima e la seconda galleria, trasformate in tanti palchetti, erano zeppe di spettatori e di spettatrici. Le signore più ricche di Bologna vi si mostravano in vistose toelette, a colori chiari, coi volti animati dal calore dell'ambiente e dalla eccitazione della serata. Le conversazioni erano vive, i binoccoli puntati da tutte le gallerie e da tutti i palchi, dal loggione e dalla platea. I forestieri, accorsi numerosamente dalla vicina Romagna e dalle altre provincie, si notavano alla curiosità più insistente delle domande, agli accenni, ai gesti, coi quali s'indicavano le signore, e si movevano sui sedili per attirare gli sguardi come nei loro piccoli teatri cittadini; ed alzavano la voce. Attraverso le file degli stalli, fra i palchi, di galleria in galleria, si scambiavano saluti e convegni per la fine dello spettacolo: molti cercavano lungamente fra la folla per sorprendervi qualcuno, che avrebbe dovuto convenirvi; gli studenti del loggione, colla volgarità chiassosa della loro natura, gettavano a quando una parola sconveniente. A fianco della bocca d'opera le barcaccie rigonfie di uomini avevano acceso tutto il lusso delle loro candele a gas. Gli eleganti si alternavano all'onore del parapetto guardando nella moltitudine colla indifferenza sicura dei privilegiati. Ma tutti alzavano involontariamente la testa, ed osservavano in alto. Ogni galleria aveva tante file di sedie quante ne poteva contenere, e non pertanto un'altra fila di uomini, in piedi, si schiacciava contro il muro, nelle tenebre, con una regolarità militare. Qua e là, disseminate fra gente sconosciuta, si vedevano molte signore distinte, alle quali la poca sollecitudine o la troppa avarizia avevano impedito di ottenere un palchetto: alcune affogavano nella marea della sala, non difese nemmeno dalla rispettabilità di una poltrona. Ma il prezzo dei palchetti era salito ad una somma provincialmente assurda: due erano vuoti, e solleticavano tutte le curiosità. Si sospettava più di una grande famiglia, si susurravano molti nomi. Gli uomini alla moda avevano il loro contegno più disinvolto, quella finta negligenza di chi, avendo vissuto qualche mese a Parigi, non si meraviglia più di nulla; mentre le signore dei palchetti, abbassando tratto tratto uno sguardo inorridito sulla platea, cercavano d'incontrarsi negli occhi delle amiche, che già vi soffocavano, e che quella sera non guardavano a nessuno.

Ma l'orchestra non si apprestava ancora. Secondo il gergo teatrale, quella sera avevano fatto porta da tre ore, e da tre ore il loggione era pieno. La platea aveva cominciato a riempirsi poco dopo, e molti installativisi al buio aspettavano, chi sa da quanto, in piedi, addossati ad una colonna o ad una panca che tutto fosse rigonfio, e finalmente il direttore salisse sulla scranna. Ma l'orologio avanzava con lentezza disperante. Intanto il teatro stipato era già uno spettacolo per se stesso. Le piccole lumiere, a tre becchi, sospese in giro agli ordini, avventavano una vampa al viso delle signore appoggiate sui davanzali, ed illuminavano ogni macchia della decorazione. Il parapetto della prima galleria, enfiata come un ventre, sembrava vicino a crepare sotto il peso enorme che la dilatava; e la sua tinta gialliccia, diluita e scrostata, accresceva il terrore di tale impressione. Il teatro con tutta quella luce e quella gente pareva più vecchio: i cuscinetti dei davanzali orlati di passamanteria, che avrebbe dovuto essere bianca, erano di una sordidezza senza nome; la tappezzeria dei palchi, divisi da un tramezzo poco più alto dei sedili, e che consisteva in una povera carta a quadretti nerognoli e rosei, aveva una povertà più vergognosa fra quegli abiti di seta, le trine e i merletti, il scintillamento dei colori, i ventagli piumati, i guanti grigio-perla, il balenìo dei binoccoli perlati, i razzi delle gemme, lo schiumare dei fazzolettini di battista, tutto quel lusso del teatro comunale, che ne richiamava la magnifica decorazione a rilievi e a dorature, a frangie e a velluti. Una volgarità di ressa usciva da ogni palco; le signore in gran toletta, gli uomini senza l'abito nero e il piastrone bianco, tutti i posti occupati, così che le pose eleganti diventavano impossibili, e le figure aristocratiche scapitavano. Alcune grandi dame, forse non mai comparse al Brunetti, avevano un'aria impacciata, una specie di malessere, che era forse un malcontento: qualche vecchia invece, dalla fisonomia signorile e mummificata, tornata fanciulla nell'ingenuità dell'oblio, osservava con beata compiacenza; mentre forse nella memoria le si ridestavano i ricordi della Malibran, quegli entusiasmi, che oggi paiono impossibili, e che allora erano così veri fra quei vecchi senza passato, e quei giovani senza presente. Infatti gl'iniziati del piccolo gran mondo bolognese si accennavano sorridendo la presenza di molte fra le antiche glorie mondane, dimenticate da venti anni nel fondo dei loro palazzi; e che riapparivano forse un'ultima volta con un ultimo rimasuglio di mode trapassate, un cravattone o una bavarina, e mettevano nella confusione di un palchetto il rilievo delle loro fisonomie di antenati, il disaccordo della loro immobilità. Poi tutto il teatro ondulava, le fiammelle del gas avevano uno sbattimento increscioso, tutte le teste si movevano, i discorsi fluttuavano in un mormorio incessante; il telone della bocca d'opera, un immenso lenzuolo giallo a toppe, cogli orli segnati da due o tre striscie cremisi, che gli davano un'apparenza di tendone da fiera, palpitava; un'agitazione sommessa scuoteva tutti gli spiriti, un incomodo scomponeva tutte le pose. Sotto l'ombra della prima galleria, dalle gradinate e dalla platea, dal loggione e perfino dall'atrio gremito più che un mercato, saliva e discendeva un fremito mano mano più tempestoso, una trepidazione barcollante, nella quale si sentivano come degl'impeti di collera e delle sospensioni di minaccia. Ma nell'aria già morbida di tutti quei fiati cominciava a pesare un'oppressione sempre più grave: la freccia dell'orologio s'appressava alle otto, e molti sguardi si alzavano alla volta, osservando il timpano di cristallo e i quattro sfiatatoi agli angoli, che naturalmente non si aprirebbero per tutta la sera. Una voce dal loggione, dove si soffocava per tempo, avventò una protesta, alcune altre le si unirono, ma tutto il teatro si volse sdegnato, e le voci tacquero. Fuori l'aria era così frizzante, che, aprendo la vetriata, qualche corrente pericolosa poteva invadere il palcoscenico. Ad un tratto il direttore, in abito nero, salì sulla sedia. Un sibilo di silenzio corse per tutto il teatro, i suonatori guardavano le partiture, l'orologio era quasi sulle otto. Il pubblico ebbe un enorme sospiro di soddisfazione: lo spettacolo sarebbe puntuale. Ma nel loggione e sotto la prima galleria il murmure si allontanava come un susurro di vento per un bosco; tutti si adattavano il più comodamente sugli scanni, le fisonomie si ricomponevano, le pose da teatro ricomparivano. La bacchetta del direttore percosse la lingua di latta sul leggìo, e l'orchestra attaccò la sinfonia. Era la Traviata di Verdi, cantava la Patti. Il pubblico stette fra contegnoso e disattento. L'orchestra diretta mediocremente eseguiva colla stessa bravura che al Comunale, poichè composta all'incirca degli stessi elementi: i violini erano numerosi, tutti allievi o quasi dell'illustre Verardi. Mano mano il pubblico si faceva più immobile, gli sguardi si aguzzavano. La sinfonia passò inosservata, forse qualche frase destò un fremito, ma l'opera era troppo vecchia per tutte le curiosità, troppo udita per tutti gli orecchi, e cantavano la Patti e Niccolini. Però verso il finale, quando il telone parve ondeggiare insensibilmente, tutto il pubblico ebbe un sussulto. La Patti doveva essere in iscena, la grande artista, la diva, come la chiamavano i giornali, l'usignolo, come molti se la ricordavano ancora, diventata adesso una cantante drammatica, e che ritornava al Brunetti, perchè il Comunale non poteva contenere tutta la folla necessaria per i suoi diecimila franchi di ogni sera. Il telone fiottava già sotto il soffio di tutte le bocche, e la frase finale della sinfonia si smorzava senza che la sua tragica mestizia impietosisse pure un cuore. Per un momento sembrò che nessuno respirasse, poi come se l'anelito di tutto il pubblico avesse uno scoppio, il telone si scisse e sparve in alto sotto le quinte. La Patti era in iscena, seduta sopra un divano, discorrendo col medico e con alcuni amici. Tutti non videro che lei. Era vestita da ballo, scollacciata, con un abito elegantissimo, volgendo le spalle al pubblico. Nella platea sorse un applauso di saluto, ma la curiosità e l'emozione erano tali, che l'applauso fu scarso, ed ella si torse appena colla testa per coglierlo. Quindi i cori degli invitati entrarono, ed ella si alzò gettando loro le prime note in una parola d'invito. Allora quella donnina, piccola, colla fisonomia rapace, gli occhi neri, secca, colle spalle aguzze, la persona senza forme, ma circonfusa di un'eleganza che impediva ogni analisi, campeggiò fra quella folla di straccioni, abbigliati di un povero uniforme in velluto da gentiluomini in un secolo equivoco, colle calze di cotone e i pizzi rammendati. Era in piedi, trascinando fra gli abiti orlati d'oro annerito delle coriste il suo magnifico strascico, sul quale scintillavano i ganci brillantati; ma così straniera a quella festa, che la sua contraddizione col teatro sprizzò vivamente. La scena era la solita di tutte le rappresentazioni. Una specie di gran salone di quell'architettura da palcoscenico, la quale fortunatamente ha trovato pochi imitatori, occupava tutta la bocca d'opera, con una sola porta nel fondo, e una tavola da locanda nel mezzo, lunga e stretta. La tavola aveva una tovaglia di carta, e una vecchia tenda orlata d'oro, che la fasciava fino ai piedi, dandole una strana fisonomia da altare e da banco di pasticciere. Sulla tavola i soliti calici di legno inargentato, quattro candelabri di bronzo, una conca in legno dorato piena di fiori naturali, quattro pasticci di cartone, cinque o sei bottiglie di legno nero col collo bianco, e due bottiglie vere di champagne dinanzi alle poltrone, che interrompevano alle estremità il giro delle sedie. Le poltrone, vecchio stile indefinibile, erano dorate, in felpa rossa; mentre le altre sedie ad angolo retto le avrebbero superate in ricchezza se la loro doratura fosse stata più visibile e lo stile meno sgraziato; ma non avevano imbottiture di sorta. Evidentemente a quella cena dovevano assistere due personaggi. Non v'erano altri mobili. Solamente due tavolini dorati, da muro, sostenevano nella parete di carta due specchi dipinti, bianchi da un lato e turchini dall'altro, per imitare possibilmente il gioco luminoso dei cristalli: e due ritratti di antenati fiancheggiavano la porta, adorna di un gran lavoro di stucchi, a volute e fiorami. Il sofà era rimasto vuoto. Alfredo doveva arrivare ad ogni istante; infatti entrò poco dopo col visconte suo amico. Ambedue erano abbigliati come coristi, solamente di abiti più ricchi; una casacca smollata colla bavarina, le orlature a merletti, i calzoni larghi a mezza gamba, le scarpine scollate, e un cappellone piumato nella mano. Impossibile immaginare un costume più falso, e due fisonomie meno amabili. Alfredo aveva una grossa testa a lineamenti regolari, che il volgo poteva forse trovar bella, coi lunghi capelli neri, divisi femminilmente sulla fronte e accartocciati sulle orecchie, ma che sulle sue spalle quasi esili, e con quella rotondità piuttosto boffice delle guance, gli davano un'aria di fantoccio. Il visconte era insignificante come un cameriere. Un mormorìo di ripugnanza corse fra il pubblico, che probabilmente si ricordò l'Armando di Dumas. L'apertura drammatica era presso che la stessa, però quale differenza nel secondo personaggio! La Patti poteva ben essere Margherita: forse non aveva nè la sua anima buona malgrado tutti i capricci, nè il suo corpo ancora soave di tutta la freschezza della gioventù e aromatizzato dal sentimento della morte vicina; ma la magrezza della sua persona poteva ben far credere ad una tisi, e lo sfarzo inimitabile del suo abbigliamento bastava a spiegare tutto un presente di dissipazioni parigine, di milioni fusi con uno sguardo, di amori pagati con poco più di un sorriso. Le camelie, che le guernivano il vestito e le biancheggiavano sulla testa, erano forse una vera predilezione di questa donnina, che, avendo odorato tutti i fiori della vita, preferiva adesso per orgoglio nauseato i fiori senza profumo e l'uva candita, ultimo ricordo della sua infanzia povera nei campi, che le ritornava falsificandosi attraverso la vita di cortigiana e la sua cucina di malata. I lumi, il belletto, la biacca, tutte le risorse e le menzogne delle tolette teatrali aiutavano nella fantasia del pubblico l'immagine di Margherita, così poco vera e così poco grande, e che nullameno ha commosso per dieci anni l'Europa; ma Armando, questo provinciale ingenuo sino alla goffaggine, che si trova un po' dappertutto, e attraversa per un istante la gran vita mondana per finire in un impiego subalterno, dove oblia prontamente la breve primavera della gioventù, che può averlo reso poeta un mattino: l'Armando di Dumas, che Parigi ha ingentilito senza corrompere, che la passione spiritualizza, e la sincerità rende quasi simpatico, non era certo riconoscibile in quel figuro vestito di velluto, coi calzoni orlati di una passamanteria, che gli velava i magri polpacci, e quella testa, che avrebbe figurato abbastanza bene nella vetrina di un barbiere fra le guglie dei ceroni e le iridi delle boccette.

La cena fu brevissima: gli ospiti si erano appena seduti, che Alfredo fu invitato a ripetere quel brindisi di una intonazione da baccanale, con cui Verdi ha creduto inutilmente di soddisfare alla doppia esigenza di una scena di baldoria e di un coro. Alfredo non fu nè gran signore, nè gran tenore; non ebbe alcuna delle finezze di entrambi, e sparve quasi nella risposta di Margherita. Ella fu splendida di brio, e quando tutti si alzarono, e aggirandosi fra di loro col bicchiere in mano cantò l'ultimo ritornello, se quella gente fosse stata davvero elegante, sarebbe parso di assistere ad un'ultima ora carnevalesca in casa di una grande mantenuta. Non fu che un lampo, il pubblico non lo colse, e rimase nella prima diffidenza. Sciaguratamente il biglietto era troppo alto per una città di provincia, e lo spettacolo solamente alla prima scena, perchè gli spettatori lo avessero già dimenticato. Quindi Violetta, sorpresa da un deliquio, andò a cadere sul sofà; Alfredo, che stava per uscire cogli altri, si trattenne, e le fece quella celebre dichiarazione dello stile verdiano il più puro, nella quale l'amore del collegiale è forse reso con tutto il caldo ed i fiori della sua rettorica. Non era certo la dichiarazione di un elegante ad una donna del genere di Margherita; ma se il suo soffio lirico, arrivando da una terra vergine ed ardente, saliva troppo in alto, dissipava con felice contrasto i fumi grassi di quella cena, per crudele fatalità dei coristi troppo apparente. Ella lo sentì, e come desta da un olezzo di aria nativa, ruppe in un grido di emozione. Quel linguaggio poetico, il solo genere di linguaggio falso che non avesse udito da molto tempo, e che in quel momento esprimeva una vera passione, le ricordò forse un altro mondo, dove si amava e si viveva altrimenti: se non che ricomponendosi d'improvviso, ed avanzando la fronte verso di lui come per bagnarla nel sentore delle sue ultime parole, con un sorriso ancora gaio, ma già diversamente gaio di poco dianzi, quando agitava nella piccola mano il bicchiere dello champagne, e con una bonomia intenerita nella voce, che era già una tristezza nel cuore, consigliò ad Alfredo il solito consiglio di fuggire e di amare un'altra. Il rimedio volgare era forse ben adatto, ma la piccola beffa, che lo accompagnava in fondo, ne impediva singolarmente la pratica. Malgrado la bontà di quella commozione, il gesto e le parole di Margherita avevano ancora la monellesca amabilità, il pungente scetticismo della mantenuta: Alfredo n'era impacciato, Violetta tornava a riderne.

Il suo magnifico abito di raso aveva dei sibili di serpente, mentre il suo ventaglio piumato, che valeva forse tutto il patrimonio di Alfredo, le batteva sul petto colla impertinenza superba di chi non ha cura nemmeno di se stesso. Se Alfredo non fosse stato sincero, avrebbe provato la falsa vergogna di quella posizione, e sarebbe fuggito; invece fu goffo e fu amato. Le donne pretendono sempre un sacrificio, e preferiscono fra tutti quello di un'umiliazione. Il dramma vivo di Dumas e di Verdi cominciava a questo punto. La Patti, fino allora una prima donna impeccabile, fu improvvisamente l'artista, che sapeva recitare come la Ristori. Seduta languidamente sopra quel povero sofà rosso, sorreggendosi la testa colla mano, in un abbattimento, che tradiva già un'implacabile malattia, parve perdersi silenziosamente nel vuoto gelido del passato. La sua posa, che avrebbe entusiasmato uno scultore per la involontaria espressione di tristezza, era già un capolavoro. A che pensavano in quell'istante Violetta e la Patti? Alla dichiarazione di Alfredo, o di Niccolini? A quell'amore vergine, idolatra, del povero provinciale, che ha vissuto quattro anni nel quartiere latino ricordandosi la inevitabile Provenza fra i sogni incendiarii di Parigi, dove la vita ha ancora più seduzioni dell'immortalità, e i propositi feroci delle ambizioni soccombono quasi sempre alle tentazioni del piacere? O all'amore tardivo di questo tenore ammogliato con quattro o cinque figli, la voce già velata e la fisonomia teatrale piena di rughe, che la seguiva per tutto il mondo, attraverso le ironie del pubblico e le indiscrezioni dei giornali, e che forse l'amava con tutto l'egoismo di un uomo, il quale sente mancarsi ad un tempo la vita dei sensi e la vita dell'arte? O sentiva il terrore della solitudine in quell'ignobile teatro di provincia, dove la maggioranza l'ammirava forse più per la paga che per la voce, ed entusiasmandosi per l'artista conserverebbe forse tutto il proprio disprezzo per la donna? O la sua grand'anima, sparendo davvero nel tragico destino di Margherita, si fermava come lei a mezzo il corso carnevalesco della propria esistenza, sorpresa da una di quelle ripugnanze, che sono come l'esplosione di un disgusto accumulato insensibilmente, una negazione disperata di tutto ciò che si è voluto preferire nel mondo, i diamanti veri e i sentimenti falsi, il lusso del corpo e la miseria dell'anima? E la sua voce aveva delle trepidazioni di spavento; mentre, passeggiando per il palcoscenico cogli occhi sbarrati, ella sembrava cercare una spiegazione su quelle asse, dalle quali si erano alzati tanti desiderii e sulle quali erano cadute tante speranze di donne. Forse in quell'istante il suo pensiero si era appannato, e la coscienza le si destava alla puntura di un nuovo sentimento. Poi le ultime parole della dichiarazione le tornarono involontariamente sulle labbra, quando, lontano dalle quinte o dalla strada, la voce di Alfredo risalse e la percosse. Era un'eco del cuore o un'illusione dell'orecchio? O il povero innamorato, che aveva giurato di partire per sempre e che ella aveva trattenuto scherzosamente con un fiore, era ancora sotto le finestre, a Parigi, dove la folla passa come la fiumana; e, non sapendo spiccarsene, le ripeteva di laggiù a tutta gola, come un vero ragazzo, la sua prima dichiarazione? Forse ella non lo comprese bene, ma la follia di quell'insistenza le rianimò tutte le follie della sua vita tragica ed allegra. Perchè amare? Chi amare? Comunque principii, l'amore non finisce sempre ad un modo, nella voluttà prima, nella nausea poi? La morte non era essa pure la nausea della vita? Se Alfredo l'amava davvero, tutti quelli, che si erano rovinati per lei, l'avevano amata almeno altrettanto, poichè qualcuno n'era morto. Avevano goduto con lei, poi l'avevano abbandonata. E godere dunque, sempre e dappertutto, sinchè si può essere o si può ricevere una voluttà! La fiumana di Parigi, che passava a notte così avanzata sotto le sue finestre, era sempre così torbida; tutti i caffè erano aperti, i clubs affollati, i teatri rilucenti, tutti si apprestavano a godere, gli uomini offrivano un desiderio, le donne donavano una soddisfazione, nessuno aspettava il mattino, nessuno credeva all'indomani. Essere bella ancora, avere più diamanti che sorrisi, più sorrisi che pensieri, era tuttavia un destino; e mentre laggiù, in fondo, la massa della popolazione lavora e stenta, non avere che a bramare per ottenere, essere una piccola regina, alla quale tutti i re della ricchezza offrano un trono; bella come un capriccio e debole come una malata, giovane come il mattino e nullameno moribonda come la sera. Si era decisa nuovamente. Il suo gesto piccino aveva avuto l'espressione superbamente scettica del giuocatore, che arrischia per la centesima volta l'ultima posta. Allora la sua canzone di guerra col mondo scoppiò in un ritornello pieno di trilli e di baci, di note acute e di sentimenti leggieri come il suo sacco di giovane volontaria nelle bande del brigantaggio femminile. La sua voce aveva degli scoppi di fanfara, l'abito le garriva come una bandiera al vento, il ventaglio brillantato balenava come un'arma omicida. Una gaiezza di recluta alla prima marcia le animava tutti i moti, e le accendeva già i fuochi della vittoria negli occhi neri come l'abisso. Non era più la Violetta della cena, sofferente ed avvilita pur non volendo sembrarlo; ma la Violetta di vent'anni, l'etèra moderna, che deve al lusso tutto il proprio prestigio, e uccide col lusso tutti quelli che lo sentono. L'ingenuità di questa vanteria, uscendo dall'abbattimento di poco d'ora, aveva la soavità di una brezza e il fresco mordente di un'alba. Così trovando nell'ultima ostinazione della vanità femminile le stesse lunghe compiacenze delle sue prime conquiste, si attardava sulle frasi del soliloquio, dilettandosi ad esaurirne la sonorità nelle gamme più bizzarre del ritmo, nelle pazzie più scapestrate della modulazione. Quindi sollevando improvvisamente una parola la sparpagliava in un turbine di note, la raggruppava ancora, l'avventava sopra un'altra, la perdeva in una discesa precipitosa; e riafferrandola giù nel crepuscolo dell'ultima nota, la gittava entro un gorgheggio, riscagliandola in alto, sulla cima più acuta di un trillo, dove vibrava come uno squillo e raggiava come un baleno. E la sua mano secca sotto il guanto grigioperla sembrava appuntarla con un gesto indefinibile, mentre il suo volto splendeva di luce febbrile, e il suo sorriso passava sulle teste della platea come un riverbero, che faceva vacillare i cuori e battere le palpebre.

Poi tutte le mani si percossero, e una nuvola gialla cadde sugli sguardi del pubblico. Il primo atto era finito. Allora il teatro fu in sommossa: quasi tutti gli uomini si alzarono in piedi, quasi tutte le signore mutarono attitudine. Le conversazioni rumoreggiavano.

- Dunque?! - proruppe, torcendosi come uno scoiattolo sulla sedia, il violoncellista dell'ultima fila al secondo contrabbasso della prima, appoggiato al parapetto della ribalta e sorreggendosi sul manico dell'istrumento - mi pare che questo sia canto! La tua Frezzolini non ci ha che fare.

Ma s'interruppe dispettosamente per guardare nel pubblico, che lasciava finire il primo applauso di convenzione, obliandosi nel fracasso dei discorsi.

- Vedi - proseguì levandosi in piedi senza parere niente più alto, cogli occhi grigi, scintillanti come quelli di un pollo, e la voce stridula come una lima: - vedi - ripetè, mostrandogli il pubblico con un gesto veemente di disprezzo; - non hanno capito. Hanno battute le mani agli ultimi trilli, e diranno che la Donadio li sa fare anche lei. Ti ricordi Salvini? - seguitò stringendosi la fronte illuminata da un pensiero - la Patti è Salvini che canta.

- La Cazzola allora.

Il violoncello si volse al violinista, che aveva parlato, un ragazzo dai capelli rossi e la fisonomia ebete, e insultandolo collo sguardo:

- Questo dev'essere per te un ricordo di muratore.

Il contrabbasso ebbe un principio di sorriso.

Era un vecchio alto e grasso, la faccia del tutto rasa, con un cravattone nero, che a prima vista sembrava un collare. Due ganascie di gran mangiatore, penzoloni sotto il mento, gli scoprivano due magnifiche fila di denti ancora bianchi, capaci di stritolare tutti gli ossi di un pranzo. La calvizie inoltrandosi gli aveva dato un po' d'intelligenza alla fronte, sotto la quale una bonomia inalterabile ammolliva ancora i suoi lineamenti linfatici, congiungendogli insensibilmente il sorriso della bocca con quello degli occhi. Il resto della persona gli spariva dietro l'enorme contrabbasso, sul quale la sua mano di pizzicagnolo posava con una specie di poderosità pacifica. Un immenso soprabito, tagliato a giacca, coi bottoni neri di prunello sopra un fondo color tabacco, gli ingrossava il busto smollato dentro un immenso corpetto, sul quale una collana femminile, d'oro, attorcigliata con un resto di pretensione, faceva sospettare di qualche antico orologio a cipolla. Ma in quel momento Bartolomeo sembrava concentrato in un pensiero difficile. I suoi sopraccigli, grigi e ricurvi sugli occhi, s'andavano contraendo, mentre una contentezza ilare gli saliva dalle labbra, illuminandogli le guancie tinte ancora di un magnifico vermiglio. Rimase qualche minuto così, poi la marea del teatro, sorpassando la ringhiera dell'orchestra e scompigliandola, lo destò. Il teatro reboava. Un rumore composto di un'infinità di mormorii, di gesti, di cenni, di occhiate e di sorrisi riempiva tutto l'ambiente, agitandone l'aria, che si vedeva distintamente bruciare sulle fiammelle del gas. Il caldo era opprimente, tutte le fronti rilucevano, i ventagli susurravano sui petti delle signore, i fazzoletti biancheggiavano in tutte le mani. Nella platea era un continuo sorgere e risedersi, nei palchi già pigiati le visite sopravvenivano e si pigiavano, il frastuono cresceva per le gallerie, scoppiava in grida sul loggione. Lassù il calore dell'entusiasmo, raddoppiato da tutto l'altro del gas e della gente, doveva essere arrivato ad una temperatura di deserto africano. Nullameno panche, gradinate, muri, parapetti, tutto rimaneva letteralmente imbottito di figure umane; lo skacò placchettato di un poliziotto, arenatosi lassù come in un banco di sabbia fino al collo, gettava qualche riverbero metallico fra quel grigio tumultuoso di bruma: e dalla platea all'atrio, per la porta, l'onda di coloro, che uscivano e rientravano, quelli che non potevano più reggere all'arrembatura, e quelli non ancora entrati, i quali non speravano se non in ciò, s'accavallava in grossi fiotti, vibrando nel frastuono della sala grida di soffocazione. Le signore della platea erano già ardenti, le altre dei palchi scintillavano. La luce profusa di tutte le fiamme diventava la sola aria dell'ambiente, non si vedeva più una faccia pallida, tutti gli occhi rutilavano, tutte le bocche si movevano. Solo in un palchetto una principessa ottuagenaria, vestita di un moerro del suo tempo, con una fisonomia di mummia, ancora spiritosa quando parlava, e la nipote gracile, smorta, vestita di bianco come un angelo, diafana come una visione, fredda come una statua, sembravano non partecipare alla confusione bollente della serata. La vecchia teneva quasi sempre la testa bassa, la giovane l'appoggiava al tramezzo, e guardava in alto con due occhi affossati, che sulla sua faccia impassibile avevano una luce spettrale. La gente si voltava spesso a guardarle. Poi su quell'agitazione di marea, contenuta e raddoppiata dalle gallerie, fra tutte le conversazioni, nelle teste e nei cuori, suonava il nome della Patti. Quel primo atto, un capolavoro per qualche iniziato, non aveva soddisfatto interamente al gusto sempre grossolano, e questa volta avaro del pubblico. Ma quel turbine di note esplose all'ultima scena, e l'atmosfera del teatro dissolvevano già ogni incertezza; mentre la famigliarità di tutte le pose pigiate e delle attitudini compromesse disponeva involontariamente a maggiore compiacenza.

Poi la bacchetta del direttore percosse sul leggìo, che il pubblico non si era ancora ricomposto.

L'idillio campestre della Signora delle Camelie, narrato dal Dumas con minutezza così vera e commovente, si apriva invece con una romanza di Alfredo, eco indebolita dall'altra del Rigoletto, senza luce e senza calore. Quel povero Alfredo, che per far credere di essere in campagna, compariva in stivaloni di pelle lucida, vestito di velluto granatino, i pizzi ai polsi ed al collo, il gran cappello piumato nelle mani per darsi un contegno, era ancora più ridicolo che alla presentazione del primo atto, nel quale la goffaggine stessa della situazione poteva far scomparire la sua. Egli venne dritto alla ribalta, come chi si affretti a sdebitarsi di un incarico, e cantò con sicurezza di vecchio tenore la propria felicità di giovane innamorato. La frase leziosa del finale gli valse il primo applauso della sera, e il dramma si riannodò immediatamente. Colla delicatezza sempre poco delicata delle sue pari, Violetta voleva vendere i cavalli guadagnati in altri amori per aiutare quello di Alfredo, e seguitare quella vita di campagna, che Verdi in tutto il melodramma non ha voluto svolgere con una scena sola. Forse il suo temperamento tragico e lirico ad un tempo, innamorato delle catastrofi e delle passioni esplodenti, non ha osato di affrontare un interno casalingo, la mattina, quando l'aria è fresca, il cielo azzurro, e la casetta apre tutte le proprie finestre alla primavera. Una magnifica scena, come nel Tristano e Isotta del Wagner, avrebbe potuto spiegare il passaggio troppo brusco dell'ultima decisione di Violetta nel primo atto al sacrifizio nel secondo, appena si presenta il padre di Alfredo; ma Verdi non potè o non volle, e senza saper come si siano uniti, Alfredo e Violetta si separano immediatamente. Così quest'idillio, quest'amore, sul quale si è tanto discusso e che tanti hanno provato nella vita, non trova dentro l'opera destinata ad immortalarlo una sola frase, che lo renda nell'abbandono gentile della confidenza, quando il mondo lo aveva quasi obliato, e la natura lo riconfortava colla sua eterna salute. Ma Dumas nella Signora delle Camelie disegnava un carattere, e Verdi nella Traviata espresse il solito amore di tutti i suoi melodrammi, senza preoccuparsi delle differenze, che potessero correre fra Violetta e le sue altre eroine. Nella gamma dell'amore egli arriva subito ed involontariamente alle note più acute, alla prepotenza più acre del desiderio o al dolore più spasimante del sacrificio. Come per Victor Hugo il personaggio è per lui una forma vuota, nella quale gittare indifferentemente una passione o un pensiero, che lo animi di quella vita eccessiva, cui l'uomo non prova davvero se non in qualche terribile coincidenza. Quindi l'architettura complicata dei loro drammi, le passioni irrefrenabili, gli eroismi fatali, le contradizioni strazianti, tutto l'apparato romantico, che, trasfigurando la realtà, squilibra incessantemente il sentimento del personaggio stesso e del pubblico. Malgrado la differenza di nazione e di razza, Manrico e Radamès sono lo stesso individuo, come Gilda e Violetta, Ernani e Don Alvaro, Riccardo e Don Carlos, Dea e Cosetta, Gilliat e Guynwplaine, il marchese di Lantenac e Don Silva; perchè Hugo e Verdi fanno delle statue e non degli uomini, e sono come due fratelli, dei quali il minore aspetta che il primogenito abbia parlato per cantare. Talora si uniscono, e ne esce una grand'opera come il Rigoletto; talora non s'intendono, e producono due mostri come nell'Ernani. Così della Signora delle Camelie, aneddoto triste e volgare della cronaca parigina, che Dumas ha narrato con vecchia sapienza di novelliere e giovane entusiasmo di predicatore, Verdi ha fatto una tragedia, nella quale non si sente che un grido di amore, con quattro personaggi insignificanti come una decorazione, una trama molle quanto una matassa, una sceneggiatura falsa come quella di un giornale illustrato, un processo psicologico, che mutila i caratteri e deforma le situazioni. Invano l'anima, stanca da quest'alternativa di cicalio e di gemiti, o disorientata da tutti questi avvenimenti, che cadono come tante tegole dai tetti, domanda la dolce malinconia di quest'amore, nel quale il sorriso della tisi ingannava così spesso ambo gli innamorati, e la verginità dell'inesperienza nell'uno e dell'oblio nell'altra si fondevano come due soffi in un bacio, due note in un accordo. La figura di Violetta, questa donna, della quale ogni particolare dovrebbe essere supremamente elegante: sempre leggiera anche nelle violenze più inebrianti del senso, o negl'impeti più disperati del sacrifizio: sempre mantenuta anche nel breve idillio coniugale, poichè invece di morire ricacciandosi nella miseria morale della sua vita anteriore, riprende facilmente il corso delle antiche feste: sempre sfarzosa e sempre con un uomo, al quale concede le proprie notti: la figura di Violetta così vera nelle contradizioni e così falsa nell'eroismo, fragile e terribile nella sua effimera prepotenza di grande mondana, spregevole e pietosa nell'ultima lotta col destino, contro al quale non ha mai saputo lottare colle forze del lavoro e le energie della volontà; questa figura composita come i suoi pranzi, i suoi profumi, le sue tolette, le sue preferenze e le sue antipatie, diventa una figlia nobile dalla bellezza spirituale, colle stigmate del romanticismo sulla fronte; povera anima che aspira al cielo, assetata di amore e di ideale, che parrebbe un angelo smarrito sulla terra, se i singhiozzi laceranti del suo petto di tisica non la tradissero per una donna. La bianchezza della sua fronte di predestinata è la stessa di Gilda, la vergine soave; il sacrificio del suo amore quello medesimo di Eleonora, l'altera castellana: il suo cuore è sempre puro, la sua testa illuminata dal sole della poesia. Malgrado la differenza degli abiti e delle parole, mutando scena, ella sarebbe probabilmente l'una e l'altra; e quando si sentirà soccombere sotto il peso del dramma, o morire nell'ultima stretta della catastrofe, troverà la frase di quelle martiri, ineffabile e sublime come l'ultimo accento dell'amore e la prima parola della fede.

In quel momento Violetta stava attendendo il padre di Alfredo. Era vestita semplicemente, ma le cattive abitudini della mantenuta, o la falsa vanità della cantante le avevano fatto mettere una moltitudine di brillanti sopra quel corsettino da campagna. Le signore, che non l'abbandonavano un solo istante col cannocchiale, susurrarono mostrandosi la raggiante ricchezza di quelle gemme. Evidentemente Violetta preferiva i diamanti ai cavalli. Ma il padre di Alfredo, Moriami, bell'uomo camuffatosi male appositamente, dal portamento vivace e la voce poderosa, entrò poco dopo. Con una condiscendenza inesplicabile per la decorazione della scena rimproverò acerbamente a Violetta l'estrema eleganza della casa, che pareva appena quella di un giardiniere; e perdendosi subito dopo nelle rimostranze di padre offeso dalle follie del figlio per una donna, stava per trascendere, che Violetta lo trattenne con un gesto. Allora la vera ed unica scena dell'opera scoppiò; Moriami fu un padre ordinario, ma un baritono corretto, la Patti un miracolo di arte e di natura. La insulsaggine del pretesto inventato da Dumas e musicato da Verdi per mettere la tragedia nel racconto e l'equivoco sulla scena, uccidendo nell'anima di Violetta la vita e in quella di Alfredo l'amore; la povera storia di quella sorella perduta in un villaggio di Provenza, la quale deve sposare un possidentuccio qualunque con centomila lire di patrimonio, mentre ella ne porterà forse ventimila in dote, e che spaventati dallo scandalo di Alfredo non possono più unirsi, come se le amanti dei fratelli disonorassero le sorelle a cinquecento miglia di lontananza; questo padre, che arriva dal fondo della Provenza attirato dai debiti del figlio, una delle più forti attrazioni, e per persuadere la donna, che egli crede il suo mal genio, ad abbandonarlo, non trova nulla di meglio a dirle che lo scrupolo piuttosto ebete del proprio futuro genero; la musica triviale come le parole del racconto e la posizione del dialogo, la cantilena dei ritornelli, la nudità del motivo e la miseria dell'accompagnamento, tutto si illuminò e disparve alle prime parole di Violetta. Coll'accento della paura, che la sorpresa intenerisce ed aggrazia, la voce rotta dai singhiozzi, sublime di debolezza e di entusiasmo, ella gli confessò il proprio amore per Alfredo, amore quasi santo per la redenzione della donna, quasi sacro in quella brevità di tisi. E mano mano che il canto angosciato le si affievoliva, quasi il solo pensiero di perdere Alfredo le rompesse l'ultimo filo di voce, le sue parole frettolose risuonavano con un borbottio d'invocazione, e i suoi occhi si figgevano nella faccia del vecchio con espressione imbambolata. Forse col presentimento degli infelici aveva paura di quel volto bonario, sul quale le passioni non avevano mai balenato, e che solo la morigeratezza e l'egoismo avevano potuto conservare così fresco. Tutto in lei pregava per l'amore. Ma colla testardaggine della gente onesta, la quale, trovandosi ad avere dal proprio canto la virtù e l'interesse, diviene scettica sulla importanza delle passioni, egli seguitò a darle i consigli di circostanza. Nè la magrezza della sua personcina, nè il rossore della febbre l'impietosivano: non si accorgeva di strapparle dalle labbra l'ultima goccia di cordiale, di soffocarle nel cuore l'ultima speranza della vita. E la musica nella sua fraseologia rettorica e plebea esprimeva abbastanza bene questo carattere vero a forza di essere brutale, questa posizione tragica, nella quale la ragione parlava col vecchio e la poesia singhiozzava colla giovane. Naturalmente il pianto è uno dei primi sintomi della debolezza, e Violetta cedè. Forse ella stessa non ne capiva bene il motivo, ma per uno di quegli abbandoni disperati, propri delle nature patetiche, si lasciava cadere ai piedi della prima contraddizione colla voluttà singhiozzante del sacrificio. Allora la vita degli ultimi mesi in campagna coll'amore di Alfredo, affluendole impetuosamente al cuore, le sgorgò in lagrime dagli occhi. La sua fiacchezza di donna e di malata le fece provare anticipatamente tutto l'orrore del distacco, e di un ritorno alla vita della cortigiana, che non può credere più alle illusioni del lusso, o sperare in un ideale più alto. Per un momento si era lusingata di rientrare nella virtù di un unico amore, e la virtù la rigettava sul corso rumoroso del vizio. Il cuore le batteva, il petto le bruciava. Le pareva impossibile di cedere, ella che aveva tutti i diritti di una moribonda, il suo ultimo mese a chi vivrebbe ancora molti anni; mentre sapeva di non costar nulla ad Alfredo, e che una rottura sarebbe forse la morte per entrambi. Ma una mano di ferro le era discesa sul cuore, e l'aveva prostrata. Il feroce destino della sua vita la ripigliava stracciandole tutti i sogni, pestandole tutte le speranze. La cortigiana doveva morire cortigiana, nella miseria di uno spedale, o nella vergogna di un sequestro. Quindi una luce improvvisa illuminò il destino, che la uccideva, e riapparve la provvidenza della sua infanzia, quando la mamma l'ammaestrava accanto al focolare, inculcandole l'umiltà dei principii e la purezza dei sentimenti. Le sembrò di ritrovarsi nell'antica casetta montanara, intatta ancora dal giorno della sua fuga, poichè la mamma ne era morta poco dopo. Ma un'altra casa sopra una più bella costiera piena di aranci e di olivi, fra una corona di colline, sotto un cielo di smalto, in faccia ad un mare di zaffiro, in un'aria imbalsamata, in mezzo ad un sorriso eterno di giocondità e di salute, le passò come una visione nel pensiero. La conosceva, era la casa di Alfredo, che egli le aveva tante volte descritto. Il vecchio cane pastore era sdraiato sulla porta, la capra favorita della mamma brucava ad una siepe. La porta era spalancata, il prato deserto. Ma ad una finestra del primo piano una fanciulla pettinata modestamente ricamava un paio di pantofole da uomo, col volto illuminato da un impercettibile sorriso. Era la sorella d'Alfredo, la vergine, alla quale ella non poteva essere presentata, l'angelo della famiglia, che stava per aprire le ali bianche al volo. Le sembrava di vederla in alto, dal prato della casa, alla guisa dei mendicanti, che venivano spesso ad implorarla. Allora tutta la ribellione del suo dolore ammutolì, e comprese di essere inevitabilmente perduta. Il destino, che la buttava ai piedi di quella vergine, come gli antichi guerrieri venivano a gettare ai piedi delle loro spose i prigionieri di guerra, era la provvidenza della sua infanzia, che sparisce talvolta, ma non dilegua, perdona forse, ma non oblia. L'ora della espiazione era suonata prima dell'ora del pentimento. Le ginocchia le si piegarono quasi involontariamente; ma come se l'aria di quella visione l'avesse già purificata, col gesto del pellegrino, che sta per riprendere coraggiosamente la via dolorosa del pellegrinaggio, stese la mano al vecchio, e cantò la preghiera dell'addio. Come la figlia di Jefte ella moriva per la parola di un padre, ma senza la poesia dell'innocenza e l'onore del corteggio. La sua lamentazione, lenta come i rintocchi di un'agonia, calava laggiù, in una valle della Provenza, sotto la finestra, alla quale la sorella di Alfredo lavorava senza alzare gli occhi dal ricamo; mentre Violetta, stringendo convulsamente la mano del padre, gli mormorava un saluto per la vergine, che doveva ignorare per sempre l'infamia del suo nome, e l'eroismo del suo sacrificio. La sua voce, sempre soave, aveva un accento ineffabile di malinconia in questa romanza, la più bella e la più vera di tutta l'opera; ma alla ripresa, quando il presentimento della morte le ebbe tolto ogni forza, anche la voce le si affiocò senza appannarsi, ed abbandonando la mano del vecchio, gli ripetè con tale sfinitezza - Dite alla giovane sì bella e pura - che il pubblico strozzato dall'emozione scoppiò in un urlo. Istantaneamente l'incanto si ruppe, Violetta scomparve e rimase la Patti, un'artista inimitabile, alla quale il teatro chiese due volte il bis, due volte soffocandolo sotto un grido fanatico di applauso. A poco a poco il calore dell'ambiente aveva guadagnato tutte le anime, quella romanza le incendiò. La sua tristezza era così vera, che l'amore ed il suicidio di Violetta diventavano reali, atroci, inevitabili. Non si vide altro, non si comprese di più. Per qualche minuto lo spettacolo rimase sospeso. L'applauso diventava ovazione, crescendo d'intensità e di frastuono; si sentivano i fremiti, scoppiavano già le strida della demenza. L'emozione del pubblico era talmente viva, che per sopportarla dovette ricorrere al bis. L'arte è un punto, l'artificio una linea: questo si raggiunge una volta, questa si può prolungarla sempre. Il pubblico, che aveva sobbalzato alla voce di Violetta, giudicò allora quella della Patti, e il giudizio fu così lusinghiero, che la grande cantante ebbe un sorriso di regina, curvandosi sotto il vento degli evviva. L'artista ed il popolo si erano intesi prima; la donna ed il pubblico s'intendevano adesso.

Quando il padre fu uscito, Violetta rimase sola per scrivere ad Alfredo il terribile biglietto. I violini di Verardi interpetrarono mirabilmente le poche e stupende note, colle quali Verdi ha reso l'ansia di quel momento, ma nè la musica, nè la voce, nè la perfezione inimitabile dell'attrice poterono risollevare il pubblico. La reazione dell'entusiasmo lo prostrava. Alfredo rientrò, e l'accordo fra il pubblico e la Patti si ruppe di nuovo.

Quella figura di barbiere, camuffato da postiglione, smagava tutta la passione di Violetta. Ella avrebbe avuto talmente torto di amarlo, che era impossibile credere al dolore delle sue menzogne e alla verità del suo olocausto. La farsa spuntava sotto la tragedia. Forse Violetta fingeva quel convulso per non parere troppo cortigiana; poichè l'insulsaggine in mostra sulla fisonomia del suo innamorato doveva averle reso ben uggioso il lungo faccia a faccia in campagna. Flora l'invitava ad una festa. Parigi rumoreggiava da lontano, attirandola come l'oceano attira il marinaio. Involontariamente tutti gli orecchi riudivano i gorgheggi leggermente avvinazzati del primo atto: ma d'improvviso, mentre l'ironia del pubblico, malcontento del tenore e forse geloso dell'uomo, agghiacciava quella scena di addio a parole mozze, Violetta riapparve con un grido talmente lacerante, che tutti impallidirono. Molti si voltarono, sporgendosi per vedere se fosse caduta ai piedi di Alfredo con una bava di sangue alle labbra; ma Violetta era già scomparsa, e Alfredo si fregava le mani in faccia al pubblico colla vanità di un uomo idolatrato.

Il resto dell'atto sembrò interminabile, il dolore di Niccolini fu ridicolo essendo falso, e lo sarebbe stato più essendo vero; i conforti di Moriami, di una scioccheria appena perdonabile ad un padre, che non può aver torto vantando i prodigi del proprio cielo provenzale. Niccolini seduto sull'unica poltrona di casa, la mano alla fronte, conservava abbastanza sangue freddo per non scomporsi la sapiente pettinatura; mentre Moriami imbarazzato sotto quella parrucca ed entro quegli abiti da vecchio, egli che la sera dopo doveva essere il più bel Barbiere di Siviglia, seguitava la predica. La quale produsse finalmente il solito effetto, e quando sperava di aver persuaso il figlio a prendere il primo treno per la Provenza, questi indovinando dall'ultima lettera di Flora, trovata sul tavolo, che Violetta sarebbe a quella festa per trovargli il successore, scappava impetuosamente per Parigi.

Si credeva che il telone sarebbe calato secondo il solito, per dare alla prima donna il tempo della grande toletta da ballo; ma forse la Patti volle provare di riuscirvi in pochi minuti, e l'atto seguitò. Solamente la scena passava dalla campagna a Parigi, in casa di Flora, che quella sera dava un ballo in costume. Gl'invitati alla cena di Violetta dovevano convenire nella festa di Flora. Infatti un'orda di zingarelle e di ballerine sboccò da una porta laterale del gran salone, illuminato da palle di carta oliata, che imitavano i globi di cristallo: ma Verdi o l'impresario non avendo osato affrontare la realtà di un ballo, la scena rimase fredda. Poco dopo un fiotto di mattadori spagnuoli irruppe dalla medesima porta, e volle cantare un secondo coro alla padrona di casa, che non ne capì nulla come il pubblico. Se gl'invitati seguitavano a venire a torme, la festa doveva finire per essere ben numerosa. Però la crisi del dramma appressava. Alfredo, pallido ancora dalla lunga corsa dal casino a Parigi, entrava vestito da ballo come alla prima cena di Violetta: gli stessi amici lo aspettavano al giuoco. Accettò, ed aveva appena puntato il primo luigi, che Violetta giungeva a braccio del barone, parata di un abito di raso bianco, meno bianco tuttavia del suo volto. Uno strascico lungo come la coda di una cometa, ornato di camelie bianche e costellato di brillanti, la seguiva ondulando sulla scena. L'abito era un capolavoro di ricchezza e di semplicità. Ella pareva uno spettro. I capelli neri, divisi sulla fronte come quelli di una madonna, le cadevano sulle orecchie con una trascuratezza, che stringeva il cuore. All'estremo pallore della faccia e al largo cerchio turchino sotto gli occhi, si capiva subito che quella donna doveva aver pianto troppo o dormito troppo poco; e, venuta per forza alla festa, si era lasciata abbigliare dalla cameriera senza accorgersene. Violetta non si sarebbe mai disposto quelle camelie in fila sul fianco, come un rosario di fiori, nè piantato quel fermaglio sull'ultimo bottone del corsetto scollato. Fiori e gemme erano troppi: una collana di perle le cingeva il collo, i monili le salivano per tutto il guanto quasi all'altezza del gomito, una minutaglia di brillanti le balenava da ogni piega dell'abito, persino dalle fibbie delle scarpe. La pompa insultante della toletta guastava l'aristocratica delicatezza della sua figura, alla quale la piccola camelia bianca sulla fronte avrebbe dato un ben altro significato di poesia.

Come tutti gl'innamorati, che cercano uno scandalo, Alfredo aveva subito alzato la voce provocando il barone al giuoco. Il barone aveva acconsentito ed aveva perduto. Fortunatamente quando l'alterco stava per scoppiare, e Violetta lo seguiva con occhio smarrito, un servo venne ad annunziare la cena. In due ore era la seconda per i coristi, che nullameno urlarono ad unanimità: andiamo! I due rivali dovettero seguirli per ultimi, non senza scambiare prima qualche frase equivoca di minaccia; e la scena rimase vuota. Ma Violetta rientrò barcollando quasi immediatamente; aveva indovinato il disegno di Alfredo, e voleva impedirlo affrontando magari tutte le contumelie ed i graffi della sua gelosia. Da vero collegiale Alfredo non capì nulla della sua costernazione. Violetta avrebbe voluto inginocchiarglisi ai piedi, se il pericolo di essere sorpresi non l'avesse trattenuta, e cogli occhi dilatati dallo spavento, che le battevano come nell'abbarbaglio di un miraggio, vacillava ad ogni sua cattiva parola. Egli era superbo, affettato. Quella preghiera sbigottita gli saliva alla testa come l'ultimo incenso di un amore non ancora ben spento; epperò, malgrado ogni feroce proposito, gli trasse di bocca qualche motto di fuga. Allora Violetta ebbe un gesto così sublime di disperazione, che tutto il teatro fremè: Niccolini invece saltò alla porta con due grandi passi tragici, e, prima che ella avesse il tempo di vietarlo, chiamò tutti i coristi. Era destinato che quegl'infelici non dovessero cenare. Infatti accorrendo di malumore gli fecero cerchio intorno come in piazza: gli altri invitati arrivavano, Flora si mise a fianco di Violetta, il barone pretesto imbecille di tutta la scena, si cacciò coraggiosamente fra loro ed Alfredo, che aveva avuto il tempo di atteggiarsi con tutta la maestria di un provetto cantante. Ma questa volta fu tenore e buono. La sua invettiva, da principio a voce sorda, crebbe tremendamente di parola in parola, come se nella veemenza dell'ira gli si rischiarasse la voce. I capelli neri arricciati con tanta civetteria sulla fronte, questa volta gli squassavano come una criniera, mentre colla faccia vampeggiante di rossore, e i garretti tesi come un leone che sta per spiccare lo slancio, gualciva nella mano contratta la terribile borsa. Sciaguratamente per lui Verdi aveva perduto tutto l'impeto della maledizione, ripigliandone la cadenza con una modulazione da stornello nel momento, che lo scoppio di quella collera, quasi degna di un eroe e così vera per un geloso, doveva avere la detonazione di una bomba. Niccolini dovette scomporsi. Il pubblico lo perdette di vista per Violetta. Aggrappata alle sottane di Flora col viso stravolto dall'orrore dello sfregio imminente, il seno anelante, la bocca aperta per un urlo impossibile, che sospendeva il battito di tutti i cuori, tremava ed oscillava come un giunco. La sua veste bianca pareva una falda di neve, la sua faccia una faccia fantastica. Era troppo! Quella scena di Alfredo doveva essere un sogno peggiore di ogni realtà, una immaginazione spaventevole di un fatto non mai accaduto! E in quel raccapriccio Violetta rassomigliava all'olandese del vascello incantato, colla indescrivibile fisonomia, che solo una tempesta di mille anni ha potuto comporre. Non le restavano più che gli occhi e la bocca, il resto era tutto bianco come una nebbia, che sarebbe svanita con un soffio. Ma i suoi occhi ardevano, e nelle contrazioni della bocca muta le ruggivano tutte le strida della procella. Tratto tratto una frase infame di Alfredo l'attirava e la respingeva, mentre un terrore tragico le saliva dall'anima sul volto come un'ombra sopra una larva. Le sue mani sole parlavano, e una parola inarticolata, unica e tremenda, una negazione irresistibile ed inutile le crepitava nell'ultima convulsione dei lineamenti. Ognuno tremava, ma la tensione delle anime era tale, che la più piccola percossa avrebbe determinato un'esplosione. E fra il rombo di quell'anatema ed il silenzio di quell'esecuzione, nella quale la vittima era innocente, Violetta cresceva. Ritta sulla punta dei piedi, le mani raggrinzite sulle spalle di Flora come per sollevarsi al disopra di quel gesto che le cadeva sul capo, la sua bianca figura sembrava allungarsi in un prodigio di luce bianca: e quando Alfredo, sfinito di rabbia, le scaraventò in faccia la borsa, trattenendo lo scatto più brutale di uno schiaffo, ella pure gli si avventò dall'alto del suo bagliore di angelo, e respinta dalla ferita mortale si abbattè vacillando sulle spalle di Flora.

Il teatro ruppe in un urlo di liberazione; l'incubo si era risolto nella morte.

Ma invece di attendere ai rimproveri del padre, che arrivava in buon punto per compiacersi dell'opera propria, o al borbottio di Alfredo prolungato dalla musica in una imitazione di gargarismo, mentre il barone approfittava del frastuono per minacciare impunemente, tutti gli sguardi si accalcarono intorno al sofà di Violetta. Era svenuta in atteggiamento scultorio. Poi sembrò ridestarsi, e girando intorno gli occhi, sentì nella cantilena del coro il dolore della propria ferita. Alfredo si era quasi rincantucciato come un pauroso dietro la gente. Allora senza vederlo, con un gesto di martire, ella esalò l'ultimo sospiro d'amore. Il sacrifizio era compiuto e la vittima era viva. Il suo abito bianco pareva una tunica di angelo, la camelia della sua fronte un astro. La sua voce pura, come il suo cuore dopo l'olocausto, cantava fra quella turba ad una visione trionfante, quando Alfredo sapendo finalmente la verità verrebbe a morire d'amore sulla sua fossa recente. Un'ultima generosa malinconia velava la gioia del suo perdono, mentre i suoi occhi illuminati dalla fede si appannavano di una lacrima tardiva. Ella si obliava nel canto. La sua invocazione, forte sul principio come il grido di un risorto, s'indeboliva lentamente nel murmure concitato della folla, sulla quale la sua anima bianca si librava come una nuvola di sacrificio sull'altare. L'accordo tumultuoso di quel pieno, che sembrava sostenerla, dava un'acutezza quasi più limpida agli squilli, una lentezza più mesta alle cadenze della sua voce. Tutta l'orchestra ondeggiava, la bacchetta del direttore non percuoteva più la lingua di latta, e la Patti cantava sempre in quell'attitudine di statua, animata da un sentimento che eccedeva la vita, e al quale solamente il suo canto poteva infondere la verità. Quindi il telone avviluppò nuovamente tutta la scena, e il finale s'interruppe senza che paresse esaurito.

Il pubblico, che non se l'aspettava, ne rimase intontito. Poi le conversazioni risorsero in mezzo ad un applauso pieno di urla rotte e di gesti maniaci. La platea era in piedi, uomini e signore, tutta la gente si sporgeva dai palchi, si protendeva dalle gallerie, precipitava quasi dal loggione. Era come un'enorme scommessa a chi troverebbe la percossa più sonora, l'evviva più clamoroso, il grido più entusiasta. E tutto ciò in uno strepito di sommossa, che eccitava perfino le adesioni compassate dei pochi aristocratici, alzando il pigolìo delle signore a schiamazzo di fanciulli. Per tre o quattro volte il telone si squarciò, e la Patti vi apparve nel mezzo come dentro una nuvola; la sua testa non aveva più il tragico pallore, e si chinava sotto la carezza della tempesta con una grazia di airone. Quindi un bisogno più intenso arrestò l'ondata dell'applauso, e ognuno si volse con una specie di precipitazione al vicino: vi furono ancora degli scoppi parziali, degli impeti, che dal loggione attraversavano la platea, e l'ovazione si sommerse nel rumorio delle conversazioni. L'aria era salita a una temperatura tropicale senza che alcuno vi badasse: i visi erano caldi come le parole, gli occhi scintillavano come le osservazioni.

- Bartolomeo, meo, marameo - guaì il violoncellista slanciandosi verso il contrabbasso caduto pesantemente a sedere; e ripetendo con perfetta intonazione le ultime note della Patti nel finale dell'atto: - finalmente se ne sono accorti; hanno applaudito al miracolo! Te lo avevo predetto - insistè con una esplosione di orgoglio dispettoso.

La sua testina di monello ingegnoso e depravato gettava lampi, mentre tutti i suoi moti scattavano con un'energia, che non si sarebbe mai sospettata in quel corpicciattolo. Tutta l'orchestra era in piedi, una ressa di artisti stringeva il direttore disceso dal pulpito.

- Li vedi, Bartolomeo - proruppe accennandoglieli imprudentemente del dito - che ricevono l'imbeccata? Ah! se io fossi quella donnina, piccola come tutti i tesori, che hanno un valore inestimabile; ancora abbastanza bella, perchè la sua voce che è la prima bellezza del mondo sia bene incorniciata dal suo volto, credi tu che vorrei venire al Brunetti? Perchè canta questa donna? Diecimila franchi per sera... e poi? A che cosa le servono diecimila franchi? per comprare un abito, e tornando nuovamente sulla scena guadagnarne altri diecimila. Ciò è assurdo: è la nostra vita miserabile trasportata nelle ricchezze, il nostro mestiere nel genio. Noi possiamo vivere così: abbiamo preferito di tirare un arco piuttosto che una sega, ci pagano quattro franchi per sera la nostra segatura di note, che il pubblico piglia per musica e se la goda: ciò è abbastanza degno di noi e di lui. Io non canterei.

- Perchè? - domandò ingenuamente Bartolomeo, che aveva ascoltato mezzo distratto quel discorso proferito con una precisione piena di sussulti.

- Tu non lo capisci, aspetta - fe' attirando una sedia col piede, e sedendoglisi presso con famigliarità protettrice ed ironica.

- Ti sentiresti capace d'innamorarti della Patti?

Bartolomeo provò una tale percossa a quest'esordio, che il violoncellista gli posò una mano sopra i ginocchi per trattenerlo.

Quindi riprese:

- Ti sono piaciuti i diamanti della Patti? Te lo leggo sulla faccia, li hai ammirati. Ella ha voluto farne pompa anche in campagna, ed era una scempiaggine; nel ballo, ed è stata una provincialata. Eppure il più piccolo di quei diamanti costa forse più di quello, che nè tu nè io guadagneremo mai nella nostra carriera di suonatori. I diamanti bisogna averli, ma nel cassetto, per godere ogni tanto della loro purezza, che supera quella dei fiori, della loro luce, che vince quella del sole. Li porti? Ed allora fossi pure un imperatore, non sei più che un povero borghese, il quale ha bisogno di fare invidia per sentirsi superiore, e fra tutte le invidie sceglie quella dei miserabili, che è la più bassa. Perchè la Patti se li è messi stasera? Per provare al pubblico che i diecimila franchi di ogni sera sono una verità, e alle signore dei palchi, che essa, una cantante, ha più gioie di loro, principesse di nascita o milionarie di posizione. La Patti è una donna: ecco perchè canta. Perchè vendere per diecimila franchi la sua voce e la sua anima? Se io le fossi amico, le direi che un cavallo da corsa, a Londra, in tre minuti vince centomila lire di premio, e due milioni di scommessa, in faccia allo stesso pubblico, al quale essa getta così se medesima, e che non l'ha mai applaudita come Gladiateur o Iroquois. Bada; il Brunetti contiene tremila persone, il Covent Garden poco più: al gran Derby, io ci sono stato, nelle corse meno frequentate vi sono trecentomila persone. Ecco il pubblico nella verità della sua natura grossolana, che non può andare al di là della sensazione, e preferisce quindi la più acuta, quella di una scommessa sopra un cavallo, all'altra di una sorpresa in una scena. Credi tu che questa gente, la quale applaude con tanto fracasso, possa aver compreso l'arte divina, con cui la Patti ha cantato tutto quell'atto? Allora perchè non ha applaudito il primo, diversamente, ma non meno perfetto? Ma il sentimentalismo di questo è più facile del brio di quell'altro. Si distingue una donna, che pianga da una che rida, ma cogliere la differenza fra due lagrime o due sorrisi, ecco l'incomodo per coloro, ai quali manca l'intelligenza penetrante della realtà, o il senso squisito dell'arte. Vedrai che a quest'altro atto la platea scoppierà in grida, e i palchi in singhiozzi; la Patti sarà sublime a buon mercato, poichè il patetico profuso nella scena basta per sè solo a commovere una massa. Ed ella colla Malibran, la prima artista del nostro secolo, al disopra della Sontag e della Galletti; ella, che crea colla voce, come Verdi può creare colla penna, e spesso molto meglio; già abbastanza ricca per vivere come una regina, ed abbastanza gloriosa per rientrare nell'isolamento di tutti i grandi spiriti, viene in quest'ignobile cantina del Brunetti davanti a un pubblico, nove decimi del quale non conoscono la musica, per ottenere diecimila franchi di paga, e diecimila applausi di buona mano. Ciò è ancora più vigliacco che assurdo.

Bartolomeo travolto da quest'eloquenza fece un gesto per resistere.

- Aspetta - gridò l'altro. - Se la sua fosse la beneficenza del genio, che si prodiga in capolavori per decorare la vita sciagurata dell'umanità, e si getta egli stesso in elemosina come un gran signore, il quale non avendo più denaro si offre per un servizio: se ella fosse Dante o Beethôwen, Michelangelo o Shakespeare, bisognerebbe cadere colla fronte per terra, e adorare quest'artista incomparabile, che passa attraverso l'Europa per improvvisare un'ora di gioventù nei cuori più invecchiati, un profumo di primavera nelle anime più inaridite. Ah! sarebbe più bello di Dante, e più grande di Shakespeare: l'arte non ha altra missione, far dimenticare la vita rappresentandola, illuminare la realtà trasfigurandola nel sogno. Ma no, mio caro - proseguì incalorandosi e contraendo la faccia a una fisonomia ringhiosa di scimmia: - diecimila applausi, che valgono ancora molto meno, di gente, che ella non conosce e non vorrebbe conoscere personalmente, che la farebbero forse ridere se non piangere coi loro giudizi.

E si arrestò ansante: il teatro tumultuava sempre. Si girò intorno uno sguardo, quindi rivoltandosi verso Bartolomeo quasi inebetito da quel lungo discorso:

- Non è vero che ho ragione?

- Ma allora come faremmo noi a sentirla?

- Faremmo a meno. Bevi forse del tokai tu? Ho forse una madonna di Raffaello sopra il mio letto, io che non ci credo, e la terrei tanto volentieri? Guarda: se io avessi dei milioni, non come i nostri milionari di Bologna: essi sono miserabili, nessuno ne ha nemmeno un paio di dozzine, e vedi che è un'inezia. Se io fossi milionario anderei subito domattina dalla Patti, e le direi: il vostro impresario vi dà diecimila franchi per sera perchè cantiate, io ve ne do quindicimila, e compro il vostro silenzio. Se me lo permettete, verrò a tenervi compagnia; canterete, se ve ne salta il ticchio, ma se m'accorgo che lo fate per sdebitarvi, ve ne manderò altrettanti ogni mattina per il mio cameriere, e non metterò mai il piede nel vostro appartamento. Ecco che cosa direi a questo genio che si degrada, a questa donna che si prostituisce. Le direi: andate a Roma, a Parigi, vi darò un palazzo grande come una reggia: voi già sareste ricca da comprarlo volendolo; siate una gran signora, gettate alla porta quel Niccolini, che non è mai stato un gran tenore e non può essere più un grande amante; aprite i vostri saloni a tutta l'aristocrazia del pensiero, e componetevi una corte di sovrani come Napoleone I. Voi avete la sua potenza ed il suo genio, giacchè vi trascinate dietro la stessa Europa incatenata al vostro carro: aspettate che il vostro spirito avvampi nella febbre dell'arte, e allora cantate per essi, che potranno comprendervi. Aspettate che Victor Hugo, il vecchio sublime, venga qualche sera a riposarsi nel vostro salotto, e ravvivatelo col canto: egli sarà l'idea e voi sarete la parola, egli il ritmo e voi la modulazione: aspettate che qualche grande ambizioso vinto vi domandi un'ora di calma, e allora cantate come voi sola potete cantare. Sarete la prima donna, e la prima dama del nostro secolo. Ma non mischiate mai danaro nella vostra arte, siate come Dante e come Shakespeare, come Beethôwen e Michelangelo: lasciate agl'istrioni la plebe dei teatri, che vuole divertirsi perchè fatica, e giudicare perchè paga. Il suo denaro eccellente per pagare delle scarpe o saldare dei pranzi non può valutare la vostra anima, essere il prezzo della vostra voce. I capolavori sono fatalmente gratuiti, anche quando non sono pubblici. Forse ella è donna, e non mi comprenderebbe, e allora le getterei un milione in faccia, proprio come nel finale di quest'atto, e le direi colla mia voce più insolente: giacchè la sordidezza della vostra anima è pari alla purezza della vostra voce, tenetevi il pubblico e Niccolini, fatevi pagare tutte le sere come le coriste; ma, per quanto gl'impresari vi paghino bene, non raggiungerete mai il prezzo di un cavallo da corsa, e sarete sempre meno stimabile; il cavallo corre per guadagnare la bandiera, mentre voi cantate per intascare il premio.

In quel momento il direttore risalse sulla scranna.

- Aspetta - gridò il violoncellista vedendo Bartolomeo, che si alzava senza rispondere: - sai che cosa è la Patti?

- Sei matto, tu!

- Infelice! - egli rispose compiangendolo con un gesto comico di disperazione - tu non mi comprenderai, e la mia definizione della Patti sarà la più bella di quante ne daranno i giornali.

- La Patti è...

Fortunatamente la bacchetta del direttore percosse la lastra tagliandogli netta la parola; ma Bartolomeo, che l'aveva intesa, alzò vivamente l'arco per darglielo sulla testa. Il violoncellista fu presto a balzare indietro, e sempre ridendo tornò alla propria sedia. Bartolomeo guardava già al sipario; la preoccupazione del suo spirito si era fatta grave come una malinconia. Appoggiato al grosso manico del contrabbasso arricciato e borchiato come un pastorale, la mano sulle chiavi e la testa sulla mano, aspettava che il telone si squarciasse nell'atteggiamento vanitoso di un concertista, che attende il proprio pezzo. La sua alta statura, che lo faceva quasi dominare tutta l'orchestra, rendeva anche più sensibile il contrasto della posa romantica colla sua fisonomia bonaria di grande mangiatore. Il violoncellista, che non lo perdeva d'occhio, se ne accorse, e quando il sipario si scisse, e la Patti apparve in fondo all'alcova, sdraiata sul lettino, vestita di bianco, alle ultime note del celebre preludio celando rapidamente la testa dietro il violoncello:

- Meo! - gridò.

Egli si volse, e l'altro gli rise in faccia con tale escandescenza, che raccapricciando di essere penetrato, Bartolomeo impallidì.

A rovescio di Dumas, che descrive la miseria di Margherita in mezzo al magnifico appartamento sequestrato dai creditori, Verdi ha immaginato una modesta cameretta, come se uscendo da quel ballo fatale, Violetta avesse abbandonato il barone e fosse ricaduta nella miseria. Ma la musica non avrebbe potuto raccontare tutti i dolorosi particolari della Signora delle Camelie, analizzare le ultime lacerazioni della realtà nella trama già troppo logora dei suoi ultimi giorni. In questo la musica, linguaggio eccezionale, rimane troppo al disotto dal linguaggio ordinario, pel quale un'esistenza può passare intera. La piccola camera aveva le pareti giallognole, una toeletta dozzinale in un canto, una specie di alcova in fondo, con uno straccio di cortina bianca, sotto la quale riposava una forma ancor più bianca. Era la Patti. La scena indicava il mattino, e pareva notte. Una miseria mal dissimulata dalla decenza faceva sentire un'aria fredda nella camera, che il respiro troppo tenue dell'inferma, e il sonno troppo lieve dell'infermiera non bastavano ad animare. La camera vuota pareva troppo grande. Il caminetto di carta non aveva nè fuoco nè legna: era in sulla fine di carnevale, l'aria di Parigi all'alba pungeva senza dubbio. Sul tavolo da notte una bottiglia d'acqua, e due o tre boccette luccicavano alla fiamma del lumino riparato da un cappello verde. Violetta si destò per chiedere un sorso d'acqua, ma nell'accostare le labbra al bicchiere nascose la faccia contro il grembo dell'Annina. Per un'ultima civetteria di grande artista la Patti riservava l'effetto del proprio volto per quando scenderebbe dal letto. Adesso non si discerneva che una cuffietta bianca, dalla quale sfuggivano sull'origliere alcune ciocche brune: il resto era confuso sulla coperta. Poi il medico arrivò mattiniero secondo il solito, e Violetta volle alzarsi.

Allora un raccapriccio gelato corse per tutto il pubblico. La tisi lenta, che la divorava da qualche anno, non le aveva lasciato più che la pelle cenerognola e poche ossa, fortunatamente nascoste dal vestito. Ma i suoi movimenti erano così rotti, che sembrava di intenderle scricchiolare ad ogni istante. Il suo bel viso da uccello di rapina, a forza di assottigliarsi, era rientrato nel profilo tagliente del naso, mentre gli occhi le si erano sprofondati nell'orbita, e il loro cerchio turchino era disceso giù nello scavo delle guancie. Ma la bocca livida aveva ancora i denti bianchi come nei giorni del suo bel sorriso. Una piccola cuffia da notte, di una semplicità molto povera, tratteneva il disordine dei suoi magnifici capelli neri, e le si annodava sotto il collo con due lunghe cordelle cadenti sul seno. Ella si appressava, sorreggendosi sulla spalla del medico e sul braccio di Annina con uno sforzo così faticoso, che le traeva ad ogni passo dal petto uno scoppio di tosse. Nulla restava più della Violetta, che Parigi aveva ricevuto un mattino dalle mani della provincia, fresca come un pomo, per gettarla nella terribile operosità delle proprie cucine, e trarla frutto candito dall'aspetto malsano e il sapore composito. Tutta quella decorazione, abbagliante a forza di essere ricca, che aveva fatto di Violetta una delle tante fantasime del lusso, una figura volgare e straordinaria appunto come una decorazione improvvisata, nella quale non si erano risparmiati nè danari nè uomini; la Violetta, che passava fra le duchesse del bosco di Boulogne come una duchessa di un'altra aristocrazia, che era una curiosità per tutti gli uomini ed una novità per tutti i luoghi; la Violetta, che una sera, d'improvviso, era saltata a piè pari dal proprio trono vendereccio per infilare il braccio di Alfredo, e fuggire con lui in campagna a respirare l'aroma della terra; la Violetta dell'ultimo ballo, spettro regale, che ricompariva nella sala del trono per ricevere un insulto plebeo da un suddito pazzo di amore: tutto era sparito senza traccia e senza speranza. Solo i capelli, ricciuti e neri come una volta, gettavano ancora sotto il trapunto della cuffietta qualche ilare riflesso.

Tutto le era stato egualmente fatale, il vizio come la virtù.

Poi, sedendosi, trovò ancora un gesto della passata eleganza, e lasciando la mano, bella tuttavia, sulla spalla del medico, lo ringraziò con uno straziante sorriso. E cantò.

La musica delle sue parole sembrava battuta sul ritmo affaticato del suo cuore, mentre la sua voce, fattasi più pura nello sfacelo di tutto il corpo, aveva l'inesprimibile limpidezza del pensiero nei moribondi. Si sentiva morire. Invano il medico colla pietà dozzinale del mestiere le diceva di confidare nella convalescenza vicina, mischiando le proprie frasi fredde tra le parole intenerite di Violetta. Poi l'ultima speranza, la sublime illusione di ogni martire, che aspetta di veder squarciarsi il cielo, ammalata anch'essa di tisi, le si svegliò in cuore. Da molti giorni Violetta aspettava una lettera di Alfredo. In quella rassegnazione d'agonia ella non domandava più che di vederla per inebriarsi l'estrema volta d'orgoglio, e concedergli il perdono del martirio. Sempre donna, voleva Alfredo ai piedi per sentirlo rabbrividire al suo aspetto di agonizzante, egli che le aveva affrettato la morte, e, mentre singhiozzerebbe, adagiargli il capo sulla spalla e spirargli l'anima nel petto. Era l'ultima decorazione della sua vita, il gran finale del suo ultimo atto. Quindi uscita l'Annina, si trasse di seno la lettera del padre, conciso rescritto di grazia, e la rilesse forse per la centesima volta. Dopo essersi battuto col barone ed averlo ferito, Alfredo era scappato all'estero per stordirsi; ma il padre impaurito del suo cordoglio ostinato, gli aveva scritto rivelandogli finalmente il secreto: Alfredo era già forse in viaggio, ed affrettava col cuore febbricitante d'impazienza l'impeto del treno, che lo portava. Ella lo vedeva laggiù, in fondo alla Francia, cacciare la testa dagli sportelli, guardando verso Parigi, e ritirarla con atto di scoraggiamento. Allora una eguale paura la sopraffaceva, e, piegando il volto sul seno, ripeteva a bassa voce colla parola di tutti gl'infelici, che la vita uccide e la morte non disillude: è tardi! Ma l'orgasmo di quell'attesa le si fece improvvisamente così vivo, che dovette levarsi. Un raccapriccio gelato le passò sulla faccia, travedendosi nello specchio: vi si appressò. Una boccetta azzurra, dal collo lungo, vi esalava ancora il profumo favorito dei suoi fazzoletti, sui quali aveva forse tante volte lasciata la bava sanguigna dei primi scoppi di tosse. Ella sorrise, poi chinandosi sulla lastra sino quasi a toccarla colla fronte, parve voler esaminare attentamente la povera sembianza, che la guardava dal cristallo con due grandi occhi di spettro. Una mano le corse involontariamente al riccio, che le usciva dalla cuffia, immutata bellezza della sua gioventù, sul quale avevano scintillato tanti brillanti, e nel quale forse si erano tuffati tanti baci di tante persone. Quindi ridivenne seria obliandosi per qualche minuto nella propria apparizione. A che pensava? Quali ricordi le tornavano alla memoria dai giorni lontani della vita, dal mattino campestre o dal meriggio parigino, e, migrando lontano come uccelli passeggeri, quale strido le gettavano dall'ultima curva dell'orizzonte? Forse il loro volo era così denso, che la loro ombra le imbruniva il volto: lo abbassò, e sempre barcollando tornò ad aggrapparsi alla poltrona. Vi sedette.

Allora l'ultima speranza, che le agonizzava in cuore, si rizzò per dare uno sguardo d'addio al mondo. Era un canto sommesso come una preghiera mormorata ai piedi di un altare, sotto la volta scura di una chiesa, che le colava insensibilmente dalle labbra, mentre l'occhio le strisciava sullo smorto paesaggio della vita. Le ultime foglie gialle erano già cadute sul terreno, tutte le mandre avevano riparato alle stalle, il vento passava in silenzio per la campagna brulla, il sole si spegneva a poco a poco come una lampada funerea. Ma ella non rabbrividiva. La sua canzone solitaria si perdeva nell'aria come l'ultimo fumo di una ruina. La testa abbandonata sul cuscino, che le rammorbidiva la spalliera della poltrona, le mani incrociate sul grembo nell'attitudine dei morti, l'occhio immobile come vetro, cantava lentamente. Quella cuffia da nonna dava un'altra malinconia alla sua nenia, una inconsapevolezza di vecchiaia, nella quale il linguaggio non è più che un'eco. Finì, poi riprese, cullata dalla sua monotonia, trasportata dal suo murmure verso il silenzio del sepolcro. Che cosa diceva quel canto? Nessuno lo distingueva bene, ma tutti capivano ed impallidivano al barcollamento di quella testa vicina ad addormentarsi nell'ultimo sonno, e che affondata nel cuscino sembrava dentro una culla. Tutto il genio infermo di Verdi mormorava in questa ultima romanza del dramma più accarezzato dal suo cuore di artista. Poi un singhiozzo, che era un insulto di tosse, la interruppe. Il pubblico rattenuto sino allora dal rispetto della morte, si scatenò in un applauso furente mentre il baccanale del bue grasso passava sotto le finestre dell'inferma con strepito avvinazzato. Quindi Violetta, ridivenendo nuovamente la Patti, dovette ripetere la romanza.

Naturalmente la ripetizione fu ancora più acclamata, ma la Patti si scompose talmente alla fine, che se la cameriera avesse tardato a rientrare colla grande notizia di Alfredo, forse non avrebbe saputo ricoricarsi moribondamente sulla poltrona. Allora la Violetta d'altra volta riapparve entro un baleno acciecante di vita. Aveva già compreso; ansava, cogli occhi in fiamme, le mani brancicanti, sentendolo salire per le scale, mentre Annina non si era ancora spiegata. Vedeva, udiva, poi l'anelito la soffocava, e le forze stavano per abbandonarla, quando Alfredo comparì sulla porta, ed ella gli si precipitò nelle braccia con un urlo straziante di demenza. Perchè mai Alfredo era sempre Niccolini, cogli stessi stivaloni e il medesimo cappello piumato? Perchè Verdi, obliando tutto il proprio ingegno, ha scritto il dialogo dei due amanti con quella volgare stampiglia di frasi, sciupando una scena, che sarebbe stata sublime in mano a qualunque altro: e stretto della necessità di una bella romanza è andata a cercarla nell'ultimo atto del Trovatore? Perchè Verdi è così spesso un altro, che scrive della musica da capobanda, senza testa e senza cuore? Perchè quando si sa mettere nella bocca di Violetta quell'ultima frase, mandando l'Annina per il medico, nella quale si sente dissolversi tutto il suo cuore, e che la Patti cantava come non è possibile immaginarlo senza averla sentita; perchè dunque mungerla in una cadenza, che dovrebbe far trasecolare la stessa Annina, e cader le braccia ad Alfredo per quanto sinceramente innamorato? Perchè nel duetto seguente la disperazione ribelle di Margherita, e la speranza rassegnata di Alfredo si esprimono col medesimo canto, mentre sentimento e parole sono così terribilmente opposti? Perchè questo fatale convenzionalismo, che deforma la bellezza e mutila l'arte: perchè, essendo grandi, non si osa essere liberi, e Verdi viene anch'egli colla turba dei minori e degli uguali a curvare la fronte incoronata sotto certe forche caudine? Perchè mai, quando Wagner le ha rovesciate con un cozzo superbo, i critici le rialzano, e artisti come Verdi vi ripassano?

La Patti era in piedi: un riflesso d'incendio le bruciava il viso illividito, la cuffia gettata indietro con gesto quasi feroce le svelava l'altezza della fronte, solcata da una ruga profonda e battuta da un vento di tempesta. Un momento parve dimenticarsi di Alfredo per ridiscendere come un giudice nella propria vita, e risalirne come un condannato, che montando il patibolo si ferma in faccia al cielo per disonorarlo con una suprema bestemmia d'innocente. L'accompagnamento su tutte le corde basse imitava l'anelito faticoso d'un'ultima collera. Poi fece un passo, e sollevandosi sulle punte dei piedi, le braccia levate, le mani raggrinzite nello sforzo impotente di un graffio, squassando la testa nel delirio di una imprecazione, avventò la prima nota. Era orribile, era vero. Tutta l'orchestra batteva, tutte le dita pizzicavano le corde con inconscia veemenza; Niccolini stava intontito, il pubblico era perduto di terrore. Ma le forze l'abbandonarono, e l'imprecazione le morì in lamento soffocato. Il destino aveva vinto. Perchè dunque le gettava Alfredo fra le braccia, pronto a condurla sposa in Provenza, adesso che ella non aveva più la forza di un bacio? Ah! era vile, era degno di Dio! Invano con faccia di marito bonario, Alfredo ripigliava uno ad uno i suoi accenti, e la pregava di calmarsi per non fare troppo soffrire lui medesimo; chè ella non lo sentiva nemmeno, e seguitava a gemere nel singhiozzo convulso dell'orchestra.

Allora la corda di un contrabbasso vibrò con tale violenza, che la Patti stessa, curva sui lumi della ribalta, fra le braccia di Alfredo, si volse involontariamente. Era Bartolomeo con due grandi lagrimoni per la faccia, che pizzicava rabbiosamente la propria corda: ma l'arco gli cadde di mano a quell'occhiata, rumoreggiando: ella si rivoltò, alcuni suonatori si torsero. Bartolomeo era scoperto, piangeva; però nessuno sorrise, tutti erano commossi. Il maligno violoncellista, estatico, non si avvide fortunatamente di nulla; poi, quando la Patti si abbattè nuovamente sulla poltrona, l'orrore fu tale, che egli stesso balzò in piedi. Il pubblico non potè nemmeno applaudire. Quindi l'ultima scena precipitò. Annina, il padre di Alfredo e il dottore rientrarono insieme. Naturalmente la musica sofferse del loro ingresso, e ricomparvero le frasi di riempitivo, questa volta quasi naturali, per la qualità dei personaggi e la loro posizione drammatica. La stessa volgarità delle parole li rendeva veri. Violetta moriva: l'anelito delle spalle e il cerchio turchino sotto gli occhi le diventavano più visibili, il naso le si profilava sotto la mano della morte. La vittima era adagiata sull'altare attendendo la fiamma del cielo. Una emozione religiosa s'impadronì di tutti i cuori, assiderandoli nella paura dell'invisibile. La fisonomia della morente si illuminò. Il martirio, nobilmente accettato e intrepidamente sofferto, le dava l'ineffabile sembianza dei santi. Cortigiana immolatasi per la felicità d'una vergine sconosciuta, moriva sulla soglia del santuario, come gli antichi romei in vista del Golgota, sul quale era spirato il loro Dio: e allora, pregando per un più santo Romeo, cui il cielo concederebbe di baciare la terra bagnata del sangue divino, gli affidava nell'ultima preghiera l'adempimento del proprio voto mortale. La peccatrice perdonata, non era degna di morire nel tempio di Dio. Un'altra vergine sconosciuta, forse romita di qualche povera casetta, doveva ricevere dalle mani di un sacerdote il cuore di Alfredo. Ella solamente doveva essere madre, e piangendo sul capo dei figli insegnar loro la virtù del dolore. Violetta no; il suo labbro non avrebbe potuto baciare, senza profanarle, quelle teste innocenti, il suo nome sarebbe sempre stato per loro una condanna d'infamia. Ma in quel momento, purificata dalla morte, coi piedi sulla terra e la fronte nel cielo, non pregava più, ammoniva. China sul suo diletto, porgendogli come reliquia il proprio medaglione, gli ordinava di amare un'altra donna e di procedere come un forte sul cammino della vita. La sua voce non era più umana, la sua musica era più che divina. Era un alito più leggiero di quello d'un morente, e profumato come d'un fiore; una voce, che salendo in alto si attardava in un'eco, aveva la dolcezza diffusa di un murmure e la soavità penetrante di un bacio. Non era più nè voce, nè musica, ma l'anima che si dilatava in una oscillazione di luce; la fiamma, che discesa sull'altare del sacrificio aveva consumato la vittima, e risaliva lentamente verso il cielo. Allora un grido supremo di Alfredo percosse il teatro, grido di spavento e di negazione umana dinanzi a quella visione di paradiso; poi il coro degli altri mormorò bassamente, e tutto tacque. Violetta era morta; ma il suo cadavere respirava ancora. Si alzò, battè gli occhi, brancicò la luce, mandò qualche suono che parve di parole, indi un grido, e si spezzò. Violetta era morta prima.

Allora tutti cacciarono il solito urlo, e il telone si abbassò per sempre sulla Traviata.

Lo spettacolo essendo finito, incominciava il trionfo. L'aria era di fornace, densa ed insoffribile: un'afa torbida s'aggravava su tutti i respiri e tutti gli occhi. Palchi e platea si alzarono: nel loggione il soffio dell'uragano piegò tutte le teste della plebe sul parapetto, e squassò sonoramente tutte le braccia. Fu uno scoppio irresistibile, che salì come un unisono procelloso, mentre la percossa delle mani imitava lo scroscio della grandine, e l'accento dell'applauso femminile vi aggiungeva come un sibilo di rami secchi. Uomini e signore, aristocratici e borghesi, tutti applaudivano col medesimo orgasmo, con una impossibile vanità di far spiccare il proprio applauso. Nelle barcacce gli eleganti erano montati sui sofà e sugli sgabelli, i fiori piovevano; i cartellini a mille colori, coi due versi della lapide collocata a perpetua memoria nell'atrio, svolazzavano con un volo di farfalle intorno alle lumiere: la gente li ghermiva e si sentiva ripetere lo splendido distico dell'impresario poeta:

/* Adele Patti dell'Italia vanto, Qui Felsina beò col divo canto. */

Un vecchio dandy con un piede sul parapetto della barcaccia immaginò di agitare il fazzoletto bianco, e tutti lo imitarono con un urrà, di cui gran parte andava a lui stesso: altri gestivano coi cappelli, gli aggettivi più entusiastici e più audaci esplodevano. La folla fraternizzava, tutti vociavano col vicino incoraggiandosi a battere più violentemente, nessuno accennava ad uscire, i volti s'infiammavano come le teste ad ogni squarciarsi e racchiudersi del telone. La Patti correva sola alla ribalta con passo saltellato di fanciulla, sorridendo, ringraziando con un sorriso di vanità intenerita, ponendosi le mani sul cuore, portandosi una volta le dita sulle labbra. Intorno a lei i mazzetti fioccavano percotendola sulle vesti: ella li raccoglieva, ne inseguiva qualcuno, lo raccattava, lo perdeva sempre sorridendo, con una famigliarità di scherzo, con un sollazzo di ricreazione. E il pubblico andava in visibilio di questo sfarfallare della grande artista, di questo giuoco, nel quale egli era il leone ed ella la cagnuola. Poi l'entusiasmo vero lo riprendeva, e allora in mezzo a quella compiacenza metà paterna e metà infantile, ritornava popolo, e le si serrava intorno per alzarla sulle proprie voci se non sulle proprie braccia. Il palcoscenico stesso era invaso: molti, i più fortunati, avevano rotto la consegna, e si erano affollati nelle quinte per stringerle la mano fra una chiamata e l'altra: non si pensava più alla presentazione, al decoro dell'etichetta, alla distanza del genio. Quindi nella dimestichezza della ressa erano spuntati addirittura sul palco, in soprabito e cilindro, in giacca, disinvolti come tanti inservienti, dividendo l'ovazione colla diva, applaudendola dietro la testa, urlandole sul volto i loro complimenti forsennati. Ed ella rideva, facendosi sempre più piccola, discendendo al livello di tutti, curvandosi per cogliere l'applauso di tutti. Un momento, sulla soglia d'una quinta, mentre affranta dall'incessante ringraziare riparava nell'interno, si vide un signore, un vecchio notissimo, trattenerla porgendole da bere in un calice d'argento: era una reliquia, il bicchiere consacrato dalle labbra della Malibran. Ella lo prese con nobile gesto d'orgoglio, e bevve. Il pubblico non comprese, ed applaudì anche più strepitosamente. Intanto nessuno si moveva. Il telone si abbassava e si alzava come al vento, ed ella con quell'abito semplice, il volto ripulito dalla fisonomia biaccosa di tisica, arrivava insino alle barcacce, ai lumi della ribalta, si piegava sull'orchestra più rumoreggiante di tutto il resto del teatro, si gettava nella platea e nei palchi a gesti commossi e graziosi. Ma il loggione, troppo alto e troppo lontano per essere veduto, ingelosiva e lanciava urla, che parevano minaccie: ella alzò una volta il capo, e lo chinò con tale espressione di meraviglia sbigottita, che fu per lui il miglior complimento possibile. Il loggione indovinò e ruggì. Allora dalle sue tenebre, fra gli urli degli evviva e dei bis, una voce più forte di tutto lo schiamazzo ridomandò l'ultima romanza: tutti si volsero ed acconsentirono, le domande s'intrecciavano, si rivolevano tutti i pezzi più belli, ostinandosi in quell'impossibilità di averli con una compiacenza demente ed adulatrice. Giammai tempesta di teatro fu più ruinosa, nè folla più fitta e scompigliata. La maggior parte era in piedi sugli scanni, battendo i piedi, percotendo i bastoni, sbatacchiando i coperchi dei sedili per disperazione di non poter fare di più. Ma se il pubblico non si stancava, la Patti era esausta. Il suo passo diventava lento, il suo gesto spossato: la fatica dell'opera e l'emozione di quel turbine, per quanto vi fosse avvezza, la sopraffacevano. Il pubblico lo sentì, e si acquetò quasi d'improvviso. Ella riapparve ancora una volta, un urrà fece tremare la volta del teatro, e un paio di guanti, lanciato da un palchetto, venne a caderle ai piedi. Era l'ultima follia della sera. Ella lo raccolse con un sorriso, lo strepito ondeggiò, il sipario calò per l'ultima volta. Allora le piccole vanità vollero tentare di mettersi in mostra applaudendo ancora, mentre la folla si voltava per uscire: vi furono sforzi feroci, grida isolate e rauche, parve quasi che l'applauso si ragglomerasse, salì, oscillò, e si disciolse inutilmente. Tutti erano stanchi. Quindi la moltitudine cominciò ad occuparsi di se stessa, e un'altra curiosità la distrasse. Così denso ed illuminato, in quell'ondeggiamento di colori e di persone, il teatro era un altro spettacolo.

Mezz'ora dopo in una piccola bottiglieria presso il Brunetti, affollata di gente, un gruppo di suonatori d'orchestra discuteva la Patti. Erano tutti giovani, che avevano preso nel mezzo Bartolomeo come un giocattolo, ma che nel calore della disputa se lo andavano dimenticando. Il buon uomo ascoltava intontito quella diatriba appassionata, nella quale sfolgoreggiavano le nuove teoriche dell'arte. I nomi celebri abbondavano fra una agglomerazione violenta di giudizi e di osservazioni bislacche, di argomenti acuti e di appunti sensati. Naturalmente Bodoni, il violoncellista, col suo entusiasmo a fondo pessimista, dominava la discussione, animandola. In quel momento lottava col primo violino di spalla, un giovane alto e magro dalla fisonomia malaticcia e l'accento freddo. Era il miglior allievo dell'illustre Verardi, una speranza dell'arte, di già celebre per tutta la città. Bartolomeo, contrabbasso dozzinale d'orchestra, guardava con rispetto misto di ammirazione quel ragazzo di vent'anni, che dava dei concerti, e ch'egli credeva destinato ad un immenso avvenire.

- Ah, lo stile! - interrompeva il violoncellista - hai ragione. La Patti lo ha castigato, la sua misura è ineffabile, il suo accento sicuro. D'accordo; bisogna saper disegnare per essere pittore, ma il colore è più che il disegno, e il colore stesso non è che un elemento dell'arte. La vita sola, mio caro, chiamala anima, realismo o idealismo, tutte parole inutili, che spiegano male il secreto; la vita sola è tutta l'arte.

Ma si fermò come sorpreso da una interna contraddizione. Rimase un istante concentrato, indi proruppe quasi stizzosamente:

- Credi tu che la Patti sia un genio? No, perchè allora sarebbe troppo grande. Essere stasera Violetta per diventare domani sera Rosina nel Barbiere, poi Ofelia nell'Amleto, poi Dinorah, poi Margherita nel Faust, poi Amina nella Sonnambula: mio caro, ma allora è un fondere Verdi con Rossini, Rossini con Thomas, Thomas con Meyerbeer, Meyerbeer con Gounod, Gounod con Bellini: e nota che dietro Verdi c'è Dumas, dietro Rossini Beaumarchais, dietro Thomas Shakespeare, dietro Gounod Goethe, dietro Bellini c'è Romani, e quindi non c'è nessuno. Sarebbe troppo, ed è impossibile. La sua piccola testa dovrebbe contenere tutta la sostanza di quei cervelli creatori, se la magìa del canto le venisse da coscienza di ingegno drammatico. Ella non ne sa niente.

- Che! - esclamarono tutti in coro.

- Silenzio! Non m'interrompete - gridò con gesto vivacissimo, levandosi in piedi e cacciandosi più innanzi coi gomiti fra i bicchieri - . Credi tu che Salvini sia arrivato al fondo dell'Amleto, egli che lo fa come nessuno al mondo lo ha mai fatto? O Modena, il suo sublime maestro, che declamando Dante spingeva l'impudenza del proprio genio fino a fingersi Dante medesimo nell'atto d'improvvisare quei versi, come se Dante li improvvisasse, e si arrestava correggendoli: credi tu che Modena abbia sorpreso il processo del genio dantesco? Parla con Salvini di Shakespeare, e sentirai che genere di analisi: leggi ciò che Modena ha scritto su Dante, se vuoi comprendermi, e comprenderai che nessuno dei due artisti ha capito i due poeti. Eppure li rendono, e forse nè Dante, nè Shakespeare, assistendo alle loro recite, li avrebbero rinnegati. Perchè? Mistero. Cantanti, comici, suonatori, non comprendono mai quello che fanno; qualche volta lo sentono e nullameno lo rendono male; più spesso non lo sentono, e lo rendono benissimo. Quando la Patti fugge singhiozzando fra le quinte, la prima cosa, che le presentano, è un bicchiere di acqua o di vino per risciacquarsi la bocca; ecco per la sincerità della sua emozione drammatica. È la voce, il gesto, la fisonomia, è un arcano inesplicabile, che crea questi artisti, i quali muoiono senza provare quasi mai nessuna delle emozioni o delle idee, che destano negli uomini d'ingegno. La Patti possiede questo segreto: la sua voce ha le flessioni di tutti i sentimenti, le gradazioni di tutte le espressioni, lì, pronte al minimo cenno, sopra qualunque parola. Rossini si vantava di poter mettere in musica anche la lista del bucato, e ci sarebbe riuscito; la Patti, se vuole, ti farà piangere con uno stornello da osteria e col più sciocco. Rossini è un genio intellettuale, la Patti è un genio fisico. Qui sta la differenza.

- Come si accordano allora?

- Ecco ancora il mistero! Come stanno assieme anima e corpo? eppure ci stanno. Tu sei un grande suonatore: lasciamelo dire - ripetè ad un gesto del violinista: - tu suoni Beethôwen. Ebbene, giacchè dovresti secondo il tuo sistema averlo compreso, ti sentiresti di tradurre nel linguaggio comune le idee, che egli ha espresso col linguaggio musicale? Boito, e vedi che ha dell'ingegno, si è provato di scrivere la poesia di alcune fra le romanze senza parole di Mendelsonn, e ha dovuto smettere, poichè si accorgeva di diventare ridicolo. E tu vuoi che la Patti, afferrando il significato morale delle due Margherite, quella di Dumas e quella di Goethe, senta egualmente la diversità di questi due amori, ella che nell'amore è arrivata fino a Niccolini, e si è fermata? Eccolo lì il tuo genio femminile colla sua gamma di mondi e la sua scala semitonata di personaggi, che vanno dalla servetta alla dama, dalla civettuola alla martire, passando attraverso l'imperatrice e l'eroina: il tuo genio, che, identico a se stesso in ogni secolo e in ogni clima, rivivrebbe in tutti i temperamenti: eccolo lì, in adorazione, davanti alla testa grossa di Niccolini, il quale, credo, si tinga i capelli, e dovrebbe tingersi la voce per farla parere più giovane; eccolo lì, che viaggia l'Europa per fare quattrini, e si mette i diamanti regalati come i galloni della propria livrea di cantante. Questo genio - seguitava con una specie di rabbia - il quale in fondo non è che l'eco delle idee altrui, e non ha più coscienza di un'eco; questo miracolo, che appassiona tutto un mondo e me per il primo; quest'artista, che adoro e che disprezzo, che ha aspettato, dicono, quarant'anni per innamorarsi di Niccolini, un Alfredo, che ne ha cinquanta, e ch'ella ha nullameno anteposto al marchese proprio marito. Eccolo lì; questo genio femminile, al quale Rossini, il genio intellettuale, disse un giorno colla sua solita profondità: quando si è la Patti, si sposa un principe del sangue o un tenore: cioè, o si ha una grand'anima, e si diventa una gran dama, che non canta più che per amore; o si ha una piccola anima, e si resta una grande artista, che canta per i quattrini e s'innamora sul palcoscenico come le coriste. Naturalmente il tuo genio non capì: ed ecco la tua Patti, marchese di Caux, al Brunetti con Niccolini. Assurdo, demenza, vigliaccheria!

Questa violenta diatriba pronunciata con voce stridula e accompagnata da una bufera di gesti sbaragliò per un momento tutto il coro degli elogi. Bodoni era rimasto in piedi, assaporando sulle faccie ammirate e confuse degli amici il trionfo dei propri paradossi. I suoi occhietti grigi di pollo scintillavano, mentre le dita per un vizio di suonatore gli picchiavano inconsciamente sul marmo del tavolino una suonata inintelligibile. Ma il violinista replicò. Egli era freddo e non gestiva. La sua fisonomia, smorta di ammalato, sarebbe stata quasi inanime senza la vivacità degli occhi, nei quali a quando a quando passava un baleno. Bodoni stava per ribattere, quando un altro lo prevenne.

- Tu già sei sempre dell'avviso contrario - gli disse un clarinetto con accento piccato. Ma Bodoni non gli si volse nemmeno, e seguitò a guardare il violinista.

Questa attenzione lo lusingò.

- Tu parli benissimo, ma sei andato fuori di questione. Appunto perchè la voce della Patti non è perfetta come quella della Frezzolini, e Bartolomeo aveva ragione...

- Niente, niente, non lo dirò mai più - interruppe Bartolomeo con impeto così comico di convinzione, che tutti sorrisero; e l'altro seguitò:

- Appunto per questo avevo voluto insistere sulla purezza del suo stile e sulla perfezione del suo metodo. Se non hai ragione in tutto, ne hai moltissima qui: il segreto dei cantanti sta nella impostatura della voce, nel conoscerne bene il registro, e nel saper formare la nota. Il resto è natura; il timbro, l'accento, la pasta, l'estensione non si acquistano. Per esempio, io preferisco i bassi della Stolz a quelli della Patti: la Galletti ha molte note migliori, ma è un altro temperamento di artista; forse egualmente forte, ma più limitato. Non so se la Patti nell'ultimo atto della Favorita la vincerebbe. La Patti invece è insuperabile, e mi pare che oltrepassi persino le esigenze dell'immaginazione nell'agilità: le sue note si sgranano come perle e balzano come tanti martelli di pianoforte. Quanti anni di studio le costeranno!...

- Peggio per lei - irruì Bodoni. - Guerra all'agilità, abbasso le variazioni. Se Thalberg non fosse morto, io voterei serenamente la sua decapitazione; egli rappresenta la putrefazione nella musica. Le sue variazioni sopra un motivo mi hanno sempre avuto l'aria di vermi sopra una carogna.

- Bene! - fu urlato in coro.

- Non è questo che intendevo - proseguì senza scomporsi il violinista. - Prima di tutto vi è variazione e variazione.

- Cioè gargarismo e gorgheggio, d'accordo - intercettò ancora Bodoni.

- Sia come vuoi; ma quelle del finale del primo atto...

- Ah, non me lo dire! Sì, ecco le variazioni: ciò è giusto, è sublime. Io firmo, io, e non vario per questo. Ma che accento in quegli scatti, che legature di orefice fra quegli sbalzi di tono e in quel rimescolamento di note! Ma questo è vero, questo è ancora canto, e non vocalizzo! Ti ricordi la Donadio nella Sonnambula? E c'è chi la paragona alla Patti! Morte alla Donadio, a questa bella donna, che pare una fattora e deve avere, sono io che te lo assicuro, un'anima più grossa del corpo della Patti. Il suo rondò finale nella Sonnambula, che faceva delirare al Corso, è un affare di cariglione, o, se ti piace meglio, non è più un pezzo della Sonnambula, ma uno squarcio d'esercizio.

- È troppo! - esclamò il violinista rattenendolo con un gesto di pacificazione.

- Sì, ciò che dissi anch'io quella sera; è troppo! - replicò l'implacabile Bodoni con accento di scherno - ma il pubblico allora applaudiva in delirio, e stasera è quasi rimasto freddo ai gorgheggi della Patti. Giustissimo: Berlioz, Beethôwen, Donizetti, che muoiono quasi nella miseria, mentre Marchetti, che ha musicato il Ruy-Blas di Hugo peggio che Garibaldi non abbia scritto il proprio sbarco dei Mille, morirà nelle ricchezze guadagnate.

Lascia stare Garibaldi - disse severamente il clarinetto entrato nella disputa: - tu non sei neanche degno di nominarlo.

- Come tu di averlo avuto generale a Mentana quando sei scappato. Niente: io sono aristocratico. Se i repubblicani arrivassero al potere, forse la loro prima legge sarebbe di abolire la dote dei teatri per distribuire ai poveri i diecimila franchi della Patti. Io che invece sono aristocratico, preferisco la musica ai poveri. Probabilmente per l'onore dell'umanità, la tua repubblica del dovere non sarà mai che una prosa fredda come quella di un processo verbale, la forma più bassa della letteratura, mentre la musica è la cima più alta dell'arte. Se ti dicessero stasera: sta in te, puoi fare la repubblica o avere la Patti? Ebbene, tu sceglieresti la repubblica, infelice clarinetto, e anderesti in piazza con un'altra guardia nazionale a stonare l'inno di Garibaldi, che è brutto. Ricordati, patriota repubblicano, che l'inno austriaco di Haydn è sublime. Se tu fai la repubblica, io ti abbandono Niccolini, che è degno di cantare i vostri inni democratici, e mi tengo la Patti. Bartolomeo, tu sei un uomo onesto: giurami che sei del mio gusto, e che accetterai la Patti piuttostochè la repubblica.

Una risata clamorosa accolse questa diversione su Bartolomeo, che sbattè gli occhi in segno di assenso.

- Pensaci, mio caro Bartolomeo, se vuoi diventare il suo amante, perchè sei vecchio e il tempo stringe. La Patti non è bella come femmina, ma è talmente elegante come donna, che Cremona, il pittore milanese, le ha proposto di farle un ritratto, sedotto dalla intonazione della sua toeletta. T'immagini tu di essere il suo amante, nel suo magnifico appartamento di Parigi, perchè sono sicuro che ne ha uno magnifico, dopo averla veduta in teatro fra il delirio del pubblico, sopra una bufera di desiderii: sapendo che fra un'ora ella ti aspetterebbe in un gabinetto di raso, e che quattromila persone si farebbero tagliare a pezzi per entrarci in vece tua. Ciò è superbo. Ecco la vita, mio povero clarinetto repubblicano: posare i piedi dove gli altri arrivano appena colla fronte, possedere ciò che tutti desiderano, e magari gettarlo. La tua repubblica è una livellazione, una pianura: io pittore preferisco il paesaggio accidentato della montagna, io uomo adoro le cime e vi pianto sempre i miei castelli fantastici. Se fossi come te, mio grande Bartolomeo, l'amante della Patti, vorrei un gabinetto di raso cilestro, mi coricherei sopra un divano colla pancia in aria, e vorrei che ella mi si accovacciasse daccanto sul tappeto come una cagnina. Allora chissà a che cosa si pensa. Ma in mezzo alle tue distrazioni non avere che a dirle: Adelina, accendimi il sigaro, e cantami il finale del Trovatore, la frase più bella di Verdi, la frase più sublime di Eleonora: ed ella, che la canterebbe per me solo, come in teatro e meglio. Tu sai la mia stranezza: io adoro la voce senza accompagnamento di sorta, perchè mi pare che il linguaggio vero sia così. L'Adelina mi canterebbe sul capo come a Manrico, e all'ultima nota, colla sua leggerezza di prima donna, che ha migliorato sul palcoscenico la naturale facilità di cadere, mi si rovescerebbe addosso, gettandomi un bacio dentro la bocca. Così.

E accompagnando il fatto alle parole, si avventò alla faccia di Bartolomeo, che lo aveva ascoltato a bocca aperta, e vi soffiò dentro come sopra una candela.

Bartolomeo, che si era abbandonato alla poesia buffona e voluttuosa di quel sogno, ebbe un tale sussulto e strizzò gli occhi così comicamente che la discussione degenerò in baia, ed egli ne fu la vittima. Allora gli rinfacciarono la commozione all'ultimo atto in quel violento pizzicato, quando piangeva a lacrimoni, guardando morire la Patti. Egli non negava.

- Che! sissignore, ho pianto, ed ella mi ha visto.

- Lo hai dunque fatto apposta - esclamò Bodoni.

- Io! no; mi vergognavo anzi: ma non ho potuto mandarla giù; mi si è serrato il gozzo a quella vocina, con quella cuffia, che la faceva quasi parere più bella.

- La voce?

- No.

- E tu ti sei innamorato!

- No.

- Sì, sì - gridavano in coro.

- Domattina - disse il violinista - io debbo esserle presentato da Verardi, che ella desidera gentilmente di conoscere: glielo dirò.

A queste parole, pronunciate coll'accento più freddo, Bartolomeo ebbe davvero spavento. Il carattere serio del violinista fra tutti quei cervelli scapestrati gl'ispirava una tale stima, che non dubitò nemmeno dello scherzo. Ma Bodoni non gli diede il tempo di rimettersi.

- Io ti osservavo, sai. Tu le hai fatto la corte tutta la sera: negli intervalli, quando ti parlavo, eri distratto, pensavi a lei. Senti, mio povero Bartolomeo. Tu lo sai se ho amato nessun contrabbasso come te: questa passione ti ucciderà. Nel - Gran Dio, morir sì giovane - la Patti si è voltata per vedere quale era il contrabbasso, che accompagnava con gemiti così sdegnosi e profondi le sue ultime grida di disperazione. In quell'occhiata le vostre anime si sono intese, ma una barriera insormontabile dividerà sempre i vostri corpi. Ella è un soprano e tu un basso. La natura e l'arte ti hanno votato all'accompagnamento, per te non vi sono duetti. Tu non dormirai questa notte: domani sera soffrirai come un dannato vedendo il tuo tragico ideale trasformato in una Rosina briosa sino alla sfrontatezza; perchè capirai, che se la Patti dovesse trattarti, avrebbe per te le maniere canzonatorie di Rosina e non la dolcezza mesta di Violetta. Poi la Patti partirà, e tu cosa farai a Bologna? Penserai a lei.

- Senza dubbio - esclamò Bartolomeo.

- Questo pensiero ti ammazzerà, perchè l'impotenza è più micidiale dello stravizio, e il desiderio logora più dell'uso.

- Ma io non sono innamorato.

- Generosa menzogna! Tu vuoi salvare la tua donna dal ridicolo: ma giacchè sei generoso, sarai naturalmente sciagurato. Ella non ti imita, e affronta la caricatura: in questo momento la Patti e Niccolini sono in una camera da letto dell'Hôtel Brun. Tu impallidisci - gridò - mentre tutti invece lo facevano arrossire, guardandolo: infelice, tu vali più di Niccolini, e morirai della sua morte! Avete quasi la stessa età: solamente tu morrai di fame, ed egli precisamente dell'opposto: te l'ho già detto, ma se il desiderio logora più dell'uso, l'uso ha questo di orribile, che logora anche il desiderio.

Queste ultime parole portarono l'ilarità al colmo. Ma il padrone disse di voler chiudere, e il gruppo degli amici dovette alzarsi. I conti della birra e del vino sviarono per un momento l'attenzione, Bartolomeo potè alzarsi, ricevette ancora qualche risata, e, infilandosi il sopratutto, si avvicinò alla porta. Una contestazione minacciava d'insorgere, l'oste piuttosto villano alzava la voce, quando Bartolomeo si ricordò improvvisamente di essere aspettato a casa, si volse, diede un'occhiata e, vedendosi inosservato, se la svignò.

Quando arrivò a casa, Adelaide, che lo attendeva, da due ore, lo accolse malamente. Per un motivo inesplicabile, invece di coricarsi, lo aveva aspettato in cucina, a tavola, con un vecchio mazzo di carte in mano.

- Finalmente! - esclamò con quella collera fredda, che in certuni è il colmo della esasperazione.

Bartolomeo divenne mogio mogio, perchè aveva paura: Adelaide era la sua amante da sei mesi. Si erano conosciuti da lunghi anni in teatro senza parlarsi, poi il caso li aveva messi ad uscio e uscio, e allora avevano stretta relazione, passando alle intimità per finire nell'amore. Ma veramente non si amavano. Adelaide, vedova, aveva maritata l'unica figlia fuori di Bologna, e, rimasta sola, s'ingegnava a levar le macchie dagli abiti, a stirare, per buscarsi la vita; poi la sera, capitando, faceva la corista al Brunetti o la cameriera alle prime donne di prosa e di canto, che vi transitavano. Naturalmente a tutti questi mestieri la sua coscienza si era fatta più larga che pulita. Ella non se ne nascondeva, anzi sui primi del loro incontro aveva affettato una tale insubordinazione beffarda a tutti gli scrupoli, che Bartolomeo, timido anche in quell'età, trovandovi del piccante, si era lasciato accalappiare. Solo, di costumi morigerati, suonando tutte le sere, aveva messo da parte qualche cosa; l'Adelaide l'aveva indovinato. Quindi cercò di attirarselo, e Bartolomeo gliene fornì il pretesto; poichè, costretto a mangiare in trattoria come tutti gli scapoli, aveva finito per rimpiangere la vita di famiglia, il pranzetto quotidiano discusso ogni sera ed allestito ogni mattina, le piccole provviste, le festicciuole, tutte le gioie casalinghe, pigre e squisite malgrado la loro volgarità. Alla trattoria non poteva fare nessuno dei propri comodi, non sbottonarsi il corpetto e il primo bottone, il più alto, dei calzoni, come la natura gl'imponeva sempre a mezzo del pranzo: l'inverno aveva freddo alla testa mezzo calva, ma tenere il cappello mangiando era troppo, la berretta sarebbe stata abbastanza, ma non l'osava per soggezione dei camerieri e degli avventori. Sopra tutto la pipa l'angustiava. Bartolomeo possedeva una enorme testa di moro, in spuma, diventata nera come un moro originale, e nella quale fumava da molti anni in casa per non correre il rischio e l'incomodo di portarla fuori. Il solo astuccio era già un bauletto, la lunghissima cannuccia, a nocciolo d'ambra, e di ciliegio boemo, diceva lui, odorava ancora. Per Bartolomeo questa pipa era quasi tutta la famiglia, perchè il vecchio merlo dal becco giallo, che teneva in cucina, rappresentava l'amicizia. Pranzare modestamente in cucina, massime l'inverno, col merlo che verrebbe a beccare sulla tavola, la pipa, carica come una bomba inoffensiva a fianco, con un immenso paltò spelato, che gli faceva da veste da camera, annusando il profumo dei piatti sopra i fornelli, dando un'occhiata alle casseruole, servendosi e servendo qualcuno, era da lungo tempo il suo ultimo sogno. Secondo lui le serve erano tutte ladre; giovani aprivano la casa agli amanti, vecchie ai figli e ai parenti. Così, ammassando qualche mobile e le stoviglie necessarie a piantar casa, aveva oltrepassato la cinquantina senza sapere neppur egli come: una volta faceva da scrivano in uno studio di notaro, poi aveva smesso, e non faceva più nulla. L'inverno andava al sole nei giardini pubblici, e si fermava coi giardinieri in lunghi cicalecci: al tempo cattivo in qualche caffè a leggere i giornali o giocare la partita a domino, o da qualche amico. Del resto suonava spessissimo, anche di giorno, avendo la clientela di quasi tutti i curati: non vi era festa senza il suo contrabbasso.

Poscia aveva conosciuto l'Adelaide. Una volta doveva essere stata piuttosto bella, adesso era ancora benissimo conservata: aveva le carni vermiglie, i capelli neri, i denti bianchi. Naturalmente le borsine degli occhi si cominciavano a gonfiare, e gli angoli della bocca le si raggrinzivano; ma il suo seno aveva ancora un magnifico turgore, massime per la vita troppo corta e le spalle un po' tozze, che lo facevano stare più alto. Il resto era quasi insignificante, statura comune, naso regolare, fronte egualmente, come nei connotati dei passaporti. Solo, come segno particolare, aveva una lanuggine, oramai barba, lungo le guancie, e due occhietti neri, rotondi, affossati, di una mobilità eccessiva, a volta a volta di una gelida durezza. Adelaide conquistò Bartolomeo in pochi giorni. La prima domenica pranzarono assieme in cucina, la stessa sera Adelaide rimase nella sua camera. Bartolomeo era felice: l'Adelaide, da donna accorta, aveva conservato la propria stanza, che comunicava colla cucina e rispondeva libera sul pianerottolo, per ricevervi qualcuna delle proprie pratiche: vi aveva messo un fornello, e talora vi stirava. Ma siccome qualche soldo lo guadagnava essa pure, sul principio contribuì alle spese domestiche. Fu un incanto, giammai due coniugi avevano vissuto più armonicamente. Bartolomeo ringiovaniva, sebbene si accorgesse di non essere innamorato. Sedotto da quel benessere sensuale, cui l'ordine e l'economia davano quasi un'apparenza di virtù, e soddisfatto nell'egoismo di vecchio celibe, che vorrebbe la famiglia senza i suoi impicci, si abbandonava morbidamente in quella nuova vita del focolare. Avevano comprato un fusto di vino e un mezzino di castagne da cuocere sotto la cenere alla sera. Adelaide, che s'intendeva veramente di cucina, preparava certi pranzetti, ai quali Bartolomeo paragonava con voluttà orgogliosa i pranzi della locanda, cogli umidi riscaldati mille volte e gli arrosti lessati prima nella pentola. Ma, per l'istinto di tutte le felicità e la prudenza naturale ai suoi anni, Bartolomeo non aveva aperto bocca con alcuno; solamente aveva finto di sdegnarsi coll'ultimo oste e di averne trovato un altro, che gli mandava il pranzo a casa. Infatti la colazione colle ova e la Gazzetta dell'Emilia la faceva sempre al solito caffè.

Ma Adelaide lo dominava. A poco a poco gli invadeva tutta la vita a forza di rendergliela comoda e di risparmiargliene le brighe. Gli aveva compiuto il fornimento della casa, aumentata la biancheria, rimesso quasi a nuovo il vecchio letto di noce a due posti, ricoprendolo di un grande baldacchino bianco e decorandolo di una bella madonna a stampa colorata. Ella stessa faceva la spesa, e stabiliva il pranzo: gli fissava l'ora per tornare a casa o per alzarsi, lo mandava sino in giro per qualche commissione, che egli sulle prime accettava con una specie di contentezza galante. Se non che una volta avendo voluto rifiutarsi, ella fu così ragionevole nelle osservazioni e severa nelle parole, che dovette arrendersi con un sentimento di soggezione. Quello fu il primo sintomo del servaggio. Poco tardarono gli altri, insignificanti all'apparenza, ma così frequenti, che si trovò arretato prima di sentirsi nella rete. Un altro giorno gli fece una scena di gelosia. Bartolomeo, che non vi aveva mai pensato, ne ringalluzzì, ma poco dopo si sorprese a pensare sul passato poco scabro di lei, e a domandarsi se alla propria volta dovesse essere geloso. Il problema era difficile, la china molto sdrucciolevole. La loro vita di camerati, alla quale la differenza di sesso aggiungeva un'attrattiva di più, leggiera fino allora, diventerebbe una vita di matrimonio, tanto peggiore quanto era fuori della legge, il giorno che, facendosi geloso, affermasse la propria solidarietà con quella donna. Si accorgeva di non amarla, ma che d'ora innanzi non avrebbe più potuto fare senza di lei. E lì erano rimasti, quando capitò la Patti. Adelaide, che avrebbe voluto servirle da cameriera per buscarsi qualche grossa mancia, non voleva saperne di corista, ma quando si vide rifiutata per la prima volta, diceva lei e non era vero, la sua collera e la sua lingua non conobbero più freno. Bartolomeo, cui i lirismi dei giornali avevano desto il prurito delle negazioni, l'aveva secondata, promettendosi a teatro una cattiva impressione; ma a rovescio di ogni calcolo, sollevato dal più grande entusiasmo, si era nella sincerità della propria grossolana natura dimenticato persino della Adelaide.

Quando entrò nella cucina, e la vide alla tavola colle carte in mano, allibì: la fisonomia dell'Adelaide stanca dal sonno e gonfia dall'ira, non prometteva niente di buono; e, sintomo spaventevole, ella non si era tratta nemmeno il sopratutto. Bartolomeo indovinò, che lo aspettava così da quasi tre ore. Poi le sue frasi a pranzo contro la Patti gli tornarono nella mente, urtandosi coi discorsi entusiastici della bottiglieria. L'Adelaide fu tremenda. Invano per calmarla egli affettava la più grande docilità; la voce di lei si alzava ad ogni parola, stridula e sibilante, come uno scudiscio, sferzandolo, non lasciandogli nemmeno il tempo di offendersi, destandogli una inesprimibile ripugnanza per quella donna, che gli si rivelava in un momento, mentre la sua anima era tutta piena della rivelazione della Patti. Ma colla prudenza di un uomo, che sa compatire una stranezza, e rattenuto da un sentimento delicato, poichè l'Adelaide non era in fondo che sua ospite, e si sarebbe vergognato di cacciarla così su due piedi, si lasciò generosamente opprimere: solamente, essendogli sfuggito un moto di diniego ad una sua laida stupidaggine contro la Patti, ella esclamò furiosamente:

- Ah! anche tu sei innamorato di quel baccalà?! Tutti urlavano stasera: sì! perchè non la vedevano da vicino come noi. Va là, è secca come un uscio, ha tutta la pelle grinza. Se ci aveste guardato al collo, invece di guardarla cantare, ve ne sareste accorti. Ci voleva ben altro che quel vezzo di perle, che ella si sarà guadagnato senza cantare. Oh! - insistette ad un altro suo moto - credi che cantasse anche allora! Sarebbe carino per l'uomo in quel momento di sentirla stonare, perchè la tua Patti stona. L'ho sentita io, non importa che mi dicano di no, perchè le orecchie io le ho buone, più degli altri, e me ne sono accorta. Sì, stona come Niccolini, che è vecchio come te ed è il suo amante: degni uno dell'altro: vivono assieme e guadagnano assieme - aggiunse con un sibilo, che esprimeva più di tutte le frasi di Bodoni.

- Cosa importa se ama Niccolini - disse nobilmente Bartolomeo.

- A me?! e a te?

- Io...

- Mo! innamòrati: è la donna dei vecchi; già alla sua età bisogna essere ragionevoli. Non ho fatto così anch'io? - strillò, guardandolo con una sfacciataggine, che era il colmo dell'ingiuria.

A questo insulto, che lo toccava nella sua sola debolezza, Bartolomeo provò una stretta al cuore.

- Solamente - seguitò, gonfiando il petto e arrovesciando il collo con moto d'orgoglio - la tua Patti pare la carcassa di un ombrello. Pelle e voce, come i rosignuoli; non è vero, tu che la credi tanto brava, la prima donna del mondo?

- Ma non ne parliamo più; a te non è piaciuta, ecco tutto.

- Ti do fastidio?

- Ma no: hai ragione, se la vuoi.

- Se la voglio? tientela la tua ragione; per chi mi pigli? Credi che sia perchè non mi ha voluto nel camerino? Non ci penso nemmeno. La sua cameriera l'ho vista: dicono che è una sarta di Parigi, ma l'ultimo abito dell'ultimo atto non era nemmeno stirato. Fin lì ci arriviamo anche noi, a Bologna, non ci è bisogno d'andare a Parigi per questo. Cosa credono questi forestieri? Poi lei è italiana, e dovrebbe avere più riguardi: invece li ha tutti per Niccolini. È lei, che gli tinge i capelli per ingannare il pubblico; lo vorrà forse vendere. Già quello che si compra si può anche vendere.

Bartolomeo non ne poteva più.

- Ci mettiamo a letto? - borbottò dopo un momento, andando verso il lume sulla tavola.

Ma ella lo fermò con una occhiata. Bartolomeo non l'aveva mai vista così.

- Hai sonno! - quindi si gonfiò ancora, ghermì il lume e con un gesto, che la Patti stessa le avrebbe invidiato, gli si avanzò fin sotto al naso, e gli soffiò in faccia:

- Buona notte! - quindi voltandogli le spalle, invece di andare nella camera, aprì l'uscio della propria stanza, e lo rinchiuse a chiavistello.

Bartolomeo rimase al buio. Non capiva bene. Il furore dell'Adelaide doveva dipendere da altro che l'avere egli fatto troppo tardi quella sera: forse ella non aveva potuto perdonare alla Patti lo sfregio di averla ricusata, e la ovazione del teatro l'aveva esasperata. Egli no invece, amava il merito ed applaudiva volentieri. Ma quella congiura in tutti di dirgli che era innamorato della Patti, cominciava ad impensierirlo seriamente. Se n'erano dunque accorti? Aveva commesso qualche imprudenza, o tra le sue parole, che pure gli sembravano castigate, glien'era sfuggita qualcuna, la quale potesse comprometterlo?

E intanto che questi pensieri gli battevano sul cervello, aveva acceso un altro lume. Attese, origliò. Adelaide non si andava a letto. Allora si arrestò discutendo seco medesimo se dovesse dirle qualche buona parola: ma a mezzo la riflessione si accorse di essere egli dal lato della ragione e di avere ricevuto in compenso un sacco di contumelie. Infine il torto era di Adelaide. Però una voce segreta gli diceva con insistenza sempre maggiore di picchiare al suo uscio. Naturalmente Adelaide doveva aver sofferto dello sfregio, in teatro, dove i pettegolezzi sono così facili e pungenti; bisognava compatirla, le donne sono sempre donne. Tornò ad aspettare: la sua bontà avrebbe voluto, ma il suo coraggio non osava; tentennò, si ammonì, si spinse due o tre volte verso quell'uscio chiuso, che in quel momento rappresentava il più grande ostacolo di tutta la sua vita. Era molto tardi, aveva quasi freddo. L'aspetto del focolare e degli arnesi tenuti con estrema pulizia lo commossero; l'Adelaide era pure una brava donna. Forse le avrebbe dovuto maggiori riguardi in tale critica circostanza, giacchè colle donne non è mai questione che di tatto. In quel momento la sua grossa faccia di contrabbasso esprimeva un imbarazzo pieno di benevolenza, che avrebbe commosso un nemico. Finalmente la bontà del suo cuore trionfò della timidezza del suo carattere, e camminando sulle punte dei piedi, colla circospezione d'uno scolaro, che vuole origliare alla porta del maestro, venne ad incollare l'orecchio alla fessura dell'uscio. Però malgrado tutti gli sforzi di leggerezza lo scricchiolio delle scarpe lo aveva tradito. Un fruscio di abiti usciva dalla stanza. Si sveste! pensò Bartolomeo, e credendo il momento buono, picchiò discretamente alla porta: ma quasi contemporaneamente, come risposta collerica, che non lascia nemmeno esaurirsi la domanda, uno stivaletto lanciato a tutto braccio venne a percuotere proprio dove egli si appoggiava colla fronte.

La sua anima era così disposta alla benignità d'un accomodamento, che fu miracolo se non gli cadde la candela di mano. Si drizzò pallido, e sempre indietreggiando sulle punte dei piedi, tornò alla tavola. Pareva prostrato. Una malinconia improvvisa venne da tutti gli angoli della cucina, nella quale aveva sorriso a tanti pranzetti, e che in quel momento era tornata fredda come prima quando, vivendo solo, non vi accendeva mai il fuoco. Abbassò la testa. L'altro stivaletto gettato collo stesso impeto, invece di battere nella porta, urtò nel canterano e produsse un suono secco: intese il letto scricchiolare sotto il peso di Adelaide, che vi si rannicchiava ferocemente, sentì il suo soffio smorzare la candela, e rimase colla propria in mano guardando. Aveva tuttavia il paltò nelle braccia, il largo cappellone in testa. Sospirò, poi, scuotendo malinconicamente il capo colla rassegnazione della buona gente che crede di disarmare il destino accettandolo, andò verso l'uscio della propria camera, e vi sparì. La cucina restò abbandonata come un campo di battaglia, dal quale ambe le parti si erano ritirate negli accampamenti.

Ma a letto il pensiero gli tornò sulla Patti. Sentiva ancora la sua voce, vedeva ancora la sua gracile e pallida figura muoversi stancamente sul palcoscenico in una penombra mortuaria, con un'aureola di martirio sulla fronte; e, mentre il cuore gli si tornava giovanilmente ad intenerire, la Patti rientrava nella scena sorridendo sotto la grandine degli applausi, disinvolta come una regina, amabile come una fanciulla. Allora tutto il pubblico subiva il prestigio della donna dopo aver provato il fascino dell'artista, e l'onda del desiderio di tutti arrivando al cuore di Bartolomeo lo bagnava entro una spuma mordace. Invano Niccolini, preso per mano la Violetta, veniva ad opporsi all'impeto della marea; la tempesta raddoppiava di violenza, e investendo quel bianco fantasma di donna, lo portava sempre più in alto, come quelle larve di nebbia, che dondolano mollemente in fondo all'orizzonte marino. Bartolomeo pensava alla Patti. Tutti i sarcasmi sguaiati di Bodoni e le infamie dell'Adelaide gli suonavano alle orecchie. Le aveva intese susurrate tutto il giorno, le aveva lette nei giornali velate dalla forma più trasparente dell'indiscrezione, abbigliate colla frase più ipocrita d'un complimento: poi le aveva ascoltate la sera nell'orchestra, le aveva colte nel pubblico, finalmente Bodoni le aveva disciplinate in una teoria paradossale e l'Adelaide denudate nel più cinico impudore. Ma la Patti usciva radiosa da quella bruma d'improperi. Egli non ci credeva. Forse l'amore di Niccolini non era vero, forse era la pietà d'una grand'anima d'artista per questo infelice tenore, vicino a perdere la voce senza essersi acquistato un patrimonio. Fors'anco la Patti lo amava, ma se la ragione intima di questo amore gli sfuggiva, doveva esserci, e degna di una donna, che arrivava col proprio genio all'altezza dei genii più eccelsi. Giammai donna aveva potuto cantare così. La Malibran, egli non l'aveva sentita, e nullameno era sicuro che a quei tempi dovevano contentarsi di poco. E quell'ultimo sogno tratteggiato con causticità così voluttuosa da Bodoni gli fluttuava sul letto, riempiendogli la camera di luce. Essere la Patti o essere il suo amante era troppo anche per un sogno. Essere giovane, perchè la Patti per lui, malgrado ogni verità, non aveva che venticinque anni; essere bella e cantare a quel modo! Nessuna regina aveva un regno più vasto o un popolo più innamorato. Tutti i giornali bruciavano per lei gli incensi più odorosi, la gente si pigiava alle porte del suo albergo, si schiacciava nei suoi teatri; molti avrebbero rubato per comprare un biglietto di loggione, i milionari le gettavano i diamanti come fiori, i sovrani andavano in camerino a baciarle la mano. In nessun paese del mondo vi era una donna come lei. Ma essere il suo amante era ancora più bello. Qui la sua immaginazione si perdeva. Solo, in quel letto a due posti, non pensava più all'Adelaide e non sentiva più la realtà della camera. I suoi desiderii non si formulavano ancora, ma le immagini più bislacche si accendevano e svanivano nel suo cervello come fosforescenze di legno imputridito, che, imitando il bagliore delle gemme, vibravano nella notte incomprensibili sorrisi. In quell'aurora boreale della passione tutti gli oggetti e tutti i colori gli si confondevano; Niccolini e la Patti non erano più che una luce ed un'ombra, un canto ed un accompagnamento, che passandogli per l'anima, se la trascinavano dietro. Egli non sapeva bene se vegliava o sognava.

La mattina si era già scordato di tutto, ma attese invano che l'Adelaide gli portasse il caffè a letto, una delle ultime e più voluttuose abitudini della sua nuova vita. Si alzò avvilito, poi sentendo rumore nella cucina, così come si trovava, in manica di camicia e in ciabatte, finse di aprire sbadatamente la propria porta: nello stesso momento, quasi il suo pensiero fosse stato penetrato, l'uscio dell'altra stanza si rinserrava, e la cucina restava deserta. Il focolare era spento, un fornello acceso. La cocoma del caffè vi gorgogliava spumeggiando. Egli non osò trattenersi, ritornò nella propria stanza, e uscì di casa senza aver visto l'Adelaide. Appena fuori la regolarità delle abitudini lo calmò al punto, che entrando nel caffè aveva già il solito sorriso per i camerieri. A colazione lesse tra gli amici abituali un brillante articolo del Panzacchi sulla Patti, poi rimase solo, rilesse l'articolo, lo confrontò coll'altro della Gazzetta dell'Emilia, andò verso i giardini. A quell'epoca non c'erano ancora i tramways. Vi rimase fin tardi, poi ritornando s'incontrò fortunatamente in Bodoni. Quel giorno era vestito di un paltò incredibile, giallognolo di crema, sul quale la sua piccola testa smorta, senza quella barbetta tosata rabbiosamente alla Enrico IV e macchiata di rossiccio e di castano, sarebbe parsa una cimasa di latte e miele. Ma era serio.

- Vieni a pranzo con me - gli disse a bruciapelo.

A Bartolomeo si allargò il cuore.

Il discorso cadde naturalmente sulla Patti e sugli articoli dei giornali, che Bodoni trovava nauseanti d'imbecillità. In nessuno, nemmeno il tentativo di un'analisi, tutti s'erano tratti d'impaccio rovesciando sul capo dell'artista i superlativi più strani; così chi aveva capito aveva capito.

- Invece - seguitava con accento severo - hanno gratificato Niccolini di complimenti velenosi. Anzi tutto questo amore potrebbe essere una invenzione sciagurata, ma quando pure fosse una realtà, il pubblico non avrebbe a ridirvi. Che importa se una grande artista ama un genio o un idiota, un sovrano o un paltoniere? La Patti non è la Patti, che sulla scena, e allora Niccolini scompare nel proprio personaggio tenorile: fuori essa è libera d'avere, e non può a meno di averli, tutti i gusti della femmina e le incongruenze della donna. Chi deciderà del gusto? L'eccessiva raffinatezza coincide colla brutalità, o se non vi coincide sempre, vi si allea sovente. Il selvaggio e il gastronomo preferiscono le bistecche crude: il facchino non cerca che la carne nelle donne; in Oriente, dove la voluttà fu più profondamente studiata, la carne è rimasta l'unico pregio delle donne. Se la Patti ama Niccolini, forse è nella regola del genio. Le nature volgari trovano facilmente qua e là il proprio ideale; le nature superiori se lo formano nella disperazione d'incontrarlo, e lo incarnano nel primo venuto. Che io getti dunque un mantello di porpora sopra un manichino di pioppo o di amaranto, il mantello solo dà al manichino quel paludamento da re o da regina, sul quale vengo a deporre i miei baci o le mie corone. In questa creazione dell'amore fra creatore e creatura non vi può essere giudice, poichè il giudice vede cogli occhi del corpo, e il creatore con quelli dell'anima. Sai tu perchè i giornali stamane celiavano educatamente su Niccolini? Perchè la folla non tollera superiorità, colle quali non possa avere contatto, e accusando la Patti di amare Niccolini, ha creduto di bollare il suo genio col marchio della natura femminile. Se nella Patti la donna fosse pari all'artista non sarebbe più donna. Ma la folla affermando la gran legge, che non vi siano individui slegati nella serie della vita e il genio non debba essere immune dalle nostre infermità, non sente che l'istinto invidioso del rettile contro il volatile, dell'anitra contro l'aquila.

Bartolomeo, cui la conclusione troppo filosofica del discorso aveva imbarazzato, non ne gustò meno per questo l'assennatezza del principio, e avrebbe quasi voluto rinfacciargli i paradossi della sera innanzi, se il timore di qualche altra scarica non l'avesse rattenuto. Bodoni sembrava malinconico: Bartolomeo glielo disse.

- La Patti mi fa male. È triste, mio caro, avere ventiquattro anni, capir tutto e capire per giunta che non faremo mai nulla. Fra vent'anni io sarò come te. Che cosa ti è accaduto nella vita? nulla. Che cosa mi accadrà? nulla. Tu almeno non capisci; perdonami, mio buon Bartolomeo, questa insolenza che t'invidio: io debbo invece morire di freddo al sole.

Con questi discorsi erano arrivati dinanzi alla locanda, una delle solite, metà osteria e metà albergo; molta gente l'ingombrava. Un cameriere di vecchia conoscenza venne incontro a Bartolomeo e gli fece mille complimenti, domandandogli dove era stato per sei mesi, se ritornava davvero, e scherzando gettava tratto tratto un'allusione galante, arrischiava un gesto confidenziale. Bartolomeo s'impacciava, Bodoni si era già seduto alla tavola col capo fra le mani. La sala rumoreggiava, era un va e vieni di camerieri, un vociare stonato, un cozzar di bicchieri e di piatti: dalla cucina, che si vedeva in fondo alla sala, veniva un odore grasso, uno stridio di frittura, che nauseava il palato; le berrette bianche dei cuochi passavano e ripassavano davanti all'uscio con un volo di colombi, gli ordini dei camerieri in cucina salivano e discendevano sulla gamma più assurda, nella varietà più strampalata di accenti. Bartolomeo si faceva grave, era senza appetito: Bodoni sembrava mangiare per compiacenza. Intorno a loro fioccavano i giudizi e le osservazioni sulla Patti, la esorbitanza del suo prezzo di cantante, nel quale nessuno osava acconsentire.

- Eppure - osservò Bartolomeo - tutta questa gente non avrà mai speso meglio quindici lire. Quante volte le avranno bevute in tanto vino cattivo. In fin dei conti la Patti è unica al mondo.

- Quale voluttà, ma quale sciagura! - mormorò Bodoni. Ad un tratto s'imbrunì.

- Ecco - disse - accennando ai discorsi di quella gente, perchè io avevo ragione d'insultare la Patti per essere venuta al Brunetti; il pubblico sarà sempre al disotto dell'arte, che per una fatalità della creazione gli è destinata. Vedi, mio caro, la gloria, che attira tutti gl'ingegni, è composta di questi discorsi; tutto finisce nel popolo, scienze, arti, industria, commercio, tutto per questo bruto che è senza riconoscenza, perchè è senza intelletto. I grandi uomini vissero sempre miserabili: e che importa al monello, il quale mangia le pesche, se l'albero muoia? Egli non ci pensa o, se pure, non se ne preoccupa, perchè sa che i peschi non finiranno mai. Quattro secoli fa non c'era musica a proprio dire, musica come intendiamo noi, quindi malgrado la ferocia dei costumi la poesia e la pittura erano nella massima voga. Oggi la poesia è rimasta nel sentimento di pochi, la pittura di pochissimi. Invano si fanno le esposizioni e si vende un quadro di Meissonier cinquecentomila lire: ciò prova che il lusso dei ricchi ha ancora bisogno di questa decorazione, ma l'anima del popolo non è più nella pittura. Sai tu che cosa si diceva quattro secoli fa in ogni palazzo e in ogni taverna? Michelangelo sta sbozzando una statua, Raffaello dipinge un quadro, Brunelleschi alza un palazzo, Ghiberti fonde un bronzo; e ognuno s'interessava all'opera, e l'artista povero si sentiva intorno una simpatia, che lo sorreggeva e dalla quale assorbiva la vita necessaria all'opera propria. E quando l'opera era finita, la moltitudine si pigiava alla porta del santuario, bestemmiando, osannando, perchè quella era l'opera di tutti eseguita da un solo. Oggi non è più così. Lo sviluppo dell'industria e delle macchine ha quasi ucciso l'uomo nell'operaio; i miracoli della meccanica più grossolani e di una utilità più immediata bastano alla sua fantasia, l'arte si è isolata nella classe dei ricchi. Qui la musica ha battuto la pittura. Siccome l'arte non giova che a interrompere la serie delle sensazioni reali con un'altra serie di sensazioni ideali, la musica è più facile ed efficace della pittura. La musica dell'orecchio vinse quella dell'occhio, giacchè in fondo, si tratta di due specie e di un genere solo. Anzitutto un quadro non si traduce, e sebbene al mondo si facciano molte copie, esse rispondono meno a un vero bisogno di pittura che a una moda decorativa: la musica invece la traduci, la trascrivi e, quello che è infinitamente meglio, la suoni da te solo, forse malissimo, ma ancora abbastanza bene per appagare il tuo sentimento di mezz'ora. La musica della pittura ci arriva attraverso un'immagine immutabile e che non possiamo quindi consultare in tutti i nostri bisogni: l'altra musica invece non ha immagini, parla e noi inventiamo il personaggio, magari noi stessi o un altro, poco monta; ride e noi inventiamo la bocca, piange e noi inventiamo gli occhi, esulta e la sua gioia serve ugualmente alla gioia di tutti, sospira e il suo sospiro solleva egualmente tutti i dolori. Alteri il tempo d'un motivo e ne fai così il linguaggio di qualunque situazione; e mentre il quadro non è appeso che alla parete del milionario e devi andare a cercarvelo, la romanza ti segue dappertutto entro il cervello, la riprendi e l'abbandoni dove vuoi. Ricco e povero ne hanno quasi un numero uguale, una medesima ricchezza, e perfino l'infelice, cui la natura discordò l'organo vocale, può ripeterle e gustarle nel pensiero. Sai tu perchè gli appartamenti sono oggi meno decorati e meno artisticamente? Perchè in ogni appartamento vi è un pianoforte: il pianoforte ha cacciato il quadro. Metti una statua in una soffitta e ne avrai una cattiva impressione, mettivi un violino e potrai dimenticarti presto di essere in una soffitta. Vedi: l'architettura è morta, la scultura sta morendo, la pittura per salvarsi è diventata letteratura. Al secolo d'oro il soggetto del quadro era un pretesto per disegnare un bel corpo o stendere un magnifico accordo di colori; adesso che il sentimento della bellezza e il senso del colore si è perduto anche nella classe dei ricchi, che comprano i quadri, la pittura è diventata romanzo. I compratori le domandano dei fatti e non dei colori, delle idee e non delle forme: quindi l'epopea e la tragedia vi signoreggiano, sotto di esse imperversa il dramma, più basso sghignazza la commedia, in fondo smorfeggia l'idillio, dal cui incesto colla realtà è nata la pittura di genere, il genere più odioso fra tutti i generi esistenti e possibili. Ma nella musica stessa comincia il decadimento, e la sua diffusione n'è causa; la diffusione, che degrada anche le religioni, perchè così si arriva nel popolo. Il concime fa nascere il fiore, ma se il fiore lo tocca colle foglie avvizzisce. Ti vuoi persuadere della nullità del popolo in arte, una verità che la scempiaggine del giornalismo liberale è quasi riuscita a far passare per una menzogna? Ricordati tutte le canzoni popolari delle nostre due rivoluzioni '48 e '59 e giudica se il maggior avvenimento accadutoci da millecinquecento anni, la resurrezione della terza Italia ottenuta con tanti miracoli di ingegno e di sangue, non ha inspirato che l'inno di Garibaldi e «l'Armata se ne va». Il popolo, mio caro, non è che plebe, e la plebe è un bruto. I Romani, che l'avevano conosciuta, invece di buttarle come noi la sovranità nazionale o la infallibilità politica, le davano «panem et circenses», cioè pane e sangue. Ma in questo caso il pane era sprecato.

E Bodoni stanco egli stesso dalla lunga dissertazione non disse altro. Bartolomeo, che non ne aveva capito quasi nulla, invece di domandarne spiegazioni, sedotto dai discorsi dell'altra gente ritornò sulla Patti, e l'altro, che per caso si trovava ad essere veramente serio quel giorno, cominciò su lei un'analisi fine e profonda. I più vicini si misero ad ascoltare, ed allora alzò involontariamente la voce, crebbe di vena, trovò una vivacità d'appendicista, per uno di quei successi di trattoria, ai quali si resiste così difficilmente e che ottenuti umiliano tanto. Fortunatamente l'ora del teatro si avvicinava, pagarono il conto, Bartolomeo trovò che era troppo caro avendo mangiato così male, poi fu tutto contento di accompagnare Bodoni a casa per non passare dalla propria.

Il teatro fu egualmente affollato, la Patti una Rosina inimitabile, una cantante anche più perfetta.

Siccome la maggior parte del pubblico l'aveva già veduta nelle parti di Violetta, la sua trasformazione parve ed era veramente un miracolo; l'ovazione salì di scena in scena, piovvero i fiori, tutti i complimenti che una folla in delirio può tributare a un idolo. Bartolomeo piangeva, ma erano lagrime d'allegria. A rovescio delle predizioni di Bodoni, la malizia di Rosina gli riusciva più grata del sentimentalismo di Margherita. Niccolini fu un Lindoro come era stato un Alfredo, Moriami invece il più bel barbiere di Siviglia. Alle emozioni terribili della sera innanzi successero le emozioni gaie, il solletico sensuale della commedia più bella, forse l'unica che si conosca nell'arte. La Patti sfoggiò tutte le risorse del mestiere, fu un organetto come sua sorella Carlotta, un usignolo, una capinera, un'equilibrista, che si dondolava sopra il filo d'una nota, e l'attenuava all'infinito senza romperla. La sera innanzi aveva trionfato lo stile, quella sera signoreggiava il metodo, prima il sublime dell'arte nel canto, poi il sublime della natura nella voce.

Durante lo spettacolo Bartolomeo, che si era dimenticato di essere sotto gli occhi dell'Adelaide, fu di una ilarità clamorosa, cercando inutilmente di ottenere una seconda occhiata dalla Patti, mentre svolazzava col suo gramurrino di farfalla sui lumi della ribalta. Poi, quando il telone si abbassò all'ultimo atto, egli fu dei primi ad applaudire cacciando addirittura le mani sul palcoscenico. Il suo faccione imporporato dallo sforzo e la sua statura gli avrebbero in tutt'altra occasione attirato gli occhi del pubblico, ma l'emozione dell'ultimo addio alla grande artista e la confusione di tutta l'orchestra non lo permise. La Patti tornò chi sa quante volte a salutare, duecento mani parevano volerle brancicare la veste; ed ella tornò ancora, ricevette sulla fronte tutto l'anelito di quel saluto, aprì i raggi di tutte quelle occhiate, strisciò come un sogno su tutte quelle fantasie, battè come un palpito in tutti quei cuori, si chinò, si rizzò nel suo sottanino di libellula, coi suoi occhi d'Andalusa, col suo corpo d'uccellino, sopra i suoi stinchi di mosca, col suo prestigio di artista, colla sua magìa di cantante, balenò, oscillò, disparve.

Il telone la celava forse per sempre agli occhi dei bolognesi.

Quella sera i suonatori si dispersero col pubblico, e Bartolomeo rimase solo. Attese mezz'ora nella bottiglieria, poi dovette andarsi a casa. La casa gli parve deserta, sulla tavola non trovò la candela coi zolfini, nella camera dell'Adelaide non si udiva rumore. Nullameno era rientrata. Tutto il suo buon umore sparì: la cucina abbandonata aveva un aspetto desolante, non vi erano legne nell'angolo, mancava l'acqua nei secchi. Perse qualche minuto in questa analisi, poi vergognandosi di potere essere sospettato dall'altra stanza, prese l'ordinaria risoluzione contro la tristezza, e si mise a letto.

Il pensiero della Patti lo riassalì nuovamente. Una a una si ricordò le moine del suo gesto, le carezze della sua voce, le sue malizie procaci di Rosina nelle scene col vecchio o negli incontri con Lindoro, e un fremito sottile gli passava fra la pelle e le lenzuola, dove aveva dormito l'Adelaide. Bartolomeo avendo trovato il letto disfatto, come al mattino nell'uscire di casa, si era coricato dall'altro lato. Quindi le memorie di tutta la sua vita povera e modesta s'illuminarono come ai bagliori di un gran sogno, nel quale era solo colla Patti. Finalmente poteva alla propria volta essere come tutti i principi e farle la corte. Per loro tutte le porte erano sempre aperte, avevano dei brillanti da offrire, dei grossi titoli, e quella disinvoltura da gran signori, la sola, che anche vincendo l'indomani una cinquina al lotto, egli non potrebbe mai sperare. Per lui non c'era nulla. Povero suonatore di fila, accettato raramente al Comunale, vivendo delle proprie economie, non aveva che il diritto di sognare; miserabile diritto, che aumentava la forza del desiderio e il rammarico della impotenza. Nullameno si cacciava voluttuosamente in quel sogno. La Patti gli pareva la donnina più adorabile, per lui che aveva il gusto delle donnine da tenere sulle ginocchia. Steso sul letto, la pancia in aria, la testa ravvoltolata in un vecchio folardo, guardava con due grandi occhi spalancati nella tenebra la magìa della propria visione. Aveva caldo, la faccia gli scottava. Colle mani brancicanti sotto le coperte, e un prurito per tutte le vene, si veniva accarezzando il ventre come nell'intima e indefinibile voluttà di premerlo sopra una donna e di sentirla schiacciarvisi sotto. Se la Patti fosse stata seco in quel punto l'avrebbe forse soffocata per farle sentire tutta la propria forza. Poi chiudeva gli occhi, il sogno cresceva. La scena arrivava al punto, nel quale le commedie fanno calare il telone e i romanzi di una volta mettevano i puntini, ma sul quale si ostinava come al punto migliore agitando la testa sul cuscino. E un riso di contentezza gli restava sulle labbra di essere così felice, senza che il pubblico potesse nemmeno sospettarlo, con quella donna, difesa dalla etichetta di tutte le aristocrazie, e che era allora nel suo letto, di Bartolomeo, il quale la chiamava semplicemente Adelina, un nomignolo più breve di Adelaide ed infinitamente più vezzoso.

D'un tratto si sorprese a ripeterlo con voce alta; allora si scosse e si volse sopra un fianco.

Il sogno si alterò, si confuse, finchè svanì in un altro e si sciolse.

Ma la mattina sentì più acutamente la necessità di una spiegazione con Adelaide.

Sebbene l'avesse già osservato la sera nel coricarsi, il disordine della camera gli fece male; il portacatino era ancora presso la finestra pieno di acqua sudicia, la tovaglia gettata sul comò, il letto disfatto anche dall'altra parte. Una tale confusione nella propria vita e nelle proprie cose non se la ricordava. Fece la grande risoluzione. Così come si trovava, udendo l'Adelaide in cucina, uscì di camera. Non aveva che i calzoni con le tracolle e i piedi dentro due ciabatte tagliate da lui stesso colle forbici in due stivaletti vecchi. L'Adelaide accennò di ritirarsi, ma egli la trattenne:

- Adelaide!

- Che cosa volete?

- Sei stizzita?

- Che cosa ve n'importa? - E aveva già la maniglia della propria porta in mano.

La cocoma del caffè fumava sul fornello.

- Ma aspetta almeno di fare il caffè.

- Quando sarà fatto tornerò - e disparve.

Egli rimase come un palo. Cominciava a perdere la testa. Se aveva compreso lo sdegno dell'Adelaide la prima sera, mezzo giustificato dalla mancia perduta e dalla sua vanità offesa di grande cameriera, non capiva l'ostinazione contro di lui, che alla fin fine non c'entrava nè punto nè poco. L'Adelaide lo sospettava dunque di qualche cos'altro? Era gelosa del suo entusiasmo per la Patti, entusiasmo sincero, che egli non aveva avuto mai per nessuna donna?

Finì di vestirsi ed entrò in cucina. Ella non tornava, allora convenne a lui di ritirare la cocoma, che schiumava sul fornello, ed attese inutilmente. Quindi con malizia di ragazzo pensò di tornare nella propria camera e di spiare l'Adelaide, quando verrebbe a prendere il caffè. Vi riuscì. Ella era seria.

- Ma che cos'hai contro di me? - conchiuse finalmente, non riuscendo a finire l'esordio.

- Io! nulla.

- Allora?

- Allora?

- Io non capisco più.

- Già gl'innamorati...

Bartolomeo tremò, nullameno si affrettò a negare.

- La Patti vi ha stregato, me ne sono accorta, non importa che facciate degli sforzi per negarlo, perchè anche l'altra sera me ne avvidi alle prime parole. Cosa volete farvene di una povera corista come me dopo una prima donna come lei? Avete ragione: tutto il pubblico dalla vostra parte. Io non sono mai stata una prima donna. Zitto! - esclamò vedendo che voleva interromperla... - Che cosa vuol dire? che ritorniamo come prima: voi non avete mai sentito nulla per me, e se io non posso dire altrettanto per voi - aggiunse con un tremito nella voce - la colpa sarà tutta mia. Delle sciocchezze al mondo ne facciamo tutti: benedetto chi non le paga. Lasciate stare; qui le parole sono di più, ci siamo capiti. Voi avete delle pretese, che io non posso soddisfare: se lo sapessi, non sarei costretta a menare la vita che meno. Dunque voi farete a modo vostro come avete sempre fatto, e se non mi volete più vedere in cucina, ditemelo.

- Ma io...

- Non siete voi il padrone?

- Andate là, andate là...

Ella afferrò la cocoma, e gli volse le spalle con quel gesto di bonomia rassegnata, che fa tanta impressione in certi momenti.

Bartolomeo rimase prostrato. Al caffè trovò i soliti avventori che parlavano della Patti leggendo gli addii dei giornali: uno propose di andare alla stazione per vederla, che ci sarebbe chi sa quanta gente, ma il cameriere bene informato assicurò che era partita per Roma colla corsa delle otto. I discorsi seguitarono su quel tema, poi gli avventori si dispersero ognuno dal proprio canto. Bartolomeo rimase solo. Era una giornata umida di primavera. Egli si avviò a testa bassa sotto i portici meditando sul proprio caso, ma non aveva fatto cento passi che se lo era scordato entro la tristezza del tempo. Quindi tornò alla Patti e, soffrendo per causa sua, entrò poco a poco nel carattere dell'innamorato. Mentre ella seguitava la strada dei trionfi, egli più povero ed abbandonato di prima cominciava a morire in quella giornata senza sole, umida e solitaria. Non sapeva nè dove stare, nè dove andare. Le gambe lo portavano ai giardini, ma non sarebbe possibile rimanervi: i nuvoloni crescevano in cielo. Si rimise a riflettere sul celibato impostogli per una metà dalla sua posizione sempre troppo incerta e per l'altra dall'avarizia dell'egoismo, che lo lusingava di vivere sempre colla medesima forza. Adesso egli non apparteneva a nessuno, non poteva attaccarsi a nessuno. I suoi amici di una volta erano già tutti vecchi ed accasati; i giovani li vedeva qualche sera dopo il teatro, e ridevano; ma se domani si fosse ammalato non avrebbe ricevuto una visita, non avrebbe avuto una mano per curarlo. Ebbe paura. I giardini erano bruni e deserti, qualche monello sfuggito di bottega o di scuola, o qualche altro abbandonato come Bartolomeo vi vagolavano: i giardinieri erano scarsi e non zufolavano come al solito. Sedendosi sopra uno dei sedili artificiali di gesso, gli sembrò che fosse bagnato. Il Brunetti resterebbe chiuso forse per una settimana; dove passare la sera? Allora sentendosi cadere addosso i brividi delle fronde intirizzite, pensò per la centesima volta alla Patti. L'eco solo del suo nome pronunciato a bassa voce lo riscuoteva. Si scaldò un istante alla sua visione, poi rincantucciandosi in un angolo di quella vita, che riempiva tutto un mondo, si compiacque a seguirne il pellegrinaggio imperiale. Almeno ella era felice. Gli pareva di essere diventato come del suo seguito, un fagotto di quei moltissimi, che si portava sempre dietro, e sui quali chi sa quante volte chinava la testa per dormire. Rimase molte ore nel giardino, cercando d'incontrarsi in qualcuno; quindi tornò in città, annasò ancora in qualche caffè e, non imbattendosi in anima viva, pensò di andare a pranzo. In tanta ruina il suo stomaco era ancora intatto. Sciaguratamente tornò alla trattoria del giorno innanzi, dove il cameriere lo accolse colle solite chiacchiere; il pranzo gli parve detestabile: la sera per disperazione egli, che abbominava il teatro come suonatore d'orchestra, andò al Corso. I discorsi della Patti lo seguivano dappertutto, l'aria pareva vibrare ancora delle sue note. Lo spettacolo, una commedia, gli sembrò incomprensibile; quando la gente se ne andò, uscì macchinalmente egli pure. Per istrada incontrò Bodoni col paletot di crema, che salutandolo senza fermarsi gli ravvivò tutti i pensieri del mattino sulla miseria dell'isolamento. Dovette andarsi a casa; qui lo aspettava un secondo stringimento di cuore. La cucina era assettata, la sua camera era tornata al solito aspetto di ordine e di decenza, rifatto il letto, chiusi i cassetti del comò, le scarpe lustrate sul baule, il portacatino colla brocca pieno d'acqua al suo posto; ma l'Adelaide non c'era. Se ci fosse stata e avesse solamente aperto bocca sarebbe scoppiato a piangere come un bambino. Invece si coricò e per colmo di stranezza, egli, che non l'aveva mai fatto per riguardo alle lenzuola, caricò ed accese la magnifica pipa. E allora col caldo del letto e col fumo del tabacco, le due voluttà, che maggiormente li attirano, i sogni della Patti tornarono a riempirgli la camera. Nell'altra Adelaide dormiva pacificamente.

Così durò molti giorni. Siccome ella aveva smesso di farsi il caffè la mattina, Bartolomeo non vide più l'Adelaide. Sulle prime non indovinò, poi aprendo a caso la madia, gli cascò la mano sul vaso del caffè, e lo sentì vuoto: forse la povera donna non aveva denari per comprarne. Egli fremè ed uscì per riempirlo; ma per quanto vi si scervellasse quel contegno gli riesciva inesplicabile. Mise il caffè nella madia, e attese lungamente nella cucina, se la sentisse rientrare. Giorno per giorno l'Adelaide gli assumeva nella coscienza una grande dignità di carattere, e se al principio gli era stata simpatica per i modi aperti, adesso gli diventava rispettabile come una dama. Aveva maritato bene la figlia e non volendo esserle a carico, come diceva lei, s'ingegnava in mille lavori: non era più giovane, ma tuttavia abbastanza ben mantenuta per ispirare qualche cosa ad un uomo.

Chi sa se non c'era molto cuore sotto quelle sue bruscherie, e dentro quella sua vita troppo spalancata. Alle volte il lepre sta dove meno si pensa. D'altronde in quei cinque o sei mesi egli non aveva avuto a lagnarsi di lei, nè come donna, nè come massaia. La vivacità dei suoi discorsi rendeva anche più saporiti i pranzetti, che sapeva fare con sì poca spesa; e qui Bartolomeo, guardando la fiamminga della minestra asciutta, si ricordava il proprio piatto prediletto, recato da lei all'ultima perfezione, un ricordo di Napoli, dove il grande Bottesini lo aveva una sera invitato a cena. Erano maccheroni all'acciugata, che a Bologna avevan dovuto diventare vermicelli senza troppo scapitarne. Si rammentava come l'Adelaide li riserbasse per il venerdì, giorno nel quale, malgrado tutte le bravate, voleva assolutamente mangiare di magro; e soleva farli seguire da alcune cotolette di tonno alla graticola, un tonno, che pareva a quel modo tutt'altra cosa.

Ma l'Adelaide non si vide.

La sera Bodoni al caffè aveva due magnifiche fotografie della Patti, in costume di Violetta all'ultimo atto; e rammentandogli la famosa occhiata nel «Gran Dio, morir sì giovane», gliene volle regalare una. Il suo cuore si commosse nuovamente a quella povera immagine bianca, abbandonata sulla spalliera della poltrona.

- Sei ancora innamorato? - gli domandò Bodoni accarezzandosi la barbetta.

- Matto!

- Io incomincio ad innamorarmi adesso. La lontananza per i grandi artisti è come la morte per i grandi uomini: l'uomo scompare nel personaggio, i difetti sfumano e la fisonomia vigoreggia. La Patti! - seguitò con quell'entusiasmo, che faceva di lui una contraddizione così piena di sorprese - darei tutta la mia miserabile vita di suonatore per essere il suo amante solo una mezz'ora, e potermela stritolare sul petto come un istrumento, troppo buono per cederlo ad un altro. Guarda la bocca: t'immagini tu come debbano baciare queste labbra, che fanno delle note più dolci di tutti i baci?

E cedendo all'impeto riprese dalle mani di Bartolomeo la fotografia per baciarla.

- Bacia anche tu.

Bartolomeo non se lo fece ripetere due volte.

Poi Bodoni notò improvvisamente la sua tristezza e gliene chiese la causa con accento amichevole. Bartolomeo titubò, perchè da molti giorni soffriva un gran bisogno di sfogarsi, ma il carattere caustico dell'amico lo rattenne. Si fece più serio, intascò la fotografia, ravvoltolandola in un giornale, che Bodoni rubò tranquillamente al caffè, e cadde in un pesante silenzio. Quella vita cominciava a superare le sue forze. Poi, sentendoselo continuamente attribuire per malizia o per ischerzo, aveva finito col credersi davvero innamorato della Patti; e se non voleva convenirne, dipendeva dalla ripugnanza istintiva di ogni passione a mostrarsi apertamente. Ma questo culto ideale non bastava a sorreggerlo contro le difficoltà rinascenti delle giornate deserte e dei cattivi pranzi in trattoria. Invano nei momenti più difficili ricorreva all'occhiata del «Gran Dio, morir sì giovane», nella quale le loro anime, trasportate dalla medesima poesia, si erano sfiorate in un contatto fatale. Quello sguardo era stato per lui come una stretta di mano in un'ora di pericolo, una parola d'eguaglianza barattata in un momento d'ispirazione fuori delle differenze e delle contraddizioni del mondo.

Bodoni gli aveva spiegato in modo molto oscuro il contatto secreto degli spiriti sotto la pressione di un medesimo sentimento, ma egli non vi aveva capito se non che Bartolomeo solo e la Patti avevano cantato quel pezzo.

E gli bastava.

Tornando a casa Bartolomeo si andava tastando in tasca la fotografia. Non sapeva ancora dove nasconderla, e provava già le trafitture voluttuose di un secreto pieno di pericoli. Passò per la cucina senza fermarsi, e si chiuse a chiave nella propria camera. L'indomani invece di andare da Bodoni, che si scordò l'appuntamento, dovette gironzolare per Bologna, comperò l'Illustrazione Italiana, che rappresentava la Patti nella Traviata alla scena della borsa. Il quadretto gli parve un capolavoro, l'articolo, datato da Roma, carico di ironie per Niccolini, una vera indecenza. In fondo all'articolo si annunziava che la Patti partirebbe l'indomani per Madrid; ma egli non se ne fece caso, perchè la loro distanza non cresceva così e non scemava.

Invece passando dal Brunetti imparò che il teatro si sarebbe riaperto fra tre giorni, e questa notizia lo esilarò; fece la solita passeggiata ai giardini, vi si trattenne poco, rientrò in città sempre in preda alla solita inquietudine. A casa la cucina era vuota, il focolare freddo. Allora gli venne in mente il caffè, e andando alla madia guardò se l'Adelaide se ne fosse servita. Nulla: il vaso era intatto al posto dove l'aveva lasciato.

- È dunque una scommessa! Ma perchè - seguitò ad alta voce - mi fa la camera se non vuole saperne? - Così dicendo spinse la porta per constatare rabbiosamente come tutto fosse assettato; senonchè, appoggiata sulla cimasa del letto, sotto l'immagine della madonna di San Luca, la fotografia della Patti, che egli aveva studiosamente nascosta fra cinque o sei quaderni di musica, gettava un baleno nerognolo.

Bartolomeo cacciò un grido: era impossibile, l'Adelaide vinceva.

Da quattro o cinque giorni non l'aveva veduta. Come potesse vivere da se stessa, lavorando poco o punto ed essendo senza risparmi, Bartolomeo non lo capiva; giacchè, vissuto sempre celibe e non avendo conosciuto le donne che in certi momenti e da certi punti di vista, ignorava la loro scienza minuscola della vita, come esse, che dissipano così facilmente i milioni, riescano a campare senza stento con pochi centesimi. Gli venne persino in mente di osservare nella cucina e negli armadi se l'Adelaide non gli rubasse qualche cosa; non lo credeva, ma il dispetto di sentirsele inferiore era tale, che se ne sarebbe quasi compiaciuto. Contò i rami, andò all'armadio; fra le biancherie cercò subito l'involto, nel quale teneva le quattro posate d'argento comprate a peso da un amico orefice; esaminò la bica dei lenzuoli, sommò ad occhio i mantili e le tovaglie, senza osare di spostarli. Tutto gli parve a posto, allora arrossì. Perchè dunque l'Adelaide gli teneva il broncio? Si mise a riflettere sulla natura di lei; benchè non vi trovasse a ridire, n'era poco contento. Era una donna onesta, nel senso popolano della parola, che lasciava la roba a posto e non tirava a far sacchetto, sapeva cucinare e mandare innanzi una famiglia con poca spesa, ma in fondo a tutte queste belle qualità, egli sentiva un difetto, una certa freddezza di animo, una soverchia maturità di ragione, che gli faceva paura. L'Adelaide non aveva mai torto, non si stupiva di nulla. Spesso chiacchierando dopo cena col bicchiere in mano, lo aveva fatto precipitare di sorpresa in sorpresa colle sue massime sulla vita, di uno scetticismo pratico ben più tremendo di quello che affettava Bodoni. L'Adelaide gli voleva dunque bene? Abbandonata dalla figlia, sola nel mondo colla vecchiaia e la miseria dinanzi, forse gli si era affezionata per una conformità di gusti e di destini; però, essendo ancora donna, aveva le gelosie del proprio sesso. Fra tutti quei pensieri decise di volere un secondo discorso con lei, e uscì di casa colla fotografia della Patti in tasca per andare a pranzo.

I vermicelli furono detestabili, le acciughe erano rancide, l'olio sapeva di muffa: perfino la pasta di Faenza, solita ad essere buona, non aveva retto alla cottura, e i vermicelli facevano, come suol dirsi, la colla. Nulla gli andava più per il verso: gli dettero delle seppie per calamaretti, ordinò un mezzetto di Chianti invece del solito vino romagnolo, e gli portarono del vino rosso bolognese, che è l'ultimo vino del mondo. A poco a poco la sua collera saliva. Nella sala molti mercanti di granaglie e di maiali facevano un chiasso indiavolato, bevendo e mangiando come tanti eroi di Omero; due orbini che vennero a suonare, e che essi accolsero colla vanteria crapulona dei mercanti, riempiendo loro il piattino di soldi ed offrendo loro da bere nei propri bicchieri, lo fecero quasi dare in escandescenza. Poi gli orbini non finivano più, le risa e le oscenità degli altri montavano di tono, quasi tutta quella gente aveva il cappello in testa e stava a tavola nelle più sguaiate attitudini, mentre egli per educazione, sebbene mezzo calvo, rimaneva a testa nuda. Non prese nemmeno la frutta e scappò. Gli era venuto un pensiero. Nella cucina, sotto la tavola, ci doveva essere un barilotto di vino di Castel San Pietro, ancora mezzo, da quando s'erano bisticciati coll'Adelaide: comprò una ciambella inzuccherata dal primo fornaio, e corse a casa per accendere il fuoco, e fumare nella pipa. Il barilotto era quasi vuoto: dunque l'Adelaide se n'era servita anche dopo? Questa debolezza lo rallegrò, ma nel cantone non c'era legna: si mise in veste da camera, si cavò le scarpe, accese la pipa e portando la bottiglia del vino sul focolare, si sedette sotto la cappa del camino come nell'inverno. Sulle prime tutte queste buone disposizioni non sortirono effetto, ma al quarto bicchiere la sua malinconia si rischiarò: fortunatamente la boccia di vetro bianco, dalla quale mesceva, era capace di due buoni litri. Egli si stese sul seggiolone di faggio, allungò i piedi sugli alari, e finita la ciambella che gli parve piccola, cominciò a soffiare nel fumo. A poco a poco diventava allegro. Le memorie della cucina gli calavano intorno dalle casseruole appese alle pareti, come da tanti quadri, dei quali la poca fiamma della candela non lasciasse distinguere le immagini: ed erano figure grasse, profumate di intingoli, con un riso giocondo sul volto, che tratto tratto si illuminava di un grande riverbero, quasi che il focolare fosse acceso. Di sotto alla tavola, dalla madia uscivano echi di vecchi discorsi, frammenti di scene casalinghe, quando collo stomaco pieno ed il cuore digiuno si era abbandonato alle piacenterie confidenziali della luna di miele coll'Adelaide. Dalla trave di mezzo penzolava ancora la canna, alla quale si erano dondolati tante volte i coteghini grassi, fra le ghirlande delle salciccie, mentre un prosciutto attaccato più in là, ad un gancio, aveva l'aria d'un violino. Egli stesso gli aveva trovata questa somiglianza e l'aveva mille volte ripetuta coll'Adelaide, quando giungendo a casa troppo presto se ne tagliava una fetta dicendo:

- Suono, eh!

E l'Adelaide sorrideva al suo bell'appetito di suonatore.

Poi il fumo alcoolico della pipa, giacchè da fumatore arrabbiato vi fumava dei mozziconi di sigaro lavati nel rhum, avvolgeva quelle figure paffute e rossiccie in una nuvola aromatica. Mezzo coricato sul seggiolone, la pipa sul petto, respirava lentamente, operazione che aveva la voluttà di tutti i giuochi automatici e nella quale si sarebbe addormentato, se la necessità di tenere la cannuccia fra i denti non lo avesse tenuto desto; tornò a bere. Ma l'ebbrezza del vino, più calda di quella del fumo, gli accese i sensi già vellicati. Ad un tratto la cucina rischiarata a stento dalla candela di sego sopra la tavola, allargandosi in un incendio di luce, divenne un teatro gremito di spettatori; il focolare era il palcoscenico, lo sfondo giù ai lati l'apertura delle quinte dove formicolava la popolazione misteriosa dei teatri. Lo spettacolo era abbagliante. Un'oppressione voluttuosa pesava nell'aria facendo battere tutte le palpebre e aprire tutte le bocche. E una figura patetica di donna, moribonda bellezza di martire, alla quale la morte aggiungeva una bellezza di più, taceva in mezzo a quell'aureola, sopra a quel silenzio angosciato di tutti. Una storia indicibile di dolori era scritta sul suo volto, una memoria d'amore le impallidiva sulla fronte. Poi senza scomporsi, come se non ne avesse avuto la forza, cominciava a cantare, calando un lungo sguardo verso di lui.

Ma in quella l'Adelaide, non sospettandolo in casa, rientrava per la porta della cucina. Aveva il solito impenetrabile di Casimiro grigio, il cappello scuro con una vecchia penna di struzzo colorata di rosso. La sua figura atticciata diventava tozza sotto l'ombra di quelle grandi ali. Sembrava aver fretta, ma vedendolo si arrestò. La candela del tavolo non illuminava abbastanza bene la scena, perchè ella potesse vedere subito la boccia, ed il bicchiere sopra lo sgabello del focolare. Nullameno finì per accorgersene.

- Oh! - esclamò Bartolomeo rimettendosi a sedere sul seggiolone.

- Scusate se vi disturbo - rispose con accento secco, che finì di svegliarlo, andando verso la madia per accendervi una candela e ritirarsi. Bartolomeo accennò di scendere.

- Non v'incomodate, ho già fatto: vi lascio in libertà - seguitò con intenzione evidente.

- Non potete fermarvi un pochino!

- A far che?

Bartolomeo avrebbe voluto calar giù, ma temendo di farlo male per il vino, che cominciava a pesargli sullo stomaco, rimase sotto l'ombra del camino, che ingrossava singolarmente la sua figura già grossa. Tutti i proponimenti del giorno gli si affollarono nella memoria.

- Aspettate: oh! ecco: sentite.

- Cosa?

- Ve l'ho pur detto, io non ci capisco nulla.

- Nemmeno io.

- Allora?

- Cosa volete dire?

Bartolomeo s'incagliò ancora: ella ripetè l'atto di andarsene.

- Io sono sempre quello stesso - disse finalmente con un immenso sforzo, e un sospiro di soddisfazione.

Ella finse di non comprendere.

- Volete far la pace?

- Sentiamo: condizioni e patti!

- Ah! - fece Bartolomeo.

- Scusate; questo nome vi dà fastidio?

Egli s'imbrogliò nuovamente, ma per una di quelle scappate, che non vengono se non agl'ingenui in certi momenti:

- Cosa avete fatto tutti questi giorni? - prosegui.

La domanda era così imprevista che ella stessa titubò.

- Ho lavorato.

Bartolomeo comprese la portata di quella parola, e si arrestò. Malgrado tutta la buona volontà non trovava modo di venire ad una spiegazione, parendogli di aver egli tutti i torti e nel sentimento della vergogna sentendosi crescere ancora l'imbarazzo. Un sospiro leggiero, che l'altra colse benissimo, gli uscì dalla bocca.

- Buona notte! - ella disse questa volta incamminandosi.

- Ma è dunque molto tardi?

- Non saranno nemmeno le nove.

- È presto.

- Buona notte!

- Buona notte! - rispose Bartolomeo con voce, nella quale l'umiltà dell'accento faceva sentire la malinconia di una preghiera.

Ella entrò nella propria stanza, e l'altro, appena scomparsa, fece un gesto violento contro se medesimo quasi per darsi un pugno.

- Bamboccio!

Quella fu la sua sera peggiore. Per uscire di casa avrebbe dovuto rivestirsi, rimettersi le scarpe, riannodarsi il fazzoletto, tutta una farragine d'incomodi, dei quali ognuno aveva in quel momento l'intensità di un supplizio. Poi non sapeva, una volta fuori, dove dare del capo. Ma rimanere in casa, solo in cucina, coll'Adelaide di là, che lo sentirebbe andarsi a letto così presto, era impossibile. Tentennò lungo tempo in preda ad una collera, che cresceva di minuto in minuto, coi ricordi di tutte le contrarietà toccategli nella giornata e le difficoltà di una soluzione altrettanto inevitabile che impossibile.

Nei giorni seguenti cadde in una tetra malinconia, dalla quale non uscì nemmeno a teatro.

L'oscurità, che l'aveva protetto contro i pericoli del mondo permettendogli di vegetare prosperamente all'ombra come una pianta grassa, gli diventava una tenebra di prigione, fuori della quale il paesaggio ardente della vita spiegava la pompa delle sue decorazioni. Tutti erano felici intorno a lui, il giorno si occupavano dei propri affari, la sera andavano a teatro per divertirsi, mentre egli, accasciato tutto il giorno sotto l'incubo di se medesimo, doveva venirvi per diventare parte inavvertita del loro divertimento. Almeno la Patti aveva diecimila franchi ogni sera senz'essere schiava del pubblico. Al Brunetti due settimane dopo ognuno parlava ancora di lei, che era in Ispagna e faceva delirare quel popolo, ancora abbastanza romano per preferire l'orgoglio a tutte le virtù e il sangue a tutti i piaceri.

E allora si obliava nei sogni della Spagna, che non conosceva nemmeno per lettera, alla quale non attribuiva nè gli aranci, nè le palme, nè i costumi ancora medioevali, nè le architetture moresche capricciose come le sue colline e trasparenti come le sue nuvole. Però in fondo ad ogni sogno trovava sempre una tristezza più cupa, simile alla tenebra di una lanterna magica, che pare più densa quando l'apparizione è svanita. Il giorno non andava più ai giardini pubblici, che la esultanza di primavera gli rendeva odiosi, ma girellava per la città come tutti i vagabondi, che cercano d'ammazzare il tempo e invece soccombono sotto di lui. E poco a poco si scordava della Patti e dell'Adelaide, le due cause della sua infelicità, per non sentire che il proprio malessere, una stanchezza morale, che gli dava l'uggia di ogni persona, un esaurimento fisico, che gli dava la nausea di ogni cosa. Trascorse ancora una settimana. Il suo aspetto cominciava ad intristire, le borse sotto gli occhi gli si erano ingrossate, perfino il suo bell'appetito, l'amico fedele di tutta la vita, stava per abbandonarlo. Allora per disperazione cominciò ad alzarsi più tardi e a coricarsi più presto: aveva fatto una specie di raccolta di tutti i giornali, che parlavano della Patti, e li andava rileggendo. Qualche mattino mancò alla colazione del caffè, dove i soliti avventori si fecero caso della sua assenza; a pranzo non andò più alla trattoria, che aveva scelto dopo il disastro domestico, e si abbandonò alla ventura per l'izza di dover parlare col cameriere, o di incontrarsi con persone conosciute. Anche Bodoni, cui prediligeva sopra tutti, gli era divenuto insoffribile; mentre una delle sue ultime parole di quella sera alla bottiglieria gli era rimasta confitta nella memoria come un chiodo arroventato.

- Ella ti avrà reso miserabile per sempre!

Era un venerdì di primavera, era piovuto tutto il mattino, poi aveva soffiato un vento freddo senza spazzar via le nuvole. Il cielo era torbido, la città pareva bigia. Bartolomeo era uscito. Fosse il tempo o altro, si sentiva anche più triste; da due giorni non aveva quasi mangiato, aveva fatto un giro per il Pavaglione, era entrato macchinalmente in S. Petronio, poi era tornato a casa, sorpreso da un freddo, che in quello scoraggiamento prese per un sintomo di malattia. Si sdraiò sulla vecchia poltrona, affagottato dentro un paltò d'inverno, lasciando errare gli occhi sui tetti vicini, pei quali i passeri pigolavano lamentevolmente. Il sentimento della morte lo invadeva. La sua camera poco allegra per la qualità dell'arredo e il colore della luce gli ricordò quella della Traviata all'ultimo atto; proprio in quel momento tornava a piovere. Le percosse dell'acqua contro i vetri lo fecero fremere di terrore, poi abbassò la testa come un malato, e chiuse gli occhi. Il Bartolomeo di una volta era morto.

Ma la porta della camera si aperse con fracasso, e l'Adelaide entrò rossa come un gambero. Aveva un giornale in mano.

- Leggi - esclamò dandogli del tu per la prima volta dopo la rottura.

Egli si destò di soprassalto, ma l'altra non badando alla prostrazione del suo aspetto, cogli occhi sfolgoranti di disprezzo:

- Ah! tu non ne saresti capace. Te lo leggo io; sta attento, come tratta in Spagna la tua Patti; - e senza dargli tempo nè di rispondere, nè di capire, con voce concitata, che la passione di quel momento aguzzava come un pugnale, spuntandolo tratto tratto ad una frase, gli lesse un articolo riportato da un giornale di Madrid. Con stile vivace, pieno di reticenze insidiose e di approvazioni ironiche si narrava come re Alfonso si fosse invaghito della Diva e per non imbarazzarsi con Niccolini, diventato geloso fuori di tempo, gli avesse fatto bere d'accordo con lei un narcotico a cena. Niccolini si era addormentato, ma o la dose fosse troppo lieve, o essi profittandone subito facessero troppo rumore, si era svegliato prima. Allora il re aveva sorriso e se ne era andato; Niccolini era rimasto e aveva bastonato la Diva. Forse questa era una storia di giornale, ma l'Adelaide lo credeva, e:

- Tieni - fe' lanciandogli il giornale sul ventre - te lo diceva pure: è una... e si fermò meravigliata della faccia di Bartolomeo, che ella credeva allibito. Era quasi ilare.

- Ma tu! - esclamò.

Egli si levò in piedi. La pioggia scrosciava ancora nei vetri, il cielo si era fatto più buio, e nullameno egli riacquistava il bel colore d'una volta.

- Non eri dunque innamorato tu, che hai fatto tanto?

Bartolomeo ebbe un gesto di stupore, che voleva dire:

- Puoi crederlo?!

- Però confessalo, se non fosse stato così...

- Sei tu, che lo hai detto.

Rimasero incerti tutti e due, ella collo sguardo ardente, egli quasi curioso. Per un momento si studiarono.

- Ma se è brutta!... - ella proseguì esaminandolo; Bartolomeo non si mosse.

Allora Adelaide ebbe come un gesto di dispetto contro se stessa nello sforzo di cercare inutilmente una spiegazione, e ripetè più forte:

- Che cos'era dunque? Tutti impazziscono per questa donna, che pare un'acciuga.

Bartolomeo ebbe un lampo.

- Oggi è venerdì.

Ella comprese, egli titubò.

- Se potessi credere...

- Li faresti?... i vermicelli all'acciugata...

- Forse...

- Te lo dirò io - esclamò con un sorriso che gli morì nullameno in un sospiro: era, ecco...

E non trovò altro.

Tre mesi dopo Bodoni, incontrando Bartolomeo al caffè del Corso, gli correva incontro col suo riso sinistro sulle labbra.

- È proprio vero che hai sposato la grossa Adelaide?

Bartolomeo chinò la testa.

Bodoni si arrestò, poi dardeggiandogli un'occhiata in faccia:

- Ti piace la trippa?

- No - rispose ingenuamente Bartolomeo.

- Avrai una vecchiaia infelice.

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