Violoncello

La casa era nel fondo di una strada umida e buia, a cul di sacco: aveva tre piani e due finestre cogli scuri verdi ad un battente solo. Nè di giorno nè di notte la strada s'illuminava mai di un bel raggio; il sole vi passava al disopra, la luna vi si ratteneva sull'orlo dei tetti, come respinta dal tanfo grasso che ne saliva, mentre l'ombra addensata da tutti quegli sfondi sembrava piena di agguati e di abbandoni. Era d'estate. Le case purulente di quella muffa, che pare una malattia vergognosa dei muri, e non si trova quasi mai nelle campagne, dove il sole e l'aria mantengono in ogni miseria una certa quantità di salute, erano piuttosto alte. Le finestre, abbandonate penzoloni sui gangheri in attitudini patibolari, non si chiudevano nemmeno di notte, forse perchè l'aspetto esterno delle case tradiva fin troppo l'aspetto interno delle famiglie, e il pudore se n'era da gran tempo involato coll'anima di tante speranze morte e le visioni di tanti desiderii vivi. Dalle soglie logore dall'uso e calcinate dal fango un'ombra greve irrompeva fino al rigagnolo della strada, dando quasi quasi la medesima tinta scura ai sassi, sui quali passavano pur tuttavia i riverberi indeboliti del giorno e i passi di tutta la gente. Le case si rassomigliavano tutte; appena qualcuna di un piano solo e coll'impanata invece dei vetri, pareva un abituro campestre. Difatti in quel quartiere, egualmente separato dalla città e dalla campagna, v'era uno strano miscuglio di persone e di mestieri; un'agglomerazione di braccianti e di operai, che non dovevano nemmeno riconoscersi fra loro. La strada si vuotava rapidamente al mattino, e si riempiva lentamente la sera. Nel giorno qualche donna in ciabatte la traversava o la percorreva: qualche vecchio passava adagio e si allontanava come una miseria, che non sa più dove andare e vagola ancora per poco. Fiacchieri e biroccie non arrivavano mai sino in fondo al muraglione, che la chiudeva. La strada non aveva chiesa. Ma il rigagnolo, nel quale sovrannuotavano immondizie di ogni sorta, esalava fetidi vapori, specialmente se il tempo si mettesse alla pioggia, o il lungo sereno fosse arrivato al secco. Allora diventava una fila di pozzanghere, alimentate giornalmente dall'acqua delle finestre, che lasciavano nelle ineguaglianze del ciottolato una poltiglia nerastra, piena di bave e di fili, di insetti e di residui. E la notte, alla luce dei fanali, da quelle pozzanghere invisibili prorompevano bagliori metallici, mentre certe masse chimeriche, attirate e respinte dai lampioni, riempivano tratto tratto la strada. E su dai sassi della strada, fuori delle porte, giù dalle finestre, per tutta la tenebra della sua lunghezza venivano un tanfo umidiccio e viscoso, un silenzio morbido, nel quale s'affondavano le case coi loro abitatori ignoti, sino al muraglione, che la separava prudentemente da tutto il resto del mondo.

Era già notte. Un ragazzo si arrestò un istante alla vetrina del caffè, dalla quale usciva un inquieto rumorio di istrumenti; parve indeciso, si trattenne, e, come per sottrarsi ad una tentazione troppo forte, se ne spiccò con un salto. Sempre lungheggiando i muri arrivò senza incontrare anima viva alla penultima casa, ne infilò la porta aperta, bussò nell'uscio di faccia, all'ultimo piano. Una donna gli aperse.

- Hai fatto tardi! - gli disse, guardandolo amorosamente con voce di strana dolcezza - dove ti sei fermato?

Intanto egli si era cavato il berretto, avvicinandosi al tavolo, dove la donna cuciva a macchina. Il lume a petrolio riparato da un cappello bucherato, di carta verde, gli illuminava la faccia incorniciata da una magnifica capigliatura bionda, tutta a ricci. Egli stette così, come dubitando di dire qualche cosa, poi la donna gli alzò gli occhi in volto con muta interrogazione.

- Hai fame?

- Adesso poi: sono stato a teatro.

La notizia parve così stravagante, che la donna si voltò di soprassalto.

- A teatro - seguitò il ragazzo ridendo - ; ecco, dietro il vicolo, ma si sentiva lo stesso. Non vi era nessuno: si sentiva come di dentro, l'orchestra, i cori, poi di quando in quando la voce della donna. Come dev'essere bello il teatro! facevano la Norma.

E il ragazzo sospirò. Quindi la donna si alzò per servirgli da cena ripetendogli:

- Hai fame?

- Sì.

Il ragazzo aveva forse tredici anni, era alto e magro. Benchè non ancora formato e vestito miseramente, la finezza della pelle e la delicatezza dei lineamenti lo rendevano già singolarmente bello. Due occhi bianchi, ma enormi, colle palpebre molto lunghe, gli illuminavano la faccia tinta del più soave incarnato, con una bocca fresca e un mento piccino come quello di una donna. Nei capelli arruffati gli si riconosceva ancora la discriminatura, che forse quella donna gli faceva ogni mattina, ricacciandogli i ricci dietro le orecchie rosee dagli orli ribattuti. Era vestito di una giacca logora al bavero ed alle orlature, di un paio di calzoni più chiari della giacca, e di un corpetto a maglia, quantunque la stagione cominciasse già a farsi tiepida; ma il ragazzo era freddoloso, e si lasciava volentieri ovattare coll'egoismo minuscolo dei fanciulli troppo amati. A vederlo non si sarebbe creduto un popolano, o almeno non lo era che alle estremità; le mani troppo grosse per i polsi, colle dita schiacciate e le nocche salienti, e i piedi, che s'indovinavano male sotto la rozza calzatura. Ma la sua bocca aveva una dolcezza quasi ancora da bambino, mentre la parte superiore del viso era già di uomo. Qualche cosa gli dilatava gli occhi e la fronte alta, sporgendo sull'arco delle sopracciglia, ed era come una luce incalorita dai riverberi dei capelli, più fini della seta, e di un biondo così puro che avrebbero fatto invidia ad una polacca. Poi la donna lo chiamò nell'altra camera. La cena era già pronta sopra un tavolino, con un tovagliolo e pochi piatti; egli sedette, mangiò di buona voglia, rispondendo a monosillabi, mentre ella lo sorvegliava amorosamente assaporandogli sul volto la gioia sensuale di ogni boccone.

D'improvviso egli scappò a dire:

- Cosa siamo dunque noi al mondo?

- Siamo i poveri.

- Siamo gli ultimi!

- Non si è mai l'ultimo, perchè dopo i poveri ci sono i malati, dopo i malati ci sono i morti.

La donna era giovane. Un erpete rosso-cupo le deturpava il sorriso della bocca rischiarato da due grandi occhi pieni del lume placido di una lampada. Non aveva altro; il resto della fisonomia sarebbe stato ripugnante senza quella espressione di profonda tenerezza e di mite rassegnazione. I capelli pettinati con estrema cura e coronati da un vecchio nastro di velluto nero le lasciavano già trasparire la cute biancastra: le spalle le sporgevano in arco, mentre il petto le rientrava con una pietà malaticcia sotto quel corsetto di flanella a scacchi rossi e nerognoli. Era una povera figura colle mani rachitiche e il collo grinzoso, nel quale un buon osservatore avrebbe distinto il battito pericoloso di una vena: non aveva forse ventott'anni, era secca, scarna, cogli occhi troppo belli e la voce troppo dolce, sebbene appannata da un'invincibile reuma di petto, che era forse una bronchite. Aveva lo sguardo estatico e la parola lenta; ma ogni qualvolta egli le cacciava nelle pupille il razzo bianco dei propri occhi, o la ravvolgeva nel turbine caldo e romoroso di una scappata, lo sguardo le si velava come per resistere al penetrante prestigio di quel ragazzo, che oramai cominciava a non esserlo più. Allora il suo viso storto a sinistra si illuminava di un intimo sorriso; ella si rigettava adagio sulla spalliera bianca della sedia, una mano sul tavolo, la testa sopra una spalla, e sospirava.

Ma la cena era finita; ella s'alzò, ripiegò il tovagliuolo, rimise i piatti nella madia, soffiò via le ultime briciole dal tavolino, mentre Giorgio si alzava stirandosi le membra come un gattino.

- Tu hai sonno questa sera - ella disse guardandogli negli occhi - . Se domani mattina ti alzi mezz'ora prima a studiare, ti lascio andare a letto.

Giorgio non se lo fece dire due volte. Il letto era nella cucina, in un angolo, un letticciuolo di legno con una coperta fiorata di percalle, e un piumino rosso sui piedi a fioretti trapunti. Aveva un comodino di fianco, una madonna coll'ulivo benedetto al disopra. Nell'altra parete la tafferia calata faceva da seconda tavola; c'era una piccola madia in un cantone, la scaffa nell'altro con sopra la rastrelliera dei piatti. Alcune casseruole di rame sospese alla cappa del focolare gli davano una qualche speranza di cucina; un tavolinetto esagono nel mezzo serviva a tutti gli usi. E con tutto ciò quella cucina era un modello di mondezza. Il ragazzo si spogliò in un batter d'occhio, gittando uno ad uno i panni sul letto, finchè rimase in camicia colle scarpe: se le trasse, lesto, senza usare le mani, e prima che la donna, occupata a comporre gli abiti sopra una sedia, avesse il tempo di fare la piega, era già sotto le lenzuola. Vi si agitò qualche minuto coi brividi del freddo, raggomitolandosi, la testa affondata nel cuscino, e chiuse gli occhi. La donna gli rimboccò la coperta sotto il materasso, gli accomodò e gli distese la piega del lenzuolo con compiacenza prolungata, senza che egli sembrasse nemmeno accorgersene; poi il ragazzo spalancò improvvisamente gli occhi, ed allungò le labbra. Ella si chinò, ricevette il suo bacio sulla fronte, glielo rese, lo contemplò un'ultima volta e: - Dormi - disse.

Egli si strinse nelle spalle, e l'altra uscì tirandosi dietro la porta.

Quell'altra camera piccola e bianca, con un lettino, un armadio, un tavolo per la macchina da cucire, era la sua: aveva una sola finestra colle tende, il pavimento rotto. Posò il lume sul tavolo, e si sedette guardando l'uscio della cucina per aspettare che Giorgio si addormentasse.

Allora il suo volto perdette la dolcezza di poco dianzi, e una contrazione penosa le stirò gli occhi senza poterne trarre una lagrima. Forse una mezz'ora passò così, poi si levò col viso sempre egualmente triste, ed, aprendo adagio adagio l'uscio della cucina, ascoltò. Un raggio del lume, filtrando per la porta, le mostrò Giorgio nella stessa posizione, colla testa mezzo nascosta fra il cuscino ed il lenzuolo. Lo sentiva respirare. Allora s'inoltrò sulla punta dei piedi fino al capezzale, e stette contemplandolo nella tenebra. Ma lo vedeva come in un raggio di sole, coi capelli biondi pieni di sorrisi, gli occhi bianchi come due fiori animati, il viso dolce ed aristocratico, che faceva spesso soffermare i passanti la domenica quando uscivano insieme a spasso: un viso di fanciullo e di giovinetto, lucente di poesia e di avvenire; lo vedeva dormire sul lettino sotto i propri occhi, in una posa di uccellino, respirando un alito soave, riposando, sognando, calmo e felice sotto la sua protezione invisibile e senza sentirla.

- Se morissi troppo presto - mormorò piangendo finalmente una lagrima, e piegandosi a sfiorargli i capelli: ma un pensiero anche più angoscioso gliela abbruciò istantaneamente, e stringendosi con una mano la fronte, mentre si rialzava quasi con un senso di ripugnanza sdegnosa:

- Anche tu! anche tu! morirò magari troppo tardi... povera Anna!

Quindi tornò al lavoro. Anna era una ragazza abbandonata nel mondo. Aveva appena conosciuta la madre, e il padre le era morto da molti anni lontano, a Nizza, dove suonava il violoncello nel teatro comunale. Ella aveva ricevuta la notizia quasi senza piangere, perchè il padre, o per la professione, o per abitudini malsane di vita, non si era mai occupato di lei: ella aveva imparato il mestiere della sarta, e ne viveva mediocremente. Cresciuta sola, coll'anima troppo bella, e il corpo troppo brutto, era diventata misantropa per eccessiva tenerezza; e poichè i rudi e immondi contatti della società la disgustavano, a poco a poco rinunciò a fare da sarta, prese la clientela di un grande magazzino da biancheria, e cucì a macchina. Così non usciva quasi mai di casa: andava a prendere il lavoro, e lo riportava, guadagnava poco e faceva dei risparmi. E perduta nel fondo della propria miseria fisica e sociale, senza guardarsi dintorno per non desiderare quello che non potrebbe avere, si era come rassegnata al proprio destino. Era così. Fuori il mondo aveva delle città e delle campagne, i monti ed il mare, i fiori e gli uccelli, l'amore ed il lusso: vi erano dei signori in carrozza e dei mendicanti senza scarpe, tutta la vita e tutta la natura; ma era fuori, lontano. Ella non guardava e non ascoltava, giacchè nelle sue poche intimità col mondo ne aveva preso fin troppo disgusto. Poi aveva poca salute, una sensibilità così tarda e squisita, che nel mondo non avrebbe potuto vivere; ma sola nella propria camera, colla macchina, senza un vaso sulla finestra, nè un uccellino in gabbia, lavorando tutto il giorno, e coricandosi stanca, era quasi contenta. Non aveva nè rammarichi nè speranze, non pensava nè agli uomini nè a Dio, simile ad un fiore non sbocciato per alcuno in un angolo ignorato, con una tinta troppo pallida per essere mai scoperto, o un sapore troppo recondito per attirare gl'insetti vagabondi.

Una volta si era ammalata, e non aveva chiamato il medico: la febbre le era durata molti giorni, e quindi più nulla.

Nella casa non aveva relazioni, si faceva la propria cucina, e dava il resto del pranzo ad una vecchia, che veniva una mezz'ora tutte le mattine a tirarle l'acqua e a farle i più grossi servigi. La vecchia era golosa, e si ubbriacava spesso, ma Anna non se ne curava; e d'altronde le parlava pochissimo. I risparmi li portava ogni tre mesi alla cassa, e sommavano già a qualche centinaio di franchi. Quando non lavorava leggeva; ma invece di leggere dei romanzi come tutte le sue pari, preferiva i viaggi, come un'occhiata gettata distrattamente al di fuori, così da lontano, che lo spettacolo perdeva le tentazioni. E a forza di togliere ogni rapporto ed ogni ideale alla propria vita se la era resa più leggiera: infatti non aveva durata. I giorni potevano essere dieci come mille; essa non li guardava venire, giacchè non le avrebbero apportato nulla; non si voltava a vederli passare, perchè non le avevano portato via nulla. Abitava ad una finestra, dove il sole non veniva quasi mai, in una strada senza sfondo, in un quartiere dove nessuno la conosceva, e nessuno passava.

E a poco a poco si era fatta pigra, si alzava più tardi la mattina, si coricava più presto la sera, viveva di latte e di erbaggi. Un giorno ebbe l'idea di comperarsi una macchina da caffè, ed ebbe un vizio: il caffè col latte a colazione, a pranzo, e a cena.

Un altro giorno, tornando dal magazzino, la vita, che aveva evitato così bene fino allora, la investì e la sopraffece. Un giovane l'aveva guardata e l'aveva seguita: poi un'altra volta la fermò addirittura; era molto bello, abbastanza ben vestito. Allora in lei accadde un rivolgimento profondo e terribile: da tutte le fibre del cuore le irruppero i sentimenti dell'amore, in tutti i muscoli del corpo le palpitarono i fremiti della giovinezza; si sentì sollevata a tutte le altezze, gittata a tutti i venti, immersa in tutti i raggi; fu come se una goccia sopra un sassolino della spiaggia fosse ripresa dal mare, e partecipasse istantaneamente alla immensità della sua estensione, a tutte le vibrazioni della sua eterna mobilità.

Poi lo sbalzo di un'onda ricacciò ancora la goccia sopra un sassolino della spiaggia. Il giovane l'aveva amata due mesi per mangiarle quei risparmi, e l'aveva bastonata prima di abbandonarla.

E strano, ella riprese il proprio equilibrio. Ma un nuovo bisogno, che passandole attraverso come una tradizione le si prolungava davanti indefinitamente, la tolse alla solitudine di prima: il mondo afferrandola e ballottandola crudelmente per un attimo l'aveva buttata alla natura, la quale s'impossessa di tutto e non cede nulla. Anna aveva abortito dopo quattro mesi dall'abbandono; e la maternità, destandole l'amore nella coscienza, l'aveva come rimessa nel quadro della creazione. Allora invece di ritirarsi dal mondo, vi ritornò con un'altra necessità di parlare e di sentirsi rispondere, di essere buona ella che non era mai stata cattiva, di essere madre ella, che non poteva essere donna.

Il suo amore si era dissipato come uno di quei temporali, che intristendo all'alba cielo e terra, si risolvono in uno scoppio, dopo il quale il sole sfolgora e gli uccelli cantano. Finalmente viveva.

Quell'uomo non lo vide più. Invece contrasse qualche amicizia, e il suo dramma essendo rimasto ignorato, il suo ingresso nel mondo potè essere senza scandalo.

In quell'anno conobbe la mamma di Giorgio, giovane ancora, inferma, e sempre nei rimpianti del proprio passato di mezza signora, perduto dietro un uomo, che l'aveva amata tirandosela dietro nella miseria. Poi egli ne era morto, estenuato dal lavoro e dai rimbrotti. Giorgio, bello come un serafino, non bastava al cuore di quella donna ammalata di egoismo; la quale sentendosi peggiorare, volle essere portata al nuovo ospedale, dove la raccomandazione di una signora le aveva fatto sperare un'assistenza piena di distinzione. E là era morta. Anna aveva adottato Giorgio. Quindi cominciò per entrambi una nuova vita. Ella gli aveva fatto un letticciuolo nella cucina, ed un immenso posto nella propria anima. Tutti i rumori folli e le compiacenze chiacchierine della maternità invasero la casetta: due o tre vasi di fiori vennero sul davanzale della finestra, un canarino vi portò la propria gaiezza di bel forestiero, colle piume dorate da un sole più caldo, e il canto appreso da una primavera più bella della nostra: un gatto vi aggiunse un'altra fanciullezza coi giuochi acrobatici e le malvagità carezzevoli. Il deserto fu popolato, la famiglia composta. La domenica, quando uscivano a spasso, la gente si fermava ad ammirare quel bel bambino e quella buona donna, accompagnandoli con un sorriso pieno di benevolenza: fuori per la campagna la natura era una festa. Quell'immenso verde li accoglieva da ogni parte, il cielo aveva delle trepidazioni di lago, il vento delle ondate di profumi; poi, quando ritornavano a casa per la strada umida e buia, il canarino lanciava dei razzi scoppiettanti di note, e il gatto trovava delle parole rauche di gioia, mentre i fiori sulla finestra sembravano pieni di una curiosità affettuosa per i fratelli lontani lungo i margini dei fossi e fra gli spini delle siepi.

I primi anni passarono così. Giorgio andava alla maestra, Anna lavorava più di prima, facendo egualmente qualche risparmio, perchè fra tutti quattro, col canarino e col gatto, un po' di riso e di latte, qualche frutto e qualche erba bastavano a nutrirli.

Poi Giorgio si rivelò.

Ella lo aveva collocato presso un sarto come garzone, dicendogli per incoraggiarlo che così potrebb'essere ben vestito; ma il ragazzo annoiato mortalmente della bottega, dove lo strapazzavano troppo spesso, perdeva le lunghe mezz'ore per istrada ascoltando gli organetti, o dietro un gruppo di suonatori ambulanti. Quindi guardava con ammirazione i loro vecchi istrumenti pieni di gobbe e di malattie: le trombe avevano delle raucedini da invalidi, i clarinetti delle gutturalità cavernose, i violini mettevano degli stridori spasmodici; ma da tutti quei corpi infermi prorompeva una musica chiassosa, una foga di ballo, nella quale la canzone dell'amore tradito metteva a quando a quando un sentimento di malinconia, una soavità sensuale di martirio. E le faccie riarse dei suonatori, sotto i capelli unti e scoloriti dal sole delle grandi strade, avevano un'indifferenza gioconda di chi non serve a nulla e non appartiene a nessuno; una esultanza di festa inesauribile, offerta a tutti, accettata da pochi e nullameno pagata con una elemosina universale. Non erano quasi mai più di tre, qualche rara volta con una donna, più spesso con un ragazzo. Allora Giorgio stentava a frenarsi, e, mentre quegli andava in giro col cappello, invece di buttargli un soldo, che non aveva, si sentiva tentato di dirgli:

- Vengo con te?

Ma i ragazzi avevano tutti un'attitudine stanca, una fisonomia triste, che lo facevano pensare.

E allora in casa cominciò a suonare.

Il primo strumento fu un pettine dentro un foglio di carta, poichè gli organini di latta, a rucchette, costavano fino a dieci soldi, e lasciavano tutte le voci alzarsi insieme ronzando. Il pettine invece bastò per qualche tempo. Era una musica fra il suono ed il canto, che frantumandosi fra quei denti come fra le corde di un'arpa, si ripercuoteva nella carta dando già un suono metallico, una diffusione cristallina alla sua voce. Egli vi ripetè quanto udiva per strada con entusiasmo di fanciullo e di principiante; ma sopra tutto furono canzoni d'amore dalla cantilena dolce e le cadenze affaticate, nelle quali moriva qualche cosa che avrebbe dovuto vivere, sospirava qualche cosa che non aveva potuto respirare.

La mattina presto e la sera dopo pranzo la musica non cessava mai; una ad una tutte le suonate della strada dovevano passare dentro quel pettine e svolazzare nella camera con uno starnazzo infernale, mentre la macchina seguitava a cucire col suo fracasso di telaio, e l'Anna, emaciata dal lavoro, si curvava sulla tela nell'ombra del paralume.

Ma neanche questo durò. Il pettine, che l'accompagnava in tasca dappertutto, un bel giorno fu abbandonato per lo scacciapensieri, uno strumento, che par fatto di uno scorpione, ed ha il ronzio di un'ape. Egli vi si perfezionò rapidamente, poi lo smise per la piva, e giunse non si sa come a possedere un organetto col mantice a pezze e le note raffreddate. Allora gli parve di entrare per davvero nell'arte. Non era più la sua voce incanalata o battuta in un arnese qualunque, una specie di soliloquio, nel quale prevedeva e sapeva già tutto; ma un dialogo vero, dove le risposte dell'organetto avevano una varietà piena di ribellioni e di misteri. Bisognava cercare le note una a una, raggrupparle sotto uno sforzo della volontà, nella forma di un pensiero. La lotta era accanita. L'orecchio, che aveva ritenuto e come contrassegnato tutti i suoni di una canzone, al primo accento di un tasto trovava la traccia della nota vera; e quindi principiava come una caccia. Le mani correvano febbrilmente sulla tastiera, le note vibravano inabissandosi dentro la cavità misteriosa del mantice, ma un dito le afferrava, l'orecchio le ormeggiava, il pensiero tagliava loro la strada, e le ricacciava su, in frotte, sotto i tasti, facendole passare per le feritoie, quasi nel dolore di una stretta, nella foga di una carica.

Se non che le note erano poche, e la canzone, così aitante per strada, usciva storpia dall'organetto. E l'Anna cominciava a protestare. L'organetto con tutti quegli stridori di chiavistello diventava a volta a volta così straziante, che ci voleva tutto quell'affetto tiranno pei bambini e l'amabilità di Giorgio, perchè ella si frenasse nella voglia di scaraventarglielo fuori dalla finestra. Ma il ragazzo fingeva di non accorgersene, o se la irritazione di lei giungeva al colmo, si alzava, e, abbracciandole il collo, le dava un gran bacio negli occhi.

- Ma vuoi dunque diventare un suonatore?

- Sì - aveva risposto colla fronte aggrottata sul cattivo istrumento.

Ma dopo alquanti giorni l'Anna si stizzì davvero. Giorgio era venuto a casa con un violoncello da contadino, comprato per quattro lire in una cocomeraia. Il ragazzo era talmente sudato, che ella ne tremò. Giorgio non rispondeva, posò per terra l'istrumento più grande di lui, e, appoggiando le spalle alla tastiera per sostenerlo, si volse finalmente. Aveva tutte le scarpe infangate, la giacca spaccata sotto le ascelle; ma una speranza indefinibile, un orgoglio di prima conquista gli raggiavano sulla fronte.

Questa volta Anna fu violenta.

- Chi ti ha dato i quattro franchi? - proruppe dopo un gran fracasso di parole e di minacce.

- Beppe; ma gli ho detto che gli lascio le mie due settimane.

- E tu come farai a mangiare?

Giorgio, che aveva resistito fino allora, riparando il violoncello col proprio corpo, a questa ultima osservazione si sentì vacillare, ed abbassò la testa.

- Non sai che bisogna guadagnarsi il pane? - ella ripetè coll'accento duro della povera gente.

Ma il volto dianzi così animato di Giorgio esprimeva una tale angoscia di umiliazione, che ella fu presso a commoversi, e non osò seguitare.

Ci fu un istante di silenzio. Due lagrime, grosse come gli occhi, gli rotolarono lentamente per le guancie: ma ad un tratto sollevò il volto, e scuotendone i ricci colla energia di un'ispirazione:

- Quando avrò imparato, guadagnerò.

- Morirai prima - fe' l'Anna ingrossando la voce: - a suonare quell'istrumento viene la tosse, e si sputa sangue. Anche l'altro giorno hanno portato al camposanto un bambino come te, e lo hanno seppellito dentro la cassa dell'istrumento.

- Aveva imparato? - proruppe Giorgio.

Ella titubò.

- Io imparerò, io!...

Ma non imparò.

Invece, poichè la vocazione gli si faceva ogni giorno più manifesta ella gli pagò una specie di maestro, vecchio suonatore di orchestra, già amico del padre, e col quale aveva conservato una certa relazione. Ma Giorgio dovette andare egualmente a bottega, perchè Anna col suo buon senso di massaia non voleva illudersi sulle voglie impetuose ed effimere della fanciullezza. Giorgio vi si acconciò di buon grado. Sulle prime non doveva prendere che due lezioni la settimana; ma colla seduzione della propria incantevole natura ebbe presto innamorato il vecchio celibe, che vivendo solo come un orso era naturalmente pazzo per i bambini. Gaspare, che abitava in un quartiere povero come quello dell'Anna, quantunque meno remoto, era pieno di piccole manie; adorava la musica, e non vi era mai riuscito a nulla. Roso da una invidia benevola per i veri suonatori, e dopo aver sognato per tutta la vita di entrare nell'orchestra del teatro comunale, per una di quelle arcane ferocie del destino era ancora a suonare nei teatri secondari, dove il direttore di orchestra si mutava tutti i giorni, e i cantanti recitavano male, come egli diceva da gran tempo col solito motto. Egli aveva dunque accettato quella proposta come un complimento; e rivoltosi al ragazzo, che lo guardava con ammirazione mista di terrore:

- Ah! tu vuoi suonare? - aveva detto prendendogli un pezzo di guancia fra le dita ed aggrottando i sopracigli smisuratamente lunghi - ah! tu vuoi suonare il violoncello, vecchio brigante? Non sei di cattivo gusto per la tua età. Il violoncello è il primo istrumento del mondo, è tenore, baritono, soprano, contralto, tutti insieme con un petto solo: basta un petto solo, veh! per far tutto. Si fa anche tutto con una corda sola, ma allora si sa proprio suonare.

- Sì?! - ripetè Giorgio, che beveva con avidità quelle parole incomprensibili.

- Sì, eh! tu capisci, e va bene; ma bada che con una corda sola è più facile impiccarsi che suonare il violoncello. Basterà se impari con tutte. Studierai?

- Sempre, voglio diventare come voi.

- Ah! - esclamò il vecchio colpito da quest'elogio innocente, il primo di sua vita; e chinandosi da tutta l'altezza della propria statura di pertica, colle rughe che gli drizzavano tremolando i peli bianchi della barba, prese il bambino fra le braccia e lo baciò. Giorgio, punto atterrito da quel bacio, glielo rese con una stretta al collo. L'amicizia era fatta.

Allora fu convenuto del prezzo, e il vecchio Gaspare si lasciò andare quasi volentieri fino alla miseria di cinque franchi il mese.

- Mi direte poi se ha una vera disposizione - gli disse l'Anna all'orecchio, mentre il ragazzo era andato nell'angolo a guardare il violoncello dentro la cassa aperta.

- Non dubitate, me ne intendo io.

L'Anna aveva riaccompagnato Giorgio dal sarto, ammonendolo di essere più buono, adesso che per contentarlo ella dovrebbe lavorare due ore di più tutte le notti. E l'Anna, che era nella effusione sentimentale del benefizio, seguitò a parlargli del presente e del futuro, stringendogli la manina, che teneva fra le proprie, con tale emozione, che egli stesso ne fu preso, e si mise a piangere silenziosamente a testa bassa.

- Andiamo, andiamo - borbottò tutta confusa di abbandonarsi così per strada, e di avergli fatto troppo sentire il peso della nuova grazia. Ma Giorgio rialzò la testa, e guardandola cogli occhi lagrimosi:

- Imparerò io, non dubitare - le disse con accento vibrato.

Quel giorno stesso il sarto avendolo licenziato mezz'ora prima, Giorgio si cacciò a corsa per strada, ed arrivò ansante alla porta di Gaspare: era socchiusa, la spinse, e si fermò nel mezzo della saletta male illuminata dalla luce sporca del cortile. La differenza di temperatura e di atmosfera lo destò da quel sogno, e stava già per sottrarsi non visto e vergognoso, quando l'uscio della cucina si aperse, e Gaspare gettò una forte esclamazione:

- Cosa fai lì, brigante - gridò indovinando di già a mezzo, ed ingrossando la voce per ischerzo.

E si avanzò verso di lui.

Giorgio vedendolo avvicinarsi così minacciosamente, con una calotta nera sulla testa, dalla quale gli sfuggivano agli orecchi due ciuffi grigiastri di capelli, il collo avvoltolato in un fazzoletto nero, tutto il corpo dentro un antico soprabito, che gli si drappeggiava sinistramente su quella magrezza di spettro, ebbe un fremito nell'anima.

Egli non capiva ancora la bontà di quella faccia grottesca coi baffi dritti a spazzola, e due occhi cilestri, già appannati dalla vecchiaia, che fra quelle sopracciglie parevano due viole nell'ombra e negli spini di una siepe.

- È troppo presto: sarai già scappato di bottega, birichino?

- No: il padrone mi ha mandato via prima.

- E allora? - incalzò, levando la mano come per volerlo percuotere, ma con celia così evidente, che anche Giorgio se ne accorse.

Giorgio abbassò gli occhi, e stringendosi dentro gli abiti colla moina adorabilmente imbarazzata dei fanciulli, che desiderano e tremano contemporaneamente, non rispose.

- Va pur là, devi essere un buon capo.

Un odore di soffritto, che veniva dall'uscio socchiuso della cucina con uno scoppiettio grillettato, attrasse involontariamente l'attenzione del fanciullo.

- Sei dunque venuto a pranzo? - disse ironicamente il vecchio Gaspare, cogliendo a volo quel movimento, e voltandosi egli pure verso la cucina, dove stava forse per bruciarglisi qualche intingolo.

- No, no - rispose vivamente il fanciullo col rossore della vergogna, e girando gli occhi verso il violoncello nell'ombra del cantone:

- Volevo sentir suonare; - eppoi subito dopo congiungendo le mani ad una preghiera di grazia inimitabile:

- Vada là, suoni, suoni.

E gli tese le mani.

Il vecchio vacillò.

- Va via, va via - fe' attirandolo come per dargli un bacio, e resistendovi: - corri a casa, e di' che pranzi con me: questa sera avrai la prima lezione.

Giorgio studiava con frenesia. Il suo orecchio era così fino, e le sue mani assecondavano così bene ogni atto del pensiero, che la musica pareva discendergli lungo il braccio e passare sul violoncello, piuttosto che salire dalle sue corde.

Quando Gaspare, per meglio apprenderglielo, insisteva lungamente sull'alfabeto musicale, egli si sentiva come preso d'impazienza; ma appena l'altro toccava il violoncello, la sua attenzione arrivava ad una immobilità, che gli produceva sulla memoria gli effetti prodigiosi della fotografia. Si ricordava ogni scambio di dita, ogni movimento di braccia con tale precisione, che, diventato sordo di un tratto, avrebbe potuto integralmente riprodurre la lezione. Per lui tutto diventava ritmo. In preda ad una fissazione non cercava e non sentiva che la nota; per lui un'associazione di idee era un'associazione di suoni, nè più nè meno che per il pittore ogni oggetto è una sintesi di colori. Quindi colla freschezza sensistica del ragazzo distingueva tutta una scala dentro l'oscillazione di una nota, e decomponendola involontariamente come in un prisma cercava la quantità vera di ogni suono; ma tutto ciò piuttosto per un impeto d'istinto, che per una coscienza di pensiero. E come la fantasia imbarcandosi talora sopra una parola, ma lontano lontano attraverso regioni già scomparse dalla storia, egli si allontanava misteriosamente sulle oscillazioni di una nota, l'orecchio teso come una vela al vento e l'anima più bianca della vela addossata nella sua conca. La gente, non accortasi sulle prime del mutamento, prese quindi a risentirsene, quando le sue disattenzioni diventarono addirittura distrazioni, nelle quali si perdeva lunghissimi tratti. L'Anna taceva o si limitava a qualche amorevole rampogna, ma il padrone, un uomo sulla quarantina, di aspetto bilioso e di umore sempre nero, passava oltre, ed erano scappellotti, che gli rintronavano gli orecchi come colpi di piatti.

Intanto viveva una vita stranamente operosa, giacchè l'Anna lo aveva persuaso a studiare molte altre cose per figurare un giorno decentemente nel gran mondo. Si alzava ogni mattina per tempo, faceva le lezioni, poi andava a bottega, e la sera da Gaspare prima del teatro: quindi tornava a casa, e fino alle dieci era musica. Giorgio non aveva nè compagni nè amici: viveva solo, non parlava quasi mai, ma quella precoce e sfrenata attività cerebrale gli aveva di già mutata la fisonomia. Gli occhi gli si erano fatti più grandi, la fronte più alta, le guancie più pallide, di un pallore quasi cereo, sotto al quale le vene azzurrine sembravano nervature di corolla. Il collo, forse troppo esile per sostenere il peso di quella testa, si era piegato leggermente a sinistra, le spalle gli si erano ingobbite, mentre i magnifici capelli biondi, troppo lunghi per la sua età, gli cadevano ancora in anella, e davano alla sua testa una rassomiglianza meravigliosa col suonatore di violino di Raffaello. E con quei panni poveri e trasandati, i calzoni a pillacchere, che gli battevano sulle scarpe spelate, la giacca più lunga da una parte, un cappello piccolo rigettato sulla nuca, quando passava per istrada cogli occhi inchiodati sui ciottoli, o in alto nella dilatazione di uno sguardo, che non vedeva già più, molte signore si voltavano ad esaminarlo con ammirazione pensosa.

Egli non sapeva nemmeno di essere bello.

Un desiderio lo corrodeva atrocemente senza che osasse aprirsene coll'Anna, della quale cominciava a comprendere gl'immensi sacrifici. Anzi talvolta pensava rabbrividendo a quella sua vita di ragno, sempre cogli occhi sulla tela, il naso affilato dalla malattia, curva sul manubrio della macchina, le spalle negli orecchi e le mani scheletrali piantate sul tavolino come una branca di sparviero. Sempre che entrasse in casa, la trovava nella stessa posizione, ed ella si voltava sorridendo.

Giorgio avrebbe voluto un violoncello, magari cattivo, su cui sfogare il tumulto, che gli intronava la testa. A volta a volta gli pigliava una smania di prove sopra qualche nota o un gruppo, che si torturava ad intrecciare mentalmente di cento guise, per fonderlo poscia in uno scoppio o diffonderlo in una lontananza: poi nella questua quotidiana per le strade raccoglieva troppi motivi, che Gaspare non gli permetteva mai nelle lezioni, giacchè il suonare a mente, diceva lui, guastava l'orecchio e la mano, il sentimento e la testa. Ma gli esercizi del vecchio metodo, col quale Gaspare era diventato suonatore di ultima fila, non bastavano più a Giorgio.

La sua prodigiosa attitudine finiva talvolta per spaventarlo.

- Chi ha inventato la musica? - gli chiese un giorno il ragazzo.

Gaspare rimase sconcertato, e dopo lunga esitanza rispose con un sorriso:

- Dio.

- Bravo! - esclamò il ragazzo alludendo all'inventore.

Adesso Giorgio aveva trovato un altro grande divertimento.

La sera sulle otto, all'ora del teatro, andava dietro un vicolo, nel quale arrivavano a quando a quando dei brani di opera. Il vicolo era quasi buio e deserto: egli si appoggiava alla parete nell'ombra di una porta, ed ascoltava colla fronte in alto, quasichè dai tetti del teatro s'involassero col soffio della musica le visioni fantastiche della scena. Così le ore gli passavano come minuti. Ma per quanto i suoi sensi fossero fini e l'anima li acuisse ancora, gli accadeva troppo spesso di precipitare nel silenzio dopo di essersi innalzato sulle ali di qualche nota, o di aver turbinato in un pieno tempestoso di orchestra. E allora il dramma, che si agitava lungi nelle profondità imperscrutabili di quei muri, pareva inabissarsi sinistramente nel buio di un sotterraneo. Quindi colla fantasia del ragazzo proclive alla fola, e i sensi sureccitati da quelle crisi violente di musica e di silenzio, si creava una fantasmagoria fosca di visioni: si sentiva il freddo del terrore sulla fronte, vedeva l'ultima luce di un velo bianco nelle tenebre, ascoltava la ressa spaventosa di un passo nell'ombra, un tintinnio lugubre di ferraglia, che discendeva nelle spirali del buio; e, trattenendo involontariamente il respiro, si stringeva al muro, mentre il vicolo gli si allungava davanti nella notte, e il fanale lontano del gas non illuminava alcuno col suo chiarore rossastro. Gli pareva di essere solo, perduto in una sciagura misteriosa: ma d'improvviso scoppiava un altro canto, l'orchestra si appressava colla sonorità trionfale di una banda, i cori arrivavano colla giocondità del loro accordo indebolito attraverso i muri come un rumore discreto di festa, nella quale la voce pura del soprano sparpagliava dei mazzi di note o si alzava in un inno luminoso come un razzo. Poi uno strepito copriva tutto come un ululato di bosco, un fracasso di uragano prigioniero entro una sala, e che stia quasi per sbalzarne la volta. Il pubblico applaudiva: le teste si agitavano, gli occhi balenavano, le mani si percotevano l'una l'altra con rabbia demente, mentre una donna vestita di bianco e d'oro, ritta sui lumi della ribalta come sopra i gradini di un altare, curvava lievemente la fronte raggiante di un vapore di gloria. Allora anch'egli vedeva attraverso i muri, come se si trovasse nella sala; i palchi erano pieni, le signore si sporgevano dai parapetti, metà della platea era in piedi: un'onda di teste rimbalzava e cadeva quasi giù dall'orlo del loggione pieno di urla, l'orchestra era muta, e i suonatori cogl'istrumenti in mano guardavano dentro il palcoscenico, illuminato come il palazzo di un sogno, ricco come la reggia di un imperatore immaginario. Poi una tenda calava su tutto quell'incanto e la reggia spariva. Ma il frastuono della sala cresceva, la tempesta diventava bufera, si udivano grida di trionfo e singulti di naufragio; i lumi roteavano, le teste della platea fluttuavano come la schiuma di un'onda, i veli delle signore tremolavano come altrettante alberelle fiorite che si sfrondino tra il profumo, i bastoni percossi sul pavimento imitavano le vibrazioni secche della gragnuola. L'uragano cresceva, aveva delle folate e delle raffiche, degli aneliti e dei vortici, finchè la tela s'involava ad un ultimo scoppio, e riapparivano la reggia e la regina. Allora era un trionfo, una demenza di evviva, una girandola di sguardi, una pioggia di sorrisi bianchi come i gelsomini; i cortigiani erano scomparsi e le musiche tacevano.

E Giorgio ritto per aria, nel mezzo della sala, simile all'angelo del lampadario dorato, si sentiva spingere dal vento di tutti quegli applausi verso il palcoscenico, sul quale la regina si ritirava l'ultima volta nella maestà del suo paludamento bianco e oro, mentre le ovazioni stormivano ancora, e la tela si abbassava lentamente sugli ultimi fremiti della tempesta.

- Ah! - ruggiva Giorgio scagliandosi sul palcoscenico, di cui non restavano più che il basamento della grande sala e i mobili, intanto che il pubblico, in piedi per andarsene, gli aveva già voltato le spalle.

Ma il telone gli precipitava sul collo come il ferro di una ghigliottina.

Il pubblico non era più quello.

- Ah!

Con quest'esclamazione Giorgio si toglieva quasi sempre dal vicolo, accorgendosi di aver fatto tardi. E nella notte quelle visioni di gloria lo inondavano di splendori. L'ideale della sua arte, così poco mondano per se stesso, si vestiva di quella decorazione, mentre col violoncello fra le ginocchia gli pareva di sospendere ai fili invisibili delle proprie note migliaia e migliaia di anime sconosciute. Allora una grande ascensione avveniva nel suo cuore, come se un altro spirito vi si alzasse nel rossore di un'alba polare, e le parole del violoncello diventassero il suo divino linguaggio.

Ma ormai Giorgio ne sapeva quanto il maestro, che per quella assimilazione involontaria delle nature incompiute, le quali credono di svilupparsi nelle nature più ricche, assistendole, considerava come propri i suoi progressi. Infatti Giorgio aveva tutto ciò che mancava a lui e nelle proporzioni più giuste; la misura, il senso fine, il sentimento contenuto ed elevato, l'attitudine fisica, questa materialità tremenda ed incomprensibile, che fa uscire accenti sovrumani dal gozzo di un cantante imbecille, e toglie al più gran genio di poter esprimere, altrimenti che scrivendolo, il proprio canto. Perfino il difetto delle mani troppo grandi lo favoriva. Un giorno finalmente Gaspare gli permise di portarsi a casa il violoncello per far sentire all'Anna la romanza del tenore nel terzo atto del Faust. Giorgio avrebbe voluto che Gaspare assistesse all'esperimento, ma egli ricusò per una modestia, che era una grossa superbia. Anna strabiliò alla novità inaspettata, ma come intese quella musica di Giorgio, il cuore le sobbalzò. Giorgio aveva una fisonomia signorile, alla quale l'ispirazione di quel momento aggiungeva un significato romantico. Ella ascoltò colle lagrime agli occhi, e il cuore grosso di una gioia, che era quasi un dolore. Era strano, era impossibile, che Giorgio potesse suonare così, fosse così bello!

Gli anni erano passati inavvertiti. E il loro spirito confuso cercava a tastoni le date nella memoria per misurare la strada percorsa e contare i giorni vissuti col povero orfanello, allevato da lei per carità di madre sterile. Ma quando Giorgio all'ultima nota della romanza le cacciò gli occhi negli occhi col raggio dell'artista, ella si sentì ferita, e si allentò sulla sedia. Una rivoluzione le scoppiava nell'anima, accumulatavi insensibilmente nei lunghi giorni solitarii col ragazzo, che le diventava uomo alle sottane, e le gettava negli orecchi le modulazioni di tutte le voci, le voci di tutte le passioni.

- Dio! che cos'è? - esclamò Giorgio, correndo ad abbracciarla - non sei contenta?

L'Anna trasalì, e lasciandosi cadere la testa sul petto soffocò un:

- Oh!

Giorgio tremava, ma ella si levò impetuosamente, lo respinse, e andò all'armadio. Giorgio non l'aveva mai veduto aperto. Anna si cercò febbrilmente la chiave in tasca, e spalancandolo alla fine, gli mostrò dentro una cassa di violoncello: l'altro frenò appena un urlo. Con un forza nervosa, che non si sarebbe mai creduta nel suo corpicciattolo, essa l'afferrò, la trasse dall'angolo, la posò per terra con una mano sola, e girando convulsamente la chiavetta, che era ancora nella toppa d'ottone, scoperse un magnifico violoncello.

La cassa era foderata in felpa verde, scolorita.

Giorgio si era appressato.

- Eccolo! - gli disse con un gesto quasi solenne.

- Era di mio padre, bada! Sai che ti amo molto per dartelo... e tu... - ma un nodo di tosse, che pareva un singhiozzo, le soffocò la voce, squassandole il petto. Una vampa di rossore le salì dall'erpete delle guancie sino alla fronte; ella chiuse gli occhi, e con accento fioco, il volto annebbiato da un cordoglio inesprimibile, proseguì adagio:

- Mio padre mi ha sempre detto che è un istrumento prezioso, è un Albani. Mio padre era primo suonatore nell'orchestra del teatro comunale, dava dei concerti, e avrebbe potuto diventare un signore: invece è morto lontano, nella miseria, lasciandomi questa sola eredità. Ho voluto tardare a dartelo, perchè volevo essere sicura che saresti un suonatore: ora ti credo. Tu sarai più bravo di lui, io non me ne intendo, ma lo sento nel cuore. Ecco la mia eredità, ti ho dato tutto.

Giorgio ebbe un singulto.

- Non piangere - ella proseguì con voce sorda; - forse verrà anche la tua volta, ma tu almeno potrai piangere sul tuo violoncello. Io no...non posso... - esclamò agitando la testa, e dando in un grido, che tentò invano di nascondere sotto una risata.

- Porta via - soggiunse allungandoglielo - : va di là in cucina, e suona quello che vuoi.

Così dicendo tornò al lavoro. Giorgio rimasto coll'istrumento in mano, istupidito e commosso, non sentiva nè il fracasso procelloso della macchina, che pareva rompersi sotto le pedate, nè il soffio sibilante di quell'anelito, che la faceva quasi rassomigliare ad una locomotiva.

Poi si distrasse, e, lasciando l'istrumento appoggiato ad una sedia, le venne dinanzi. Anna aveva il naso sulla tela; le mani le tremavano convulsamente.

Ella non gli badò.

- Anna - susurrò il ragazzo, allungando la mano sulla tela per pigliarle una mano; le strinse una palma fra le dita, e, curvandosi, aspettò che levasse il viso.

La macchina proseguiva a corsa.

- Anna! - replicò più forte, vibrando di tutto quel trasalimento.

Ella rallentò il pedale.

- Tu sei la mia mamma.

- La tua mamma non ti amava.

Ma come pentita fermò la macchina, e gli guardò in faccia. Tutti e due avevano le lagrime agli occhi.

- Vuoi un bacio? - esclamò Giorgio colla grazia di un bambino, che non ha nulla di meglio da offrire.

- Andiamo, sì, l'ultimo.

Da quel giorno l'umore dell'Anna fu più ineguale. La mattina non andava più in cucina a farlo alzare, non lo aiutava più a vestirsi, non gli dirigeva più le solite ammonizioni di portarsi bene a bottega e di non sprecare i pochi soldi delle mancie. Invece lo trattò da uomo, quasi col rispetto dovuto ad un dozzinante. Ma egli non se ne accorgeva, accettando quel miglioramento con un senso di egoismo soddisfatto; e a poco a poco fu meno diligente a bottega.

Il padrone in fine di settimana gli trattenne due franchi. Giorgio, che ne aveva già fatti altri tre di debito per comprare della musica, rimase con pochi soldi in tasca, e non si arrischiò di consegnarli all'Anna, come faceva sempre: ma ella non mostrò di notarlo. D'allora tutto il danaro fu speso in musica; Gaspare gli prestò la propria, se ne fece prestare da altri per lui, che passò le notti intere a suonare col sordino, o accennando semplicemente le note coll'arco, ed ascoltandole nel pensiero. Non dormiva, non mangiava quasi più. Dal canto proprio l'Anna, che era sempre vissuta di un becchime da uccello, smise anch'essa di mangiare: l'erpete, allargatosi mano mano, le nascondeva un altro rossore più cupo nello scavo delle gote. E quel lavoro ostinato cresceva sempre. Adesso ella si alzava più presto e si coricava più tardi, cucendo dei monti di roba, curva sulla macchina, gli occhi appannati da quell'eterno riverbero della tela, sulla quale di notte il lume a petrolio stendeva la propria luce oscillante e veemente. E poichè la lunga abitudine la dispensava quasi da ogni attenzione, ella si lasciava come scorazzare da quel rotolio, che le toglieva di vedere o di sentire tutto il resto. Solamente nella estenuazione della fatica qualche volta abbandonava improvvisamente regolo e pedale; e allora la sua faccia, insensibile nel lavoro come quello di un automa, prendeva un'aria di rassegnazione mal doma, con una fiamma rossa negli occhi. Ma non parlava quasi mai, nemmeno seco stessa, come i solitarii, o tutt'al più con un gesto, un sorriso, che erano tutta una fisonomia, il riassunto sublime di un discorso desolante.

Un giorno, portandosi alla bocca un pezzo di tela per trattenere un insulto di tosse, vi lasciò una bava sanguigna. Rimase un istante pensierosa, poi un sarcasmo le contrasse la bocca.

- Ohi! - esclamò - la gioventù, l'amore e la morte hanno il medesimo segno.

Ma, invece di riprendere il lavoro, si buttò sul letto.

Giorgio arrivò a casa più presto, e, trovandola coricata, sbigottì.

- Stai male?

Ella saltò a sedere sul letto col volto infiammato.

- Perchè? no.

Poi Giorgio le narrò come Gaspare avesse tanto parlato di lui col direttore d'orchestra, che questi aveva promesso di venirlo a sentire, e quindi ci poteva essere la speranza di un concerto alla Società filarmonica. Pronunciando queste parole, il cuore di Giorgio batteva come un pendolo.

- Sarà il principio della tua fortuna.

- E anche della tua.

Ella si era seduta sulla sponda del letto.

- Fai ancora all'amore? - gli domandò improvvisamente - già i compagni ti avranno messo su.

Giorgio ebbe una vampa di rossore, e si coprì di tale confusione, che l'Anna comprese la sua verginità, ed ebbe un brusco movimento.

- Allora bisogna che tu sia ben vestito; con questi stracci non ci puoi andare al concerto. Domani mattina dirai al padrone che ti prenda la misura di tutto un abito nero: il nero ti farà parere un signore; perchè vedi, me ne intendo io, ho fatto la sarta. Colla tua pelle bianca e i capelli biondi... Saprai poi salutare, quando vieni fuori, a tutta la gente, che ti guarda negli occhi...? Figurati che la sala sarà piena, ci saranno delle signore e delle ragazze, che ti batteranno le mani.

- Suonerò bene, non aver paura.

- E quando tornerai in questa miseria, ti parrà di soffocare e penserai che tutte quelle belle signore, che ti guardavano, saranno nei loro appartamenti parlando forse di te. Sono sicura che incontrerai, ma poi ti sembrerà di star peggio, qui, solo con me.

- Tornerò a suonare - rispose Giorgio coll'ingenuità dell'egoismo: - darò degli altri concerti.

- Anderai a girare il mondo?

- Sì, sì.

- Allora guadagnerai dei quattrini; i signori ti faranno dei complimenti, e ti inviteranno a pranzo per sentirti suonare dopo.

- Non ci andrò - ripetè con un impeto d'orgoglio.

- Perchè?

- La mia musica vale di più: non è già un divertimento.

Anna si arrestò; poscia guardandolo con malinconia:

- E quando sarai famoso?!

- Presto - replicò Giorgio, che non comprese il significato della domanda.

- Va a suonare, va.

Era vero. Il direttore d'orchestra venne a casa di Gaspare, e si mostrò poco commosso. Incoraggiò il ragazzo a proseguire, ma notò subito molti difetti di scuola e di interpetrazione: i tempi non erano sempre giusti, le note affettavano una smanceria di linguaggio umano, i bassi avevano poca profondità. Solo gli acuti gli piacquero.

- I vostri acuti sono perlati - disse finalmente; - avete superato una grande difficoltà.

Quindi Gaspare gli si raccomandò per un concerto, dipingendo alla propria maniera la posizione di Giorgio, ed insistendo con tale servilità, che l'orgoglio del ragazzo cominciò a sanguinare.

Il direttore promise così così, ingrandendo gli ostacoli, il pubblico che era svogliato, i concerti giù di moda, e sfruttati da tutti i grandi suonatori vaganti; nullameno procurerebbe, e disse al ragazzo di andare da lui per la risposta decisiva e per intendersi sulla musica. Egli aveva scritto un concerto per violoncello e pianoforte, ancora inedito, che potrebbe servire a meraviglia.

- Anzi, anzi - esclamò Gaspare - sarà una magnificenza.

Quando il direttore fu andato via:

- Vuole che suoni la sua musica, ecco perchè!

- Eppoi se non è bella, mi darà la colpa - ruppe improvvisamente Giorgio.

- Come siamo superbi! - rispose Gaspare, che in fondo divideva il dispetto del ragazzo per la freddezza del direttore; ma fortunatamente tutto andò per la meglio. Giorgio accettò di suonare quel concerto, una povera imitazione di Vieuxtemps, aggiungendovi un'elegia di Fumagalli, e la sublime romanza del Tannhauser. Per un ragazzo era fin troppo. Aveva un mese di tempo, Gaspare s'incaricava di tutto.

- Tu studia e lascia fare.

Fu convenuto che Giorgio per quel mese non andrebbe a bottega; Gaspare avviserebbe il padrone, e l'Anna non ne saprebbe nulla fino all'ultima sera.

Giorgio doveva passare tutte le giornate in casa di Gaspare studiando.

Allora tutta la sua espansione cessò. Colla precocità di tutti i grandi artisti egli intuiva di già la vita in ogni rapporto coll'arte: quel concerto doveva essere la sua prima e più importante affermazione. Bisognava stordire il mondo per regnarvi poscia. La musica era la più grande delle arti, il violoncello il migliore degli strumenti. Egli lo sapeva e tutti lo dicevano, ma, appunto per questo, guai se non arrivasse ad esprimersi come sentiva, a far piangere come aveva pianto tante altre volte suonando!

Egli non sapeva ancora darsi la formula della perfezione, che sognava, e nella quale dovevano sparire scrittore e suonatore, partizione e strumento, la nota diventare una parola, e la parola un verbo. Allora solamente la musica era musica, quando diceva ciò che tutte le altre arti non possono, e parlando un linguaggio intelligibile a tutti, quantunque intraducibile per ognuno, ricordava alla coscienza ciò che essa non ha mai saputo, ma forse sempre presentito.

Giorgio sentiva tutto questo in confuso e, se non misurava sempre l'altezza cui la passione dell'arte lo spingeva, ne aveva già le vertigini e il freddo. Più spesso lo sviluppo del linguaggio musicale lo preoccupava dolorosamente. Egli lo avrebbe voluto col rilievo della plastica e la luce dei colori: quindi il pianoforte, colle sue note già fatte, di una misura e di un accento immutabile, non era per lui nemmeno un istrumento. Invece il violoncello aveva tutti i fremiti della carne e le vibrazioni del pensiero: ma come la parola parlata, la sua parola ritmica doveva dir tutto e mostrar tutto. Da qual cuore usciva dunque quell'elegia di Fumagalli? Era il primo singhiozzo, o l'ultimo rantolo del dolore? Quelle lagrime cadevano colla rugiada dell'alba, o con quella della sera? Gli occhi avevano la profondità del cielo o quella del mare, cerulei o neri? Cercavano in cielo, o scrutavano sotto terra? Quando egli suonava quell'elegia gli pareva di vederne la donna, conosceva il suo dramma, udiva la musica nel suo cuore, e la ripeteva sul violoncello senza sapere come o perchè.

Ma la sera del concerto quella evocazione della sua anima doveva essere visibile a tutti, lì, presso lui, vestita come un angelo, colla veste troppo lunga, che le si ammassava ai piedi, e il corpo spossato.

Quel fantasma era una ossessione, che non lo lasciava più.

Gaspare gli andava dicendo:

- Studii troppo, ti ingrosserai la mano e l'orecchio.

Finalmente arrivò la vigilia del gran giorno.

In quel mese l'Anna era talmente deperita, che quando Giorgio se ne accorse rimase sgomento. Nullameno ella gli aveva cucito sei camicie alla moda e due cravatte di raso nero, che lo fecero piangere di una tenerezza mista quasi di rimorso. L'Anna si era forse uccisa a lavorare per lui; infatti non le restavano più che la pelle e le ossa, con due grandi occhi azzurri giù nella profondità dell'orbita, brillanti di una luce intollerabile. La sera, quando Giorgio tornò di bottega coll'abito nuovo, ella pretese che se lo provasse, e gli accomodò con civetteria di donna il nodo della cravatta e i riccioli sulla fronte. Ma dopo un lungo esame concluse che il soprabito era mal fatto.

- Quando sarai ricco, bada di vestir sempre bene - esclamò con un'ammirazione malinconica, che lo fece arrossire; quindi:

- Adesso va di là in cucina; lascia qui il violoncello, ed entra come se questa fosse la sala. Io mi metto là in fondo; tu entri, fai l'inchino al pubblico, ti accomodi a sedere, e suoni. Ti voglio vedere.

- Perchè non vieni al concerto?

- Io, così! finiresti col vergognartene.

Giorgio, che si sentì penetrato troppo, fin dove non voleva arrivare egli stesso, abbassò il volto; ma ella proseguì:

- Devi entrare disinvolto, sai? Non t'impacciare, il mondo è senza simpatia per quelli che lo temono, senza pietà per quelli che lo fuggono. Vediamo, va.

Giorgio andò: stette nella cucina due secondi, poi aprì l'uscio, e si avanzò superbamente fino alla sedia, presso alla quale aveva lasciato il violoncello; fece un piccolo cenno col capo, e si adattò l'istrumento fra le gambe, saggiandone l'accordatura.

- Vuoi che suoni? - disse smettendo la posa teatrale, e rivolgendosele con un sorriso.

- No - ella rispose trattenendo uno sbocco di sangue.

Quindi aperse il comò; ne trasse uno scudo, e glielo offerse.

- Divertiti, va a teatro.

- Ma perchè mi fai tutto questo? - proruppe commosso ed umiliato da quella bontà inesauribile.

- Dà mente a me, distraiti; domani sera suonerai meglio, altrimenti stanotte non dormirai.

- Allora mi spoglio.

- Mai; avvezzati l'abito addosso, se no domani sera parerai impacchettato.

Giorgio uscì trionfante, e l'Anna si buttò sul letto piangendo.

Si sentiva morire! Un gran bollore di sangue le montò dai polmoni con una nausea calda: potè appena nello spasimo afferrare il vaso da notte, e lo empiè mezzo. Un pallore cinereo le si diffuse sotto quel rosso ecchimosato dell'erpete, e le fe' una fronte di morta. Ricadde sull'origliere. In un mese la tisi, aiutata da quell'atroce lavoro della macchina, l'aveva uccisa senza uno scoppio di tosse. Anna lo sapeva. Era notte, il lume a petrolio ardeva sul tavolo: la camera era quieta, fuori la strada silenziosa. Allora le parve di non essere più nel mondo, e un pianto a goccioloni le cadde dagli occhi, mentre l'anima costernata le si sdraiava in fondo alla coscienza come dentro al sepolcro. Riassunse tutta la propria vita con uno sguardo, una vita grigia e taciturna, di lavoro automatico, in una stamberga, in fondo ad un quartiere abbandonato, dirimpetto ad un muraglione, che le toglieva ogni prospettiva. Ella non aveva vissuto, non aveva avuto nè mamma nè babbo, non aveva visto nulla, nè posseduto nulla. Era calata lungo la corrente dei propri giorni, come per uno di quei fossi metà ignoti e metà sotterranei: adesso il fosso era secco, e sovra i margini del suo pantano nemmeno un fiore agonizzava. Poichè non aveva avute speranze, non aveva rimpianti. Il sepolcro era per lei un'altra camera, in un quartiere abitato da gente ignota, perchè nessuno è più ignoto dei morti. Così il crepuscolo della sua giornata tramontava nella notte, e l'ombra dei suoi giorni si perdeva nella eternità. Tutto questo era giusto, ma era stato altresì inutile. Ella, che non aveva parenti, era senza santi. Però in quell'infinita oscurità dell'indomani, che le si diffondeva già intorno, e in quell'ultimo dolore del corpo singhiozzava con tale passione, che quel dolore da solo non avrebbe potuto produrre. E, cercando spasmodicamente colla testa dove riposarla, girava gli occhi nella curiosità desolata dei moribondi!

Anna aveva dunque vissuto?

Poi nel fosco e freddo paesaggio del passato distinse qualche sprazzo di luce, qualche angolo fiorito: un uccello cantava da una siepe, un sorriso balenava da una pozzanghera. Poi arrivavano rumori di festa, e la gente cominciava a passare; uno si era fermato, mentre il sole irrompeva con tutta la potenza del proprio incendio. Quindi il sole impallidiva, e passava altra gente: erano donne e bambini, sorrisi e sarcasmi, grida e chiacchierii; una monotonia inesauribile di attività minute in una immensa società misteriosa.

Anna aveva dunque vissuto?

Bisognava morire. Ma perchè soffrir tanto? In ultimo la vita si divide; una metà guarda indietro: cosa faranno coloro, che lasciamo? Una metà guarda innanzi: dove andremo noi, che partiamo? Ella pianse, poscia il dolore le si calmò in una specie di sonnolenza. Non dormiva; il silenzio della camera le pesava sul respiro, la fiamma del lume a petrolio le bruciava nel petto. Le pareva impossibile di poter confessare: ho vissuto! e subito dopo morire. In quel momento ella sentiva come non mai prima la poesia irresistibile della vita e del moto. Voleva essere in due anche lei, perchè tutti sono in due nella vita, la sposa ed il marito, la madre ed il figlio. Ella invece, avendo dovuto esser sola, non era mai stata nulla. Quindi il mistero del mondo si complicava del suo piccolo destino, il dramma eterno della vita colla sua effimera tragedia. Perchè dunque non aveva mai potuto amare ed essere amata? Tutte le forme dell'affetto le si erano perciò agglutinate mostruosamente nella coscienza: aveva ancora le tenerezze della bambina, le simpatie della giovinetta, le affezioni della ragazza, le passioni della donna; poi tutte le soavità dell'amicizia e gl'impeti dell'amore, le idolatrie della madre, e le bramosie della sposa, gli entusiasmi della vergine, e le gelosie della ganza. Ella, che aveva vissuto tanti anni così calma, credendosi quasi una donna dell'altro mondo, cominciava a comprendere di essere come tutte le altre. Perchè dunque morire? Perchè aveva dovuto suicidarsi con quel lavoro della macchina? Perchè le avevano fatto inghiottire tutte le amarezze, e adesso le facevano sputare tutto il sangue? Perchè dunque c'era Dio?

Morire, abbandonare Giorgio nel mondo senza esperienza e senza aiuto!

- Giorgio! - mormorò fiocamente spalancando gli occhi e avventando come un grido in faccia ad un invisibile interlocutore.

Giorgio non venne a casa che tardi, ella lo sentì, ma finse di dormire. Il ragazzo rimase due minuti a guardarla con una tenerezza piena di apprensioni, e andò a coricarsi in cucina. L'indomani Giorgio era invitato da Gaspare; passò la giornata fuori.

Benchè si sentisse molto male, l'Anna si era alzata per non scoraggiarlo: vegliò al suo abbigliamento, e, appena sola, tornò a letto. Contro tutte le istanze di Gaspare stesso aveva rifiutato di assistere al concerto, prestando per suprema ragione la mancanza di un vestito adatto. Fu l'ultimo giorno. Lo sfinimento di tutte le forze le dava la rassegnazione dell'impotenza. Quindi scrisse una lettera, che era il suo testamento, se la nascose sotto il capezzale, e ricoricandosi disse con un mesto sorriso le stesse parole di Byron:

- Adesso dormiamo.

La finestra era socchiusa: il gatto era scappato fin dal gennaio dietro una misteriosa avventura di amore, il canarino era morto coi primi freddi dell'anno.

Ella se ne ricordò, e il malinconico destino di quel povero uccello, vissuto sempre in gabbia, che non aveva conosciuto nè la patria lontana, nè la nuova dove avevano trasportati prigionieri, chi sa da quanti secoli, i suoi avi, le parve pieno di triste affinità col proprio. Anche il canarino non aveva avuto nè nido nè figli: perchè dunque era vissuto?

Dopo una lunga meditazione, nella quale si rimproverò di essere stata la sua carceriera, se ne distolse susurrando:

- Beh! tanto è finito.

Non ci pensava: tutto le moriva in cuore, anche il problema della vita. Allora ebbe un letargo, era già morta.

Passarono molte ore, poi si destò come ad un richiamo.

- Il concerto?!

Erano circa le sei della sera.

D'improvviso tutto quell'egoismo dell'agonia svanì, e rientrando precipitosamente nel mondo vi riconobbe tutti i viventi. Fu un tumulto. Il concerto, Giorgio, il suo trionfo, l'amore di madre e di donna, che gli portava e che sembrava già morto, tutto rifulse in quell'ultimo crepuscolo. Rivide Giorgio, e le parve di abbracciarlo stretto per portarselo nella eternità. Ma in quell'abbraccio si sentì mancare il respiro: le mancava davvero.

Allora colla ostinazione e l'avvedutezza dei moribondi si stese sul letto, e vi rimase cercando di raggranellare tutti gli atomi delle proprie forze; fece una provvista di aria e di pensiero, stette ancora chi sa quanto così; quindi lasciandosi scivolare dal letto con una circospezione indefinibile, adagio, a passi insensibili per consumare meno energia, arrivò al tavolino.

Voleva scrivergli una lettera.

Quando sentì di riuscirvi, mise un sospiro di gioia, la più intensa di tutta la sua vita. Era quasi felice nel sentimento poetico della propria morte: un chiarore di aureola le imbiancava il volto.

Scrisse un pezzo, poi chiuse la lettera, e, sorridendo come una bambina, tornò a letto.

- Ora è proprio finita.

Ma poco dopo intese aprire violentemente la porta; Giorgio entrò rosso ed ansante.

- Fra un'ora incomincia - esclamò - . Sono scappato, volevo vederti.

Ella, che non capì quella curiosità affettuosa, le diede un significato tragico.

- Non aver paura, morirò dopo - disse con voce quasi insensibile.

- Vieni?

- Sento di qui.

In quel momento, animato dalla corsa e dall'emozione, Giorgio era bellissimo: non sapeva bene quello che si facesse: distingueva appena gli oggetti. La espressione morente dell'Anna gli sfuggì.

Ella chiuse gli occhi abbacinata dalla sua visione.

- Scappo.

E scappò senza attendere la risposta.

Era notte: un chiarore pallido, filtrando per la finestra, bagnava cinque o sei mattoni del pavimento, il grugno brunito della macchina e lo specchietto della parete avevano a quando a quando un raggio. Tutti gli altri mobili erano spariti, la piega del lenzuolo, prolungandosi verso terra, faceva una chiazza indecisa nell'ombra.

Anna sonnecchiava: per un momento le parve di udir suonare, poi più nulla.

Aveva freddo, ma non ebbe la forza di ravvoltolarsi addosso le coperte, e si tirò solo un lembo del lenzuolo sul volto. La notte e il freddo crescevano, il chiarore si appannò, poi si spense del tutto nella camera.

Non si intese più nulla.

Alle undici il rumore di un fiacchero, che si fermava alla porta, salì: poco dopo Giorgio rientrava col violoncello in una mano, e il fiammifero nell'altra. Era raggiante, si accostò premurosamente, ma udendo il suo piccolo respiro rantoloso, e vedendole gli occhi chiusi, non osò chiamarla. Anna si teneva con una mano il lenzuolo sulla bocca, l'altra le pendeva abbandonata lungo la sponda del letto.

Stette così infra due di narrarle tutto, le sale, il pubblico, la propria paura, poi i primi applausi, applausi sempre, un trionfo, una demenza, i signori che gli stringevano la mano, le signore che lo guardavano cogli occhi inumiditi: e Gaspare, il suo padrone, il sarto che era venuto in camerino a dargli un bacio e a dirgli che gli regalava il vestito. Ma l'Anna aveva gli occhi chiusi, e il suo piccolo respiro rantolava insensibilmente fra le fila del lenzuolo.

Giorgio guardava sempre col fiammifero, riparandolo coll'altra mano. Appoggiò il violoncello alla testiera del letto come per farle capire, se si destava, di essere tornato, e sulle punte dei piedi andò in cucina.

Era così affaticato da tutte quelle emozioni, che si addormentò.

Quando si svegliò la mattina, era solo.

L'Anna era morta; non aveva più il lenzuolo sul volto, ma il lenzuolo era macchiato di sangue.

Gaspare aveva ospitato Giorgio.

Sciaguratamente la lettera trovata sotto il capezzale dell'Anna non giovò a nulla; alcuni parenti lontani s'impossessarono dei pochi mobili, senza che si trovasse un avvocato per difendere la causa dell'orfanello. D'altronde nè Gaspare nè Giorgio insistevano; questi si portò via i panni, la musica, il violoncello, ed entrò con Gaspare nell'orchestra sotto il solito direttore; poi un impresario gli offerse di fare un viaggio per l'Italia e per l'estero dando concerti. Giorgio accettò con entusiasmo. Però i loro conti fallirono quasi interamente. Quindi da Venezia, la terza stazione del pellegrinaggio, entrarono in Germania già decaduti dalle prime pretensioni, fermandosi in tutte le città, e adattandosi alle esigenze della speculazione per fare quattrini. Se non che quella vita, tanto sognata, finì presto per mortificargli, colla passione della musica, la squisita sensualità artistica. Ogni giorno si faceva più malinconico, non parlava, ricusava tutte le sollecitudini dell'impresario, il quale per tenerlo allegro avrebbe voluto visitare i luoghi dove transitavano. Invece di passare come uno straniero poetico e fatale incantando la gente, e lasciandosi dietro una lunga commozione di ricordi, si accorgeva di non essere che un povero ragazzo in mano ad un mercante, il quale lo faceva suonare negl'intervalli delle commedie in tutti i teatrucoli, e, urgendo il bisogno, gli avrebbe fors'anche imposto le birrerie. Fortunatamente l'impresario, una natura di boemo, metà speculatore e metà dilettante, che aveva vissuto la più strana vita di avventure, si compiaceva troppo nella mobilità di quel vagabondaggio per pensare molto a sfruttarlo. Quindi trattava Giorgio da camerata, dandogli volta per volta pressochè la metà vera dell'incasso; e mentre egli la spendeva il più presto possibile in bagordi, ai quali aveva la prudenza di non invitarlo, per non compromettergli la salute, Giorgio la riponeva quasi integralmente.

La sua sola e grande spesa erano i vestiti e le biancherie; voleva scendere ad un albergo più che decente, arrivare e partire sempre dal teatro in carrozza. Ma sebbene fosse oramai un uomo, era ancora vergine o quasi, giacchè l'attività incessante dell'anima gli produceva come un'inerzia nei sensi. Vestiva di nero, come gli aveva consigliato l'Anna, e, unico malvezzo della professione, portava i capelli in una pioggia di riccioli sulle spalle, i quali gl'incorniciavano romanticamente la magnifica testa, fine nella bocca, altera e quasi brusca nell'altezza e nella convessità della fronte. Una lanuggine trascurata gli metteva un pallido color d'ambra sul pallore quasi cereo delle gote, che un largo cerchio turchino sotto gli occhi solcava con una patetica espressione di malattia. L'impresario, sui cinquant'anni, aveva ancora tutta la giovinezza ostinata di certi dissoluti, e si ubbriacava di donne e di vino, trovando sempre, diceva lui, il manico, pel quale pigliava le cose e le persone. Ma se acchiappava non sapeva tener stretto, e peggio s'innamorava tuttavia come un fanciullo. A Gratz si legò con una serva di birraria, bella ragazza, bionda come Giorgio, e che Giorgio detestò quasi subito. Quindi una rottura. Giorgio, che s'accorgeva di non ricevere più la metà degli incassi, disgustato da quella facilità di amori, se ne lagnò aspramente con lui; la servetta volle interloquire ad insolenze, e l'impresario fidandosi sulla propria superiorità di guida, che sa la lingua del paese, con un ragazzo abbandonato, inesperto e quindi nella impossibilità di ribellarsi, sbraveggiò. Giorgio allora lo guardò con disprezzo, avvertendolo che si sarebbero separati.

- Voi? Non trovate neanche la stazione per andarvene, povero coso!

Giorgio gli voltò le spalle senza dir altro.

La mattina per tempissimo, colla prima corsa, partì; ma, ancora fanciullo, nel timore di essere inseguito, invece di ritornare, proseguì verso Vienna. Rimase due giorni nascosto in un piccolo paese; quindi diede volta per l'Italia. Rivide Venezia, tutto il Veneto, a piccole tappe, senza aprir mai la cassa del violoncello; e si trattenne a Milano. Da Milano discese a Firenze, gironzolò per tutta la Toscana, finendo per fermarsi a Scarperia sotto l'Appennino. L'incantevole paesello lo innamorò, non era ancora la primavera: i monti bianchi di neve si alzavano a picco, prolungandosi indefinitamente come un muraglione che dividesse due mondi. Era un paesaggio severo ed aggradevole, romito e gentile. Una mattina entrò in una piccola osteria, a mezza strada, fra il paese e la montagna. La strada vi faceva un gomito, e a poca distanza una casetta nuova, con dinanzi due aiuole ed una cancellata di ferro, sorgeva in mezzo ad un orto. Tutta la sua facciata era coperta di pianticelle rampicanti. Forse l'ortolano, che l'abitava, era pure il padrone dell'orto. Giorgio rimase pensieroso a guardarla dall'uscio dell'osteria, mentre gli ammanivano il pranzo.

- Potreste alloggiarmi qui? - domandò all'ostessa, che era venuta a chiedergli se gli piaceva il pecorino nella minestra.

Ma ella, che dalla fisonomia e dagli abiti lo prendeva per un gran signore, si scusò della povertà dell'osteria, buona appena per i pecorai della montagna: quindi Giorgio la interrogò sulla casetta di contro. L'ortolano presente si mescè al dialogo, e convenne di affittargli una stanza.

- Quella di mio figlio: l'ho messo nel seminario di Firenzuola.

Il prezzo fu di dieci franchi al mese, l'ostessa per altri quaranta s'incaricò del pranzo: era il mese di marzo, e il seminarista non doveva tornare a casa che sulla fine del settembre. Giorgio fu contentissimo: l'ortolano andò subito coll'asino a prendere i bauli dall'albergo; e quella sera stessa, prima di coricarsi, Giorgio potè contemplare lungamente dalla finestra i monti bianchi di neve. La cameretta era piccina, colle tende. La famiglia dell'ortolano si componeva della moglie, una donna sulla quarantina, una bambinetta, due garzoni, poche galline, quattro mucche e due grossi cani pastori.

In casa credevano di avere un inglese, che sapesse l'italiano.

Per alcuni giorni Giorgio non aprì ancora la cassa del violoncello. Dal primo istante tutti si erano innamorati di lui per la sua ammirazione della vita campagnuola; l'ortolana specialmente per la sua ghiottornia del latte: poi l'olio, il pane e il vino, queste tre perfezioni della Toscana, che egli lodò con entusiasmo sincero, gli dettero il prestigio di un gran signore, che sa essere giusto col paese e colla povera gente.

Ma Giorgio, che voleva evitare ogni soverchia famigliarità, stava malinconicamente chiuso nella modesta cameretta, o uscendone a passeggiare, rispondeva breve e garbato con un sorriso più dolce di ogni risposta.

Aveva poco più di duemila franchi, due anni quindi di vita oziosa e tranquilla, ignoto a tutto il mondo, studiando fra quella dolce natura. In viaggio aveva comprato molti libri. Fece un disegno di vita, e vi si conformò abbastanza scrupolosamente. Aveva pressochè diciott'anni, ed era solo al mondo, come il più giovane garzone dell'orto, un trovatello di Firenze.

Allora la rivoluzione, che fermentava da lungo tempo nel suo spirito, scoppiò. Rimeditando il viaggio in Germania, ne risentì una profonda umiliazione per se medesimo e per l'arte. Gli parve di essersi degradato ad un'apostasia, e che il pubblico avesse avuto fin troppa ragione di accoglierlo così freddamente. Infatti il mondo era tutto pieno di rapsodi come lui, che viaggiavano solleticando gli orecchi, come gl'impresari dei teatrucoli meccanici solleticano gli occhi. Non era così la musica, non era così il violoncello. Poco prima di morire l'Anna gli aveva detto che se ne sarebbe fatta sepolcro, e vi avrebbe abitato per tutta l'eternità: come mai aveva egli potuto suonarvi dunque dei valtzer, e gettare nel raccoglimento divino di quella morte la volgarità chiassosa di un ballo? Che cosa ne aveva detto l'anima della morta chiusavisi volontariamente per seguirlo dappertutto? A questo pensiero un rimorso, che era quasi una paura, gli addentava il cuore, mentre il suo spirito cercava di rifugiarsi in un nuovo e più alto concetto dell'arte. Il bisogno di una formula, che spiegasse l'essenza della musica, lo urgeva, senza che il suo ingegno troppo esaltato ed insieme troppo povero di nozioni positive potesse arrivarvi. Secondo lui la musica era nata ultima nella storia dell'arte, quando il poema era già morto con Dante, e il dramma con Shakespeare: gli antichi non l'avevano nemmeno sospettata. Era nata quando la poesia del popolo tramontando nella poesia dell'individuo diventava lirica con tutta la varietà dei ritmi e delle passioni.

Ma come la lirica era la quintessenza della poesia, la musica era la quintessenza della lirica, giacchè solo la melodia degli accenti e la composizione misteriosa delle sillabe producevano nella massa il suo sentimento. Egli non sapeva la storia del linguaggio, ma l'inventava così: prima il gesto, poi il suono, poi la parola, poi la poesia, poi la musica: la musica, l'ultimo sforzo del linguaggio umano, che esprimeva quanto le altre forme non avrebbero saputo o potuto. Era quindi nata dopo che le tre grandi manifestazioni del linguaggio, la linea, il colore e la parola, si erano esaurite; dopo che la poesia si era ammutolita in faccia all'ultimo dubbio, e la religione aveva sospirato sul cadavere dell'ultima speranza. Allora dalla cima della piramide umana, alla quale tutti i popoli avevano portato un sasso o lasciato un rabesco, la musica aveva alzato l'ultimo canto della vita. Essa era ancora là, misteriosa come la vita medesima, riassumendone tutte le armonie, e ripetendole.

Secondo lui nel mondo la poesia rappresentava l'infanzia della musica, come il graffito era forse ad un tempo l'infanzia della pittura e della scultura: ma la musica era inoltre tutta l'anima del linguaggio. Che altro aveva determinato l'accordo delle vocali e delle consonanti, l'allinearsi delle sillabe, il disporsi delle parole? La musica era l'architettura del linguaggio umano, mentre la poesia non ne era che l'ornato: la musica sentiva le convenienze intime e i rapporti misteriosi dei suoni colle idee: essa scriveva i periodi larghi e maestosi delle storie, le strofe leggiere per i conviti, raggruppava i versi degl'inni e dava loro il volo delle freccie; gettava le ottave dei poemi come gli archi dei portici, tirava le linee degli esametri come le linee dei cornicioni; tutto il linguaggio era un'orchestra, prosa e poesia, periodo cifrato e periodo scritto, le stesse leggi e gli stessi principii; la parola vi era sempre regolata dal tempo come la nota; e poi le gamme e le serie, e poi la musica ancora, sempre e dappertutto, nelle linee e nei numeri, nell'uomo e nella natura, nella eternità e nell'infinito.

E il suo spirito si smarriva sbigottito fra questo caos di idee, come il viaggiatore per le rovine di un antico mondo geologico. Quindi tutti i problemi della coscienza venivano a tempestare in quel problema artistico. Prima di possedere la musica come arte, l'umanità l'aveva avuta come ricordo o presentimento divino. L'anima dei primi abitatori, abbandonandosi al rumore dei fiumi, aveva nella inesauribilità di quel suono trepidato la prima volta nel sentimento dell'eterno: il bianco è un unisono di colori; il tuono una nota, che nessuno può fare se non Dio; l'amore, la gloria, i funerali, il paradiso... musica, null'altro che musica. Forse nell'ultima giornata della storia essa sarebbe il linguaggio dominante.

E allora, quasi l'ammasso informe di quelle idee mal nate e mal vive fosse già disposto nell'ordine di un sistema, si lanciava d'un salto alla musica moderna. Siccome l'epopea era discesa da gran tempo nel sepolcro, e il dramma era più che morto negli ultimi tentativi per risuscitarlo, la musica melodrammatica doveva essere morta del pari. Le necessità della scena l'avevano sempre soffocata, giacchè un dramma ha più efficacia in prosa che in verso, in verso che in musica. Nel dramma primeggia la rappresentazione della verità esterna, e quindi il linguaggio dell'arte che evoca un fatto, deve possibilmente essere lo stesso, col quale il fatto avveniva nella storia. Gli uomini parlano non cantano, la vita storica è azione e non sentimento. Egli negava il melodramma, e più ferocemente ancora la lirica musicale rifatta sulla lirica poetica. Perchè ripetere colla musica ciò che si è già potuto dire colla poesia? Poi nel melodramma prevaleva fatalmente la voce umana, mentre Beethôwen aveva pur dovuto confessare di non potersi costringere nella sua piccola gamma. L'uomo non poteva essere che un istrumento nella grande orchestra della natura, o tutto al più una specie di condensatore, nel quale passavano le varie forme della musica. Quindi l'arte doveva significare l'azione reciproca dell'uomo sulla natura, e della natura sull'uomo.

Ma questa concezione, dandogli le vertigini orgogliose di una scoperta, impiccioliva ancora la sua piccola personalità di violoncellista. Ormai non ammetteva più che la forma orchestrale colle voci umane discese ad istrumento di canto o di accompagno: nessuna scena, ed un'orchestra immensa in un teatro enorme. Là doveva eseguirsi la musica del nuovo genio, forse già nato, perchè quando una rivoluzione è iniziata, poco sta ad arrivarne il conduttore. Da Beethôwen a Berlioz il gran concerto e la grande sinfonia tendevano alla trasformazione del teatro e del gusto musicale. Wagner per difendere il dramma aveva dovuto innalzarlo nel mito, la grande regione musicale, trascinandosi dietro il mondo nell'ascensione. Ma dopo Wagner ogni altro dramma sarebbe impossibile collo sviluppo assorbente dell'orchestra nell'opera. Ciò era fatale e provvidenziale; le corde di una gola non potevano prevalere contro quelle di un violino. Da questo egli deduceva la subordinazione di ogni individuo nell'opera immensa dell'orchestra. Oggi che tutte le grandi arti erano morte per l'eccessiva importanza dei singoli artisti, e il libro aveva ucciso il monumento secondo la terribile frase di Hugo, solo la musica poteva ottenere l'annichilamento di mille volontà nel prodigio della sinfonia. La sinfonia era l'ultimo monumento della civiltà, l'ultima cattedrale della religione.

Poi la musica conteneva tutto. Berlioz non aveva scritto la Dannazione di Faust, Beethôwen la Tragedia di Cristo, Haidn il Poema della Creazione? E in tutte queste opere le parole avevano appena un valore di spunto per la frase musicale. I quartetti di Boccherini, di Mozart, di Mendelsonn, di Goldmark non valevano le poesie di ogni altro poeta? Chopin non era stato il sentimento poetico più squisito del nostro secolo? Schumann e Raff non avevano scritto senza parole, l'uno il Carnevale, e l'altro il Fiore misterioso?

Così proseguendo a sbalzi gettava il ponte di una induzione su due nozioni fragili e lontane, avventava un giudizio nella mischia indistricabile di mille contraddizioni. Aveva letto troppi libri negli ultimi mesi, quindi un capitolo di Wagner, il trattato sulla istrumentazione di Berlioz finirono di sconvolgergli la testa. Ma coll'energia, che si attinge quasi sempre dalla coscienza del sacrificio, si inabissava intrepidamente nelle conseguenze più profonde e gelate del proprio sistema. Adesso un suonatore non poteva essere più che un istrumento, nel quale passava qualche filo di musica, un rigagnolo destinato a formare un fiume e ad ignorarne il corso.

Come dunque aveva egli osato di credersi un artista per avere espresso un pensiero o una passione di altri?

Comporre la propria musica e suonarla, ecco l'ultimo sogno. Gli antichi rapsodi, i meno antichi trovieri non inventavano assieme musica e poesia; non erano poeti, attori e suonatori ad un tempo? L'arte consisteva tutta nell'idea, epperò l'eseguire non era un creare, ma un trasmettere.

Giorgio volle essere artista. Aveva diviso la musica in epica e lirica, sinfonia e ode, quartetto e romanza. Egli sarebbe un lirico. Allora non ebbe più requie. Pensò di scrivere il proprio romancero, e di suonarlo in un nuovo pellegrinaggio pel mondo; e siccome nei mesi passati in orchestra con Gaspare, il direttore gli aveva appreso alcune lezioni di contrappunto, credette che potessero bastargli. Come tutti i giovani ribelli, egli non ammetteva quasi regole di sorta. In tale fermento di spirito trascorse un mese. Quando gli parve di aver trovato la nuova maniera, scrisse una lunga lettera esplicativa a Gaspare, che gli rispose con entusiasmo, lagnandosi solamente della loro separazione. E il suonatore scrisse musica. La sua prima romanza fu per l'Anna, una melodia semplice e lenta, nella quale agonizzava un gran dolore, e che malgrado alcune reminiscenze classiche era piuttosto bella. Un'armonia grave e monotona vi imitava il crepuscolo della sera, ricordando la semplicità di un povero destino operaio: poi alcune strida esprimevano quella terribile vigilia dell'Anna sul letto e la rivelazione terribile ed impetuosa, che ella aveva provato della vita; quindi l'armonia si prolungava attenuandosi, interrotta ancora da un singhiozzo, e si spegneva nelle lontananze dell'oblio come nella oscurità della tomba.

La prima volta, che la suonò per intero, l'ortolana, sola in casa, ne fu talmente compresa, che gli entrò in camera tra meravigliata e piangente.

Giorgio, che non era soddisfatto dell'opera, l'accolse freddamente, e le disse di averla scritta in tre giorni.

- In casa mia?

La buona donna non ne rinveniva.

- Le è morto qualcuno? - chiese poi - : io ho subito pensato al mio primo bambino.

Allora Giorgio palpitò e, appena uscita la Rosa, scrisse nel petto del violoncello, sotto la cordiera, questa epigrafe

/* QUI GIACE ANNA VENTURI. */

Il sepolcro dell'Anna aveva quindi l'iscrizione.

Poscia compose un'altra romanza per Gaspare, che, avendola mostrata al direttore d'orchestra, si intese rispondere come fosse piena zeppa di errori grammaticali. Gaspare non volle crederlo; la portò al professore di contrappunto, una gloria del Liceo, il quale, riconoscendovi molto ingegno, ripetè presso a poco lo stesso giudizio. Allora Gaspare coll'anima addolorata aveva scritto a Giorgio di non fidarsi della propria testa per quanto buona, e di venire al liceo per impararvi davvero il contrappunto. La lettera lunga dieci facciate, era piena di contorsioni affettuose.

Giorgio sorrise sdegnosamente, e si disse che cominciava la persecuzione. Se i vecchi professori non l'avessero rinnegato, egli non sarebbe stato un vero rivoluzionario dell'arte.

«Ciò che è grande non cresce veramente che dopo negato», pensò col celebre verso di Hamerling, che aveva trovato recentemente in un libro.

E Giorgio non mandò altra musica al povero Gaspare.

Faceva una strana vita: s'alzava per tempissimo e si coricava tardi. Tutto il giorno lo passava fuori per la campagna col violoncello sul dorso, cosicchè i villani, incontrandolo, stupivano di questo signore, benissimo vestito, colle spalle cariche di una gran cassa come un facchino. Ma sopratutti l'ortolana non cessava dalle dolci rimostranze.

- L'aria della montagna è buona - ella diceva - ma il vento ben capriccioso.

Giorgio aveva finalmente concepito il proprio poema. Se Haidn aveva scritto Le Stagioni, egli scriverebbe Il Giorno. Il giorno non era tutta la vita, poichè la vita non è se non una successione di giorni? Voleva dipingere il preludio dell'alba, le prime tinte opaline, poi le note acute dei rossi sprizzanti dal fondo ancor buio della notte, l'accordo lento dei gialli, l'insistenza tremula dei violetti, dietro i quali bolliva un gorgoglio mano mano più balenante. E allora i boschi stormenti con un fremito indebolito di contrabbassi salgono di tonalità, gli alberi isolati accordano il loro murmure, le siepi seguitano col sordino, i fiori allungano le smorzature. Il gran concerto delle voci sale. I torrenti incalzano col pieno delle riprese, le allodole ripetono i motivi del flauto, il fringuello schizza delle note di ottavino, il bue apre dei muggiti di clarone, gli armenti arrivano con tutta una banda di clarinetti, alla quale gli uccelli mescolano il pizzicato dei violini; e la sinfonia pastorale di Beethôwen si diffonde dalla terra al cielo in un dialogo infinito, cui l'uomo aggiunge un'altra musica, l'idea.

L'alba è piena, il mondo è desto. Poi in mezzo ad un accordo fuso come un unisono, fra uno scoppio abbagliante di gloria, spunta il sole. Tutto sussulta, i colori balzano sugli oggetti, gli occhi sono rivolti in alto. Il mattino riprende la propria festa; i fiori e gli alberi si salutano, tutte le conversazioni del giorno innanzi proseguono, si rintrecciano le commedie degli amori. Le api col vizio mattinale di tutti gli operai bevono i primi bicchierini nelle corolle rugiadose, e il gallo batte l'ali con uno strido dispotico. Solo l'uomo lavora, ma la sua canzone s'innalza gioconda nel mattino fra il rumore degli istrumenti. Quindi i cavalli passano tintinnando colla sonagliera, l'asino raglia stuonato come un corista, il postiglione getta dalla cima dell'alpe lo schiocco della sua frusta, come una battuta di nacchere nel ballo. Il sole monta, è già mezzogiorno. L'ombra sfinita si raggomitola ai piedi degli alberi, i lavoratori meriggiano al rezzo setacciato di una quercia. Per la strada deserta, come nella notte, non passa più che il ramarro, o le lucertole scherzano sopra un pilastro arroventato, mentre dagli alberi, presso e lontano, il coro delle cicale cresce con vibrazione uniforme ed instancabile. Laggiù in fondo l'aria turbina, il cielo pare di metallo bianco: una solitudine ardente si distende sul mondo. Ma in quel silenzio soffocante i gatti vanno a sdraiarsi al sole, e i cani scuotono la bocca bagnata guardando al padrone, che disteso per terra apre involontariamente le braccia e chiude gli occhi. È l'ora dell'amore. La voluttà s'innalza nell'aria come da un braciere, e cade dalle foglie coll'ombra come un refrigerio. Il vento vellica tutte le labbra, il sonno intorpidisce tutte le coscienze. Il sole stesso è immobile: la sua grande pupilla di leone ha un dardeggiamento insopportabile, una fissazione dissolvente. E per la solitudine silenziosa le cicale invisibili rumoreggiano come per coprire discretamente l'anelito di qualche parola, intanto che le messi ondulano, le piante sonnecchiano, gli animali riposano, il sole guarda, il vento sospira, e l'ombra si allunga adagio. Quindi un fremito passa per tutta la natura. Gli armenti escono dai boschi ai prati, il bue ritorna al campo, i viandanti ricominciano a passare per la strada, gli uccelli volano e cantano, l'uomo canta e lavora. Il sole e l'ombra discendono riavvicinando tutti i viventi. Il cielo è tornato turchino, le foglie hanno dei sorrisi più calmi, ogni linguaggio un accento più mite. E a poco a poco i toni si raffreddano. I boschi s'infittano, le vette dell'Appennino si abbrunano, le cicale accordano il loro accompagnamento stridulo col murmure delicato del vento e il susurro più commosso degli uccelli. Ecco il vespero col raccoglimento della sua malinconia e il crescendo del suo pallore. Il sole brucia ancora un istante sulla montagna, l'ombra ha tutto allagato, e la canzone del lavoratore s'interrompe nell'aria fresca tra i richiami dei passeri. È l'ora dell'agonia e della musica umana: mentre la tenebra s'inoltra sul mondo, l'uomo si avanza nell'infinito. Allora la voce gli si affievolisce, e dal cuore misteriosamente commosso gli si alza il canto della sera. Come la natura finisce nell'uomo, la sinfonia conchiude alla elegia fra l'umidore della rugiada, che pare un pianto, e la prima luce delle stelle, che non è ancora un sorriso. Il murmure roco delle foglie somiglia ad un brontolio di trapassati; laggiù i lumi vagabondi delle lucciole simulano il corteo di un funerale, che gli ultimi rintocchi dell'avemaria abbiano annunziato nella sera. La tenebra arriva colla morte, i dubbi cadono dalle stelle. E nella dissoluzione di questo mondo, che gli svanisce dintorno, l'uomo, che non osa parlare, si rifugia nel canto. Gli ultimi ricordi gli prorompono col volo delle nottole da tutti i vani della memoria, le ultime larve sfuggono nell'ombra sempre più densa, le ultime voci si acquetano in un silenzio sempre più lungo. L'uomo non sente più, pensa; l'elegia, che era come la sua orazione sul giorno morente, diviene il soliloquio del suo pensiero.

Così Giorgio aveva sentito e creato il proprio poema. Ma appena si propose di scriverlo cominciarono le difficoltà. Conoscendo troppo poco il contrappunto ed avendone l'istinto, gli scoppiava ad ogni passo nella coscienza il bisogno delle regole negate. Invano per facilitarsi l'ispirazione usciva fuori alla campagna come un pittore, e vi restava le intere giornate; che dovette accorgersi ben presto come l'andare in cerca d'impressioni o di idee prestabilite fosse un'altra follia. Allora colla reazione dei caratteri nervosi si chiuse in casa, dicendosi che ogni sensazione per riuscire artistica doveva subire una lunga incubazione. Per tre mesi rimase invisibile a tutti, scrivendo una pagina e stracciandola cento volte, passando lunghe settimane a perfezionare sul violoncello una nota imitativa. Egli voleva rendervi tutta l'orchestra non solo, ma tutte le voci della natura, dai cori dei boschi ai pieni dei torrenti, dall'accompagnamento insensibile degl'insetti agli a solo dell'usignuolo. E, mentre si stremava contro queste impossibilità, un orgoglio caldo gli andava salendo al cervello, come se in quella ignorata casetta di ortolano egli preparasse una nuova epoca per l'arte, e quella buona gente dovesse apprenderlo un giorno e fare su di lui una leggenda. Quindi fra di loro si faceva più volgare e più povero per raffinatezza di vanità.

Ma un giorno fu quasi per tradirsi col più giovane garzone dell'orto, che avendogli portato da Firenze un grosso pacco di carta da musica, gli domandava a cosa servisse.

- A tutto - concluse Giorgio troncando il discorso, che aveva già cominciato.

Con questo però il poema non andava innanzi. Allora pensò di farne la partitura per orchestra. Le intestature riuscirono incredibili: Quercie e Pioppi, Il Fiume, I Grilli, Il Sole. E si mise subito a scriverle per impossessarsi bene della natura di ogni istrumento, e farlo poscia passare nel corpo del violoncello. Fu un lavoro accanito e doloroso, nel quale lo sorprese l'inverno. Ma per quegli sforzi l'umore gli si faceva sempre più nero; mentre i lunghi esercizi, massime di notte, quando scendeva di letto e si metteva a studiare il canto di qualche uccello, cominciarono ad irritare la gente di casa. L'ortolana, così commossa alla prima romanza, era adesso più insofferente di ogni altro.

Giorgio non le rispondeva o faceva un sorriso di compassione.

Anche l'inverno passò. Giorgio, che per vegliare al caldo aveva dovuto rifugiarsi nella stalla delle mucche, sentì la primavera con un impeto di gioia. Aveva scritto e rifusa nel violoncello tutta la partitura, un enorme volume diviso in tre libri: Alba, Meriggio, Sera. Tutti tre formavano un concerto di almeno cinque ore. Giorgio ne era talmente entusiasmato, che fra quelle dolcezze di primavera consentì perfino a suonare in un ballo di parrocchiani, dove tutti rimasero inebbriati: quindi il mondo lo riattirò. Conchiuso quel lavoro colossale, provò così vivamente il prurito di parlarne, che prese a frequentare il grande caffè di Scarperia, dove la sera convenivano, coi pochi signori del paese, molte altre persone di buone maniere. Naturalmente Giorgio trasse dai bauli gli abiti belli, e parve loro un gran signore, anche dopo essersi confessato per un artista rifuggitosi in quella incantevole solitudine per accudire ad una grand'opera. La vanità terrazzana ne fu soddisfatta, il segreto di Giorgio circolò, e tutte le ragazze parlarono dei magnifici capelli lunghi del suonatore.

Una sera Giorgio intese annunziare l'arrivo di una famiglia americana, immensamente ricca, alla grande villa presso la casetta dell'ortolano. Parlavano di una ragazza bellissima e stravagante. Tutti raccontavano le sue follie, che a Giorgio parvero, com'erano, le più naturali del mondo; ma, avendo voluto dirlo, dovette accalorarvisi.

- Ah! - esclamò un uomo, che cominciava a diventar vecchio, bella testa di campagnuolo dorata dal sole e animata dalla malizia di mercato. - Ella, signore mio bello, s'innamorerà, glielo predico io.

- Bravo, signor Simone! - risposero in coro.

Giorgio rimase interdetto: poco dopo uscì dal caffè col cuore agitato. Era una notte tiepida. Venne fuori del paese sovra pensieri, e si trovò involontariamente davanti alla villa, che la bella incognita doveva occupare l'indomani, a duecento metri dalla casetta dell'ortolano. Allora per uno di quei tristi ed inesplicabili presentimenti si disse che quella donna gli sarebbe fatale; il sangue gli diè un tuffo, la fantasia gli si accese. Era di primavera, le stelle della notte sorridevano, le acacie all'ingresso del villaggio mandavano a quando a quando un soffio pimentato, le tuberose e le gardenie della villa esalavano un odore più esotico, un sentore aristocratico e strano. Giorgio si sedette sul muricciuolo del cancello; la notte e la primavera lo ubbriacavano. Per molte ore i suoi sensi furono in orgasmo e il suo pensiero non si staccò dalla bella incognita, alla quale si compiacque di attribuire una fisonomia di regina, bruna, cogli occhi enormi, il portamento e le forme superbe. Si coricò quasi all'alba. La mattina presto era già in piedi ben vestito, ma gli americani non arrivarono che sul vespro senza che egli potesse vederli. Quella sera invece di andare al caffè scrisse una romanza con questo titolo: «A te».

Per uno dei soliti casi di vicinato egli potè divenire presto amico dell'incognita, e frequentare la sua villa. La fanciulla non era bella: bionda con due occhi cilestri, un naso all'insù, un musetto rotondo, di un colorito smagliante. Si erano conosciuti alla cascina dell'ortolano, dove era entrata un mattino col babbo, vecchio negoziante arricchito, grasso e bonario, per mangiare delle fragole col latte. Giorgio in quel momento suonava a bella posta. La relazione presto fatta divenne presto intima, perchè Giorgio ebbe per loro il pregio di una scoperta. In casa tutti amavano la musica; Mary, si chiamava così, suonava il piano ai genitori, che, ascoltandola in estasi, ripetevano sempre lo stesso elogio per la musica italiana, la prima del mondo. La madre stava per Verdi, il padre per Bellini; Giorgio invece li disprezzava entrambi, e d'italiani non ammetteva che due antichi, un grande ed un colosso, Palestrina e Marcello. Laonde accaddero frequenti discussioni, nelle quali Giorgio rivelò volentieri il proprio secreto. Allora tutto si mutò a suo riguardo, e mentre prima l'avevano giudicato un povero diavolo, buono per divertirsene in campagna, dopo lo riguardavano col rispetto ossequioso, che talvolta i borghesi milionarii, di temperamento delicato, hanno per gli artisti in genere. Giorgio non disse tutto, nè della propria famiglia, nè come vivesse: solo confessò di essersi ritirato in campagna per scrivere un'opera, che ricusò di mostrare malgrado tutte le seduzioni e le moine. E una volta che Mary ne lo stuzzicava, rispose alteramente che la sua non era musica da signorina.

La ragazza ne fu punta.

Frattanto in quella villa e in quella vita di agiatezza raffinata Giorgio si svestiva della prima ritrosia. Tutti parlavano bene l'italiano ed amavano l'Italia: avevano servitori e carrozze, cavalli da sella e due bei cani da caccia. Giorgio era invitato a pranzo quasi tutti i giorni, lo tempestavano di biglietti, lo soffocavano di cortesie. Egli lasciava fare. La mamma sedotta dal suo aspetto aristocratico e da quel suo abbandono misterioso nel mondo voleva essere la sua nonna: il padre lo portava seco a caccia, e gli parlava delle Ande a proposito dell'Appennino, Mary diventava sempre più buona. Sul principio aveva avuto delle maniere piene di bruscherie, che lo irritavano, quando pigliandolo improvvisamente dentro una frase insidiosa voleva penetrare nel secreto della sua vita. Giorgio si vergognava di essere povero e plebeo. Poi poco a poco divenne malinconico, e cominciò a sottrarsi a qualche pranzo, ad evitare qualche scampagnata. In paese non compariva quasi più, o scansava studiosamente il gran caffè, dove lo dicevano già innamorato. Infatti lo era e al punto, che toccando raramente il violoncello, non suonava più che quell'ultima romanza.

Giorgio non aveva suonato alla villa se non per accompagnare Mary nell'Ave Maria del Gounod, la quale naturalmente egli giudicava molto al disotto dell'altra del Cherubini, o dell'Arcadet a sole voci. Ma la signora Edvige, la mamma, che non conosceva queste ultime due, ed era fanatica del Gounod, aveva troncato sdegnosamente a mezzo tutti i paragoni. E una notte, quando Giorgio suppose che i genitori dormissero, avendo veduto il lume alla finestra di Mary, aperse il piccolo cancello del bosco sempre socchiuso, e venne a nascondersi nell'ombra di una siepe col violoncello. La notte era molto buia. Egli attese lungo tempo, poi suonò la romanza «A te» con tale passione, che alla fine gli venne da piangere, e dovette scappare. Gli era parso di sentirsi a mezzo la romanza chiamare dalla voce dell'Anna. L'indomani non osò presentarsi alla villa, quell'altro giorno nemmeno, finchè ricevette una lettera di Mary e della signora Edvige, le quali, fingendosi scherzosamente inquiete sulla sua salute, gliene domandavano novelle, e lo invitavano a pranzo.

- Di chi è quella romanza, che avete suonato l'altra sera sotto le mie finestre? - gli chiese improvvisamente Mary.

- La signora Edvige ha sentito? - egli susurrò a precipizio.

- Ma certo - rispose Mary con indifferenza - : scommetterei che è la vostra.

- Appunto.

- Andate a prendere il violoncello e tornate subito a suonarcela - disse con quell'affettazione d'impero, che andava così bene al suo visetto.

Dovette ubbidire, se non che avendo paura non la suonò come quella notte.

La signora Edvige e il padre lo guardavano, Mary era distratta. Quando Giorgio ebbe finito, dopo i soliti complimenti dei due vecchi, Mary s'impossessò della musica. Giorgio, che rimetteva già l'istrumento nella cassa, tese la mano; ma ella guardandolo arditamente:

- Non è per me? - domandò.

Giorgio impallidì.

Mary si gettò attorno uno sguardo, vide che non erano sorvegliati, gli stese rapidamente una mano, allungandogli il volto e mormorando:

- A te?

Giorgio non capì o non si arrischiò di cogliere quel bacio.

Da quel giorno furono amanti. Egli si sentiva scoppiare d'amore e d'orgoglio, ella era allegra come prima, e cominciava già a canzonare la sua aria fatale. Parlavano spesso di musica senza intendersi, perchè Mary non la pigliava che come un divertimento, col quale interrompere gli altri, e Giorgio invece come la più alta manifestazione del pensiero religioso. Laonde nell'amore egli non sognava che conversazioni mute guardandosi negli occhi, effusioni sentimentali, baci al lume di luna, mentre nel suo orgoglio di povero plebeo avrebbe voluto vedersi ai piedi quell'ereditiera di milioni offerentesi con una trepidazione di terrore.

- Mi amerai sempre, sempre? - le domandava spesso cogli occhi gonfi.

Ella rispondeva di sì col suo più bel sorriso, e poco dopo gli parlava di un viaggio in America, dove resterebbe forse due o tre anni. Giorgio non osava insistere; una volta ella gli disse leggermente:

- Vieni anche tu?

- Non posso - mormorò Giorgio, pensando alla spesa, ed obliando in quel momento le risorse del violoncello.

- È vero, non ci pensavo.

Un'altra volta, che erano al piano, avendo provato la canzone del salice nell'Otello, Giorgio nella soave vanità d'impietosirla cesse finalmente, e le raccontò la propria vita, le sofferenze da bambino, la mamma morta all'ospedale, l'eroismo, il martirio dell'Anna. Ma Giorgio, combattuto ancora dalla falsa vergogna della miseria, raccontava così male che Mary, invece di sentirsene tocca, finì quasi col riderne.

- Sarà stata innamorata di voi!

Giorgio rimase colpito dall'osservazione e peggio da quel voi, che non avevano mai usato nella loro secreta intimità. Troncò il racconto, ma tornando al violoncello non seppe resistere alla compiacenza di spiegarle, come ne avesse fatto il sepolcro romantico dell'Anna, e vi avesse incisa l'iscrizione. Questa volta Mary non si tenne.

- Bello! - esclamò curvandosi vivamente per leggere l'iscrizione.

- Questa invece è brutta: se me lo aveste detto, vi avrei disegnato delle magnifiche lettere. Datemi quel temperino che almeno le accomodi.

E piegandosi sulla cordiera, si mise realmente a correggere gli sgorbii. Giorgio non poteva osservare quello che facesse, ma il legno così grattato metteva tali stridori di lamento, che il pensiero gli corse all'Anna moribonda, mentre dalla figurina di Mary, quasi accovacciata sul violoncello, gli veniva un'emanazione odorosa e penetrante.

Mary si volse ridendo:

- Leggete

/* qui giace anna venturi «suonate per lei» */

Aveva aggiunto monellescamente: ma vedendolo rannuvolarsi, e fare come un gesto di minaccia, fuggì sghignazzando per la porta.

Da quel giorno cominciarono gli attriti secreti; ella, che affettava di esser gelosa di quella morta, e gliene rinfacciava ad ogni momento l'affetto; egli, che sentiva in quei rimproveri una punta avvelenata di scherno per la propria miseria di artista, mentre tutte le bramosie dell'uomo gli si destavano impetuosamente dinanzi a quella donna, che aveva col fascino morbido della sensualità tutte le lusinghe laceranti della civetteria. Ogni giorno si accorgeva di amarla di più e di rovinarsi per quest'amore, che gl'imponeva di vestirsi sempre a festa e di non pranzare più alla bettola. Adesso l'ortolana doveva cucinargli un pranzetto, che egli aveva la scortesia di trovare costantemente poco buono. Una volta indispettita ella lo punse sull'americana, e Giorgio proruppe in una scena.

Intanto l'amore non inoltrava; non si erano ancora baciati, non avevano parlato di matrimonio.

Giorgio volle metterne il discorso una sera, ed ella rise, perchè la mamma voleva farle sposare qualche signore toscano, che avesse un gran titolo.

- Non ci penso neanche, verrà poi - ella concluse.

A Giorgio parve di morire. Un avvilimento pieno di rancori gli rovinò sulla coscienza, e non parlò più. Mary sembrava non accorgersene, la signora Edvige colla faccia rosea, incorniciata di capelli bianchi, illuminata da una grande espressione di bontà, vegliava in quel momento su di loro come sopra due fidanzati. E quella mamma così buona non aveva capito quell'immenso amore per sua figlia! Ma Giorgio era povero, senza parenti, senza posizione, senza nome: se lo confessava, e subito dopo l'orgoglio di artista gli saliva al cervello, bruciandogli le lagrime degli occhi. Paganini non aveva sollevato l'Europa guadagnando milioni e milioni? Paganini aveva forse più ingegno di lui? Quindi un odio ancora voluttuoso, un disprezzo feroce e carezzevole gli veniva per Mary, una donna, che non sapeva indovinare quello che egli sarebbe forse tra poco. Giorgio ignorava ancora che la donna è quasi sempre così, e non può amare gli uomini superiori se non a patto di abbassarli. Ma se nella propria alterezza di artista avesse forse potuto consolarsene, essendo povero e plebeo si arrovellava di restarle socialmente inferiore; mentre la signora Edvige, parlandogli dei futuri concerti, si dichiarava sua protettrice, e s'incaricava fin d'ora della vendita dei biglietti, promettendogli con certo accento particolare grandi incassi.

Quando arrivò il mese di luglio, alla villa si discusse dei bagni. La signora Edvige preferiva Pegli, il babbo Viareggio: Mary non consultò nemmeno Giorgio, e la mamma, invitandolo, gli disse che a Viareggio sarebbe forse possibile qualche concerto.

- M'incarico io di prepararvi il pubblico, ne avrete fin troppo, e potremo mettere il biglietto al prezzo che vorrete. Io ne sono pratica; spesso la stagione delle acque vale quella dell'inverno.

Giorgio era rosso come una bragia, ma l'accento della signora Edvige era così sincero e benevolo, che egli comprese di non potersi offendere. Fortunatamente Mary sopravvenne, e, distraendo la mamma, gli diede il tempo di rimettersi. Mary parve non accorgersi del suo imbarazzo.

- E così venite? - insistè la signora Edvige.

Egli balbettò alla meglio di aver incominciato un altro poema, e di voler restare nella solitudine per finirlo.

Dopo otto giorni la villa era deserta.

Rimasto solo, Giorgio si sentì abbandonato come la prima volta alla morte dell'Anna. Per molti giorni stette chiuso in camera a piangere disperatamente la partenza di Mary fra mille altri dolori di uomo e di artista. Gli pareva di essere un esiliato nel mondo, senza famiglia e senza patria, senza mestiere e senza denaro. Adesso non credeva più neanche alla musica. Che cosa era l'arte, se avendola avanzata di un passo col poema, essa non gli aveva servito nemmeno a soggiogare la piccola testa di Mary? In che consisteva la sua sovranità, se gli artisti dovevano essere sempre poveri e spregiati? E le ultime parole della signora Edvige sul concerto gli cadevano nel cuore come tante goccie di piombo. Non v'era dunque differenza fra il musicista e il saltimbanco? La gente veniva egualmente a vedere o ad ascoltare, gettando la stessa elemosina a chi lo divertiva? Poi Mary gli riappariva, ed egli l'amava appunto perchè era una smentita continua al suo orgoglio, alle sue delicatezze giovanili, alle sue sincerità popolane. Mary camminava sopra di lui come per un campo, stracciando i fiori e lacerando le frondi. L'amava ella? Cosa faceva a Viareggio? Con chi parlava? Con chi rideva? Mille volte al giorno Giorgio soccombeva alla tentazione di andarla a vedere, e di tornarsene incognito; mille volte sul punto di partire aveva paura, e restava. Era una vita d'inferno. Ad ogni ora veniva a guardare la villa abbandonata sperando di incontrarsi col giardiniere e così di penetrarvi: se ne ricordava i particolari più minuti, i discorsi più insipidi, le scene più effimere. Il giardiniere, accortosene, lo canzonava; nel caffè grande di Scarperia facevano peggio. Una sera, che Giorgio vi entrò, le punture furono tali e tante, che accadde una scena. Giorgio dopo di essersi schermito colle insolenze tirò un bicchiere alla testa di un avventore, un uomo sulla quarantina, fortunatamente senza colpirlo, e lo sfidò a duello. La gente, che si era interposta fra i due, aveva quasi voglia di bastonarlo, e gli rise in faccia alla sfida: nel villaggio l'uso del duello non esisteva. Giorgio tornò a casa lagrimoso, e non ardì più di mostrarsi in paese, dove il suo alterco prese proporzioni enormi, e la sua passione per l'americana l'aspetto più grottesco. Mangiava appena, non dormiva più. La notte, due fantasmi inseparabili gli venivano sempre al capezzale, Anna e Mary: Anna non era più gobba, non aveva più quell'erpete sulla faccia, ma i suoi begli occhi di martire brillavano come la stella del mattino.

Mary invece diventò la fidanzata del marchese Soderini, uno dei grandi nomi della Toscana, giovane, bello e povero, che rialzava con questo matrimonio l'antica fortuna della propria casa.

Se Giorgio non ne morì, fu perchè non si muore di dolore; se non ne ammalò subito, la sua vergine giovinezza era ancora troppo forte. Mary non gli aveva più scritto, nessuno si ricordava più di lui, nemmeno il vecchio Gaspare. Allora i disegni più infantili di vendetta gli passarono dinanzi; andare a Viareggio, apprendere per dove erano partiti, poichè si diceva che viaggiassero, seguirli travestito in ferrovia, all'albergo, ucciderli col medesimo pugnale, ed uccidersi. L'ebbrezza del sangue gli saliva al cervello, la sinistra poesia del delitto gli entusiasmava l'immaginazione. Mary avrebbe impallidito vedendolo, gli si sarebbe buttata alle ginocchia pentita, innamorata, perchè quel matrimonio era forse una violenza dei suoi genitori; e allora egli le imponeva di fuggire, tornavano a viaggiare, vivendo di concerti, passando dappertutto come una visione di musica, un fantasma di amore. Oppure se Mary non l'amava, come non lo aveva forse mai amato, imporle un'ultima notte d'amore, un'ora sola di voluttà nel fondo di un sepolcro, e poi al mattino, quando sorgeva il sole, abbassarne il pesante coperchio di marmo, e dormire.

Ma le difficoltà dell'esecuzione impedivano ogni disegno. Pensò di morire da solo, gittandole nell'anima il rimorso di un delitto, e non vi si decise, perchè era troppo ed insieme troppo poco, e per farlo avrebbe avuto bisogno della sua presenza, cadendole ai piedi insanguinato. La necessità di un dramma lo perseguitava: non voleva morire nell'ombra, dileguare nel silenzio. La sua bella testa di giovanetto pigliava una fisonomia dolorosa di sonnambulo, un'espressione di martirio. La notte, invece di coricarsi, usciva pei campi, estenuandosi in corse folli, addormentandosi poi sotto un albero in un sonno pieno di fantasmi e di singhiozzi. E in casa, dove lo spiavano da qualche tempo, cominciavano a stancarsi di lui, che era mezzo matto, che bisognava un giorno o l'altro aspettarsi qualche cosa di grosso; la sua passione per la signorina americana avrebbe meritato gli scappellotti, quelle stranezze quotidiane peggio ancora. L'ortolano voleva cacciarlo addirittura, ma la donna lo proteggeva ancora. E una volta, che ella volle parlargli, Giorgio sulle prime andò in bestia, poi ruppe in un pianto disperato, che fece piangere anche lei; quindi le cadde colla testa in grembo come un bambino.

- Dunque non ha proprio nessuno al mondo?! - Giorgio non rispondeva.

- Si faccia coraggio, passerà: noi poverette abbiamo più cuore, ma le signore... si figuri... Povero signorino!

Finalmente si ammalò. Il medico constatò una minaccia di tifo, che fortunatamente svanì in meno di dodici giorni, durante i quali Mary tornò alla villa col fidanzato. Giorgio non lo seppe, e non seppe nemmeno che la signora Edvige mandasse a prendere sue notizie. Poi un mattino il servitore mancò, perchè i padroni avevano saputo tutto. Appena Giorgio potè alzarsi, ed imparò quel ritorno, volle partire, così ancora convalescente, malgrado ogni rimostranza. Pagò generosamente tutte le spese e gl'incomodi di cui era stato causa, fece i bauli, e sopra una vettura noleggiata a Scarperia partì per Firenze. Erano le quattro dopo pranzo, col sole velato, il vento fresco. Passando dinanzi alla villa, sperava che Mary sarebbe alla finestra e lo vedrebbe pallido come un moribondo, che andava a morire lontano da lei; quindi si era sdraiato nella posa più pietosa, la sua bella testa sopra una palma, senza cappello, coi ricci biondi che gli svolazzavano al vento, il violoncello a fianco nella cassa, il suo piccolo bagaglio metà legato sulla serpa, metà dietro le ruote. Le finestre della villa rimasero chiuse. Invece presso Scarperia fece alzare il mantice della carrozza per non essere veduto attraversando il paese. La sera sull'imbrunire giunse a Firenze.

Il suo primo pensiero fu di scrivere una lettera a Mary. Vi passò attorno la notte, e finalmente al mattino era compiuta; sedici lunghe facciate, un'elegia ed una requisitoria scritta colle lagrime e col sangue. La rilesse ancora una volta inorgogliendone, ed uscì per impostarla. Era più calmo, si cercò quel giorno stesso una cameretta, e vi si rifugiò.

La lettera a Mary rimase senza risposta. Era il mese di settembre coi giorni ancora lunghi e caldi: Firenze abbandonata dai forestieri e dai fiorentini sembrava quasi più bella. Tutte le sere Giorgio andava a vedere tramontare il sole dal cimitero di S. Miniato, e si sentiva una gran voglia di morire con lui in un magnifico vespro, cogli occhi incantati nei suoi ultimi raggi, e gli orecchi pieni dell'ultimo addio, che la terra gli mandava. Poichè nessuno lo conosceva, o gli indovinava dal viso il suo dramma, nessuno doveva udire il suo poema; egli sarebbe venuto a bruciarlo nel cimitero, fra mezzo ai grandi morti nel silenzio della notte. Questo tetro pensiero, che era ancora un pensiero di amore sebbene non volesse confessarlo, gli faceva battere il cuore ad ogni signorina dalla fisonomia straniera, a cui s'imbattesse. Tutte le notti i suoi sogni partivano per Scarperia, e ne ritornavano singhiozzando. Poi il mattino, aprendo la finestra, cercava involontariamente cogli occhi il bianco profilo di quella magnifica villa.

Nullameno Firenze cominciava ad interessarlo. Uno dei suoi luoghi favoriti era il Mercato Vecchio, una città microscopica dentro la grande, una topaia dentro il portentoso capolavoro di una cattedrale. Egli ci viveva col popolo, mangiando alla stessa cucina economica e succolenta, abbandonandosi alla novità musicale di quel gergo, melodico come un canto. Talvolta pure si metteva dietro a un suonatore ambulante, e gli dava sempre un soldo, spremendo un'acuta voluttà dagli sguardi curiosi del povero rapsodo, il quale si vedeva perseguitato da quel bel signore, e non sapeva che quel signore era forse il primo violoncellista del mondo. E a poco a poco la musica lo riattirava. Il pretesto di quel poema, opposto alla signora Edvige, per sottrarsi ai bagni, gli ritornava alla memoria, e una sera seduto sul piedistallo del David in faccia al sole morente, guardando le prime ombre discendere dai colli decise di scrivere la Notte. In quei giorni si legò con un giovane fiorentino, piccolo e bruno, boemo come lui. Pareva poverissimo, ma era allegro, chiacchierava bene e volentieri. Alle prime parole simpatizzarono, alla fine della colazione erano intimi. Giorgio, che dalla morte dell'Anna non si era più sfogato, si gettò nel cuore del nuovo amico, parlandogli da solo per due ore, piangendo e bestemmiando; mentre l'altro ascoltava mano mano più severo, rispondendo appena con qualche parola. Egli si chiamava Momo Martelli, un nome diventato celebre nella letteratura di questi ultimi anni, e che allora si nascondeva dietro varie maschere di pseudonimi.

Momo taceva. Lo lasciò effondersi liberamente sulle proprie sciagure, ma al capitolo dell'arte protestò energicamente. Momo non era uno dei soliti boemi, che si credono novatori per ciò solo che sono ribelli; aveva ancora un sincero entusiasmo pei vecchi capolavori, e lacerava con mordace ironia la inane vanagloria dei nuovi artisti, che, dopo aver deriso il passato, lo copiano. Per la prima volta Giorgio si trovava di fronte a un ingegno giovane come il suo, ma più colto e più forte: quasi quasi se ne adontò. Momo aveva delle frasi più dense di pensiero, e lo stringeva così forte, che Giorgio inferocito della sconfitta gli disse con uno scatto di orgoglio:

- Vieni domani, ti farò sentire il mio Giorno.

- Lo sentirò al concerto, che darai: io discuto volentieri un'opinione, non un'opera coll'autore. C'è il pericolo di non capirsi, e quasi sempre la sicurezza di guastarsi. In pubblico non è così: il nostro giudizio si integra di tutte le sensazioni dei vari temperamenti. Piuttosto domani ti porterò un libro di Balzac; se questo non ti salva, tu sei perduto - aggiunse con un sorriso, che voleva essere scherzoso ed invece era triste.

La mattina Giorgio ricevette il piccolo volume, e lo rilesse due volte con un tremito sempre maggiore di sentimenti e di idee. Avrebbe voluto veder Momo per parlargliene, ma non riuscì a trovarlo; gli andò a casa, lo cercò per Firenze, salì due o tre volte alla Laurenziana, dove gli aveva detto di capitare sovente, e alla fine del quinto giorno lo sorprese in una delle solite bettole di Mercato Vecchio.

- Così? - chiese Momo.

- Gambara è morto pazzo, ma aveva ragione.

- Me lo immaginavo - e non volle intendere altro.

Invece parlarono di dare un concerto ai primi della stagione d'inverno. Momo tornò alla carica, perchè il concerto fosse, secondo il solito, con accompagnamento di orchestra; ma Giorgio fu irremovibile.

- L'orchestra sono io.

Questa volta Momo non sorrise, disse che s'incaricava di far cantare i giornali, dove scriveva, e nei quali aveva moltissimi amici. La sala sarebbe una delle solite.

- Se tu mi sei contro?! - disse Giorgio ammirato di quella facilità.

- Mio caro, nel mondo bisogna avere due opinioni su tutto, forse per essere perfetti - seguitò con ironia - bisognerebbe avere anche due morali. Io ti condanno, ma lavorerò perchè il pubblico ti assolva, e, se ci riesco, il pubblico avrà preso a prestito la mia opinione invece che quella di un altro. Mio caro, il pubblico di tutte le sale, non bisognerebbe mai dimenticarselo, siccome giudica sempre sopra una prima sensazione, ha bisogno che qualcuno gli prepari il proprio giudizio; i critici da giornale non servono ad altro, e se vogliono fare di più, cessano di essere capiti. Forse riusciremo, ma la tua vittoria non sarà per questo una vittoria decisiva nel campo dell'arte.

E questo concerto divenne il tema delle loro conversazioni e dei loro sforzi.

Momo, maggiore di cinque o sei anni, e che allora lavorava ad un romanzo, buscandosi la vita quotidiana cogli articoli di giornale, era di una compiacenza inesauribile. Firenze cominciava a ripopolarsi, Mary non era ancora tornata da Scarperia. Quando ebbero fissato il giorno del concerto, Momo aprì la crociata nei giornali a favore dell'amico con una serie di articoli sopra la musica moderna, sul Berlioz, e sul Rinaldi, questo illustre italiano incognito solamente in Italia; e Giorgio, che non approvava le sue idee artistiche, giungeva quasi a lagnarsene. Il giorno spuntò. Giorgio non dormiva da parecchie notti, era sparuto e nervoso come un malato; aveva indossato una nuova marsina del miglior taglio, e per gentile superstizione l'ultima delle sei camicie, che la povera Anna gli aveva cucito per il primo concerto. Momo, che si era accorto di quel convulso, non lo lasciò tutto il giorno, e fece inutilmente ogni sforzo per distrarlo. Mano mano che s'avvicinava l'ora, Giorgio si rabbuiava e non parlava più: per strada i grandi cartelli colorati, col suo nome a lettere cubitali, gli davano dei sussulti.

Passando davanti al campanile di Giotto:

- Se la mia musica fosse così, credi che la capirebbero? - disse Giorgio.

- Credo di sì.

- T'inganni, le creazioni fantastiche non sono intelligibili che alle fantasie.

E non parlarono più.

La gente e le carrozze assiepavano la porta del palazzo del concerto: essi passarono inosservati, e per una porticina secreta furono nel camerino, dove li aspettava il violoncello. Alcuni amici di Momo, musici e giornalisti, vennero poco dopo; si sentiva il rumorio della sala come uno stormire discreto di fronde, dall'uscio socchiuso penetravano dei soffi profumati.

Giorgio era pallido come un morto.

- Avresti paura? - gli mormorò Momo all'orecchio.

- È un fiasco!

- Lo berremo - rispose Momo con gaiezza affettata.

- Sì, perchè sarà avvelenato.

Fu l'ultima parola. Accordò il violoncello, ordinò al cameriere di portarlo sul palco, ed attese. Gli amici rientrarono nella sala. Giorgio e Momo rimasero soli. Erano entrambi febbricitanti: Giorgio camminava su e giù, guardò all'orologio, quindi fermandosi dinanzi a Momo aprì le braccia. Egli comprese, vi si gettò, e si dettero un bacio come per un ultimo addio.

Giorgio entrò nella sala. Fu un'apparizione. Quella sua figura delicata e signorile destò un murmure di simpatia; arrivò colla testa alta, prese il violoncello, fece un inchino quasi orgoglioso al pubblico, e si assise. La sala era gremita, le signore abbondavano in mezzo ad una moltitudine di colori. Ma con tutta la sua iattanza Giorgio non osò di alzare gli occhi. La sala era inondata di luce, si sarebbe udito il fluttuare di un velo: Giorgio, che dava il concerto a proprie spese, vi aveva impiegato gli ultimi danari riuscendo ad una discreta decorazione. Incominciò: la mano gli tremava talmente, che le prime note quasi non s'intesero; poi si rimise, e attaccò il preludio. Alla terza frase il pubblico fremè. Gli uomini ascoltavano, le signore guardavano: la musica, una descrizione a tocchi sobrii e risentiti, fu subito compresa, e proseguì crescendo di colorito e di vivacità come l'alba: si udiva il vento del mattino, si discerneva lo stormire delle piante, il risvegliarsi simultaneo e nullameno graduale di tutta la natura. Ma quando nell'incalzare di tutte le voci e nel lampeggiamento di tutti i colori rifulse il sole, la frase, che si era innalzata ingrossandosi di tutti gli altri accordi, ebbe uno scoppio così potente, che il pubblico urlò. Giorgio provò la percossa voluttuosa di quell'applauso, e senza badarvi proseguì lo sviluppo della frase rompendola in cento razzi, in una pioggia di sorrisi e di colori, che sembravano cadere nella sala come tante faville di girandola, tante foglie vaganti di fiori. Allora gran parte del pubblico, levandosi come per respirare meglio la freschezza di quel mattino, applaudì con nuovo impeto, e Giorgio dovette sorgere egualmente per ringraziare. Quindi girando gli occhi nella sala, non vide che teste luminose in un'agitazione di marea. Mary col fidanzato guardava dalla seconda fila; era ancora più bella, coi ricci biondi, che avevano lo splendore dorato di un raggio. Giorgio vacillò, ricadde sulla sedia, e involontariamente si passò la mano sul volto. Riprese, ma la definizione così viva dell'alba perdeva nella luce crescente la propria chiarezza, sminuzzandosi in un chiacchierio affaccendato di tutti i piccoli viventi. Invano il violoncello moltiplicava i miracoli della imitazione, ripetendo la stessa parola in tutti i linguaggi, chè alla descrizione mancava pur sempre l'insieme di un'idea, e quindi la intelligibilità della rappresentazione. Giorgio aveva voluto esprimere intimamente tutti gli individui della natura, dimenticando che l'uomo non intende che l'uomo, e animando l'universo non può dargli che la propria vita. Che se nel dramma il protagonista diventa drammatico solo perchè lo si riguarda momentaneamente isolato da tutti gli altri uomini, e si separa il suo destino singolare dal fato comune; nella sinfonia invece tutti gli esseri della natura debbono perdere la individualità delle loro sensazioni per esprimere un'idea o un sentimento umano. Giorgio invece aveva voluto riprodurre integralmente nel proprio poema l'anima di tutti i viventi, e piuttosto che una sinfonia n'era risultato un tumulto. Ma come in quest'audacia stava la vera originalità della sua composizione e ogni speranza della battaglia, l'orgoglio esaltato gli dava un'incredibile energia di attacco. Curvo sull'istrumento, che i lunghi capelli gli piovevano romanticamente dalla fronte, ne provava tutti i fremiti e tutte le vibrazioni. Non vedeva più la luce della sala, non sentiva più il calore umano di quella folla. La sua immaginazione si era perduta nei quadri del poema, come un viaggiatore nella visione dei propri ricordi. Allora appunto il sole si fermava sul meriggio con un immenso abbarbaglio di fornace. L'aria oscillava, la terra si screpolava, tutte le piante erano immobili. Nell'oppressione ineffabile di quell'ora Giorgio si sentì oppresso; il respiro gli si fece più difficile, il braccio gli cadde quasi penzoloni lungo le gambe. Il sudore della spossatezza gli bagnava la fronte. Gli pareva che le corde del violoncello si fossero allentate. Poi in quello sfinimento improvviso tutti l'abbandonarono, non seppe più bene dove fosse, cosa facesse. Come viaggiatore, che, traballando per la stanchezza, cerchi di cadere all'ombra di un albero, egli andava involontariamente ad abbattersi sotto la malinconia dei suoi giorni più tristi, finendo quasi per provare una specie di benessere in quel languore esausto del meriggio. Ma il vento tornava a far stormire le frondi, Giorgio si ascoltava intorno un susurro. Non si ricordava più da quanto tempo suonasse. Il susurro sorgeva dal pavimento con uno scalpiccio di piedi, uno stridio di sedie mosse qua e là; un sibilo di parole correva tra le file delle poltrone smorzandosi nel fiotto dei ventagli, nell'accento soffocato di un'esclamazione, mentre il fruscio degli abiti delle signore imitava le prime impazienze del vento nell'ora del temporale, e la percossa di qualche canna le prime battute della grandine. Giorgio lo avvertiva. Ma intanto che i sensi gli si ottundevano nella stanchezza, la coscienza gli si rischiarava nella visione della realtà. Sciaguratamente poema e concerto non erano nemmeno a mezzo. Allora l'impossibilità di giungere in fondo lo colpì in mezzo al cuore come una palla. Non vi era più scampo, egli stesso era prostrato, le dita non gli rispondevano più agli atti del pensiero. Il meriggio era appunto la pagina più faticosa e difficile nell'esecuzione. Il suo cuore ebbe una suprema convulsione di ferito, le sue tempia si lacerarono in uno scoppio. Il mormorio del pubblico cresceva di minuto in minuto, vi si distinguevano i fremiti della collera, i soffii gelati dell'ironia; tutte le bocche avevano una moina insultante, tutti i gesti un'intenzione malevola. E mentre lo stesso dolore di quelle trafitture gli comunicava un'ultima suprema energia, un nome gli squillò nell'orecchie: Mary. Giorgio alzò il capo.

In quel momento Mary si arrovesciava sulla spalliera della sedia, colle piume del ventaglio fra i denti, guardando il marchese Soderini, che le terminava nei capelli la frase di uno scherzo. Gli occhi di Mary schizzarono come uno scintillio sul volto di Giorgio; il pubblico, vedendolo alzare il capo, era rimasto intento.

Giorgio impallidì come uno spettro, rimase cogli occhi sbarrati nel volto di Mary, che non riusciva a soffocare la propria ilarità; quindi facendo all'improvviso un gesto orribile, inesprimibile di follia si alzò, brandì il violoncello come un violino, e fuggì a precipizio per l'usciuolo.

Il camerino era vuoto.

Il cappello a cilindro stava solo nel mezzo del tavolo. Giorgio non vide nemmeno la cassa dell'istrumento, si cacciò il cappello in testa, e si precipitò per scappare: la sala rumoreggiava. Ma in quella rientrarono nel camerino il cameriere e Momo, pallido egli pure come un morto. Giorgio aveva una fisonomia insostenibile; respinse il cameriere con un gesto, respinse Momo che gli tenne dietro, e sempre col violoncello in mano irruppe nel corridoio, calò le scale. Momo tentò due volte di trattenerlo parlandogli: il rumore della sala cresceva, alcuni signori cominciavano già a discendere. Giorgio saltò addirittura gli ultimi gradini, vide un fiacchero dirimpetto al portone, vi corse, vi gettò il violoncello, e quando fu seduto, non ebbe ancora la forza di parlare.

- La cassa? - esclamò Momo, guardando l'istrumento, per una di quelle sensazioni della realtà, inevitabili anche nelle più violente tempeste dello spirito.

Giorgio si voltò di soprassalto, e con un'occhiata che intendeva ben diversamente la sua domanda:

- Domani - rispose.

Fu la sola parola di tutto il tragitto: Momo aveva dato al cocchiere l'indirizzo di Giorgio, ma quando il fiacchero si arrestò, Giorgio prese il violoncello, e impose a Momo di restare. Si era ricomposto, o pareva; solo la voce gli tremava ancora.

- Rimani: ho bisogno di essere solo - disse con accento sicuro.

Momo fe' un diniego col capo.

- Tu hai paura che mi ammazzi - seguitò l'altro con uno strano sorriso - per loro?!

Momo insisteva: allora Giorgio tornò a sedersi, e parlò così lucidamente, con tale tranquillità, che l'altro dovette arrendersi. Solamente nel salutarlo gli appressò gli occhi agli occhi per studiarne bene lo sguardo, e ripetè:

- Lasciami salire.

- No - disse l'altro risolutamente tendendogli la mano, ed entrò solo in casa.

Salì le scale al buio, la camera era al terzo piano. Quand'ebbe acceso il lume, si guardò involontariamente nella specchiera sopra il canterano, e la sua fisonomia stravolta gli fece così male, che tutta la collera gli riavvampò. Aveva la faccia di un'immobilità marmorea, la bocca ringrinzita da un tremito di paralisi. Con un moto violento si slanciò sul violoncello, lo afferrò con ambe le mani per il manico, ed alzandoselo sopra la testa lo sbattè con rabbia demente a più riprese per terra. Un'ira selvaggia gli centuplicava la forza nelle braccia, mentre le schegge balzavano grandinando nelle pareti, e le corde slacciate sibilavano per l'aria attorcigliandoglisi alle mani con movimenti viperei. Ma egli proseguiva, inebriandosi di quel dolore feroce, attraverso il quale sentiva confusamente di commettere un'insensatezza e un'infamia. La piccola camera pareva in tempesta: il pavimento traballava, i vetri delle finestre tintinnivano: una voce tuonò dal piano sottoposto senza che Giorgio l'intendesse.

Colle mani sanguinolenti dalle ferite delle chiavi, seguitava a percuotere il troncone del manico per terra, trasportato dall'impeto di quella furia, colla bocca, che aveva finalmente trovata la contorsione del pianto.

Ad un tratto lasciò cadere il troncone, e si chinò a raccogliere una carta. Era una lettera. Cogli occhi che leggevano a stento, gli parve di riconoscere il grosso carattere dell'Anna.

Il cuore gli si arrestò così bruscamente, che cadde quasi in deliquio. Era proprio il carattere dell'Anna, la lettera doveva essere nascosta entro il violoncello.

Allora, sotto la pressione di una nuova paura, strappò il suggello.

La lettera era senza busta.

/* «Caro Giorgio, */

«Ti scrivo prima di morire. Ecco, tu adesso sei al concerto, ma io ti sento di qui. Troverai il mio testamento in un'altra lettera sotto il capezzale; con essa ti lascio la mia poca miseria, pregandoti di conservarla anche quando sarai diventato un signore, come un ricordo del bene che ti ho voluto, dopo che ti era morta la mamma, e ti ho raccolto.

«Eri bello come un angelo, povero Giorgio! Ogni giorno ti facevo sempre più mio come se ti avessi fatto davvero. Tu non puoi ricordartene, perchè i bambini sono senza memoria, ma io mi rammento di tutte le tue cattiverie; ogni mattina ti alzavi più cattivo per me. Dopo che hai avuto il violoncello, io non ho contato più nulla. Tu sei bello e di una razza di signori: io sono brutta, di povera gente, e mi sono ammazzata a lavorare per te. Cosa vuol dire? non ci pensiamo più. Quando sarò morta, fa conto, come ti ho detto, che mi abbiano seppellita dentro il violoncello: te l'ho dato come il capo più caro della mia miseria, tientelo come una reliquia. Adesso, a pochi minuti dalla morte, non ho più vergogna di dirtelo, perchè lo saprai quando sarò spirata: io ti amo, Giorgio. Ti amo come il mio bambino, se ti avessi fatto, come il mio amante, se avessi avuto da te un altro bambino. Ma sono vecchia per te; ho trentasette anni, sono gobba, e non potrei ispirare che un poco di pietà. Figurati se non l'ho capito subito! Ora, che parlo per l'ultima volta, voglio parlare. Diventerai un signore, avrai tante belle donne, che ti ameranno: io non te lo posso impedire, e non lo vorrei: ma pretendo un posto nel tuo cuore, un cantuccio dove non ci sia nessuno, e dove tu verrai tutte le volte che avrai bisogno di una mamma, o di una sorella. Io sarò sempre lì; mentre le altre donne ti faranno delle carezze, o tu ne farai a loro, io ti aspetterò lì colla tua musica; tu dopo farai il confronto fra noi e loro, e ci amerai di più. Nessuno al mondo ti vorrà mai bene come meriti, e come hai bisogno. Si dice che i moribondi vedono nel futuro; bada dunque alle mie parole: nessuno ti amerà come io ti ho amato. Se un giorno non te ne accorgi, non sarai un gran suonatore.

«Non ho più forza di andare innanzi.

«Quando leggerai questa lettera sarò morta: prendila come la preghiera della mia agonia.

«Sta attento. Io non so dove si vada dopo morti, ma fa conto che ti vegga sempre, e se un giorno tu dovessi dimenticarmi, o suonare un altro violoncello, che tu sia maledetto da Dio, e non sappia più nè dove andare, nè dove stare come Caino. Egli non aveva ucciso che suo fratello; tu avresti ucciso tutta la tua famiglia nella tua Anna.

«Ti saluto, e credimi per sempre la tua

/* «ANNA VENTURI.» */

All'ultimo periodo la calligrafia era quasi illeggibile.

Giorgio aveva scorso quella lettera cogli occhi balenanti, e un convulso, che gli faceva tremare tutto il corpo a verga a verga. Aveva i capelli irti, una specie di bava alla bocca. La sua fisonomia era diventata orribile nel terrore, la fronte imperlata di sudore, il corpo raggricciato in una contorsione di vecchio e insieme di bambino.

Quando l'ebbe finita, rimase egualmente fiso, cogli occhi che non leggevano più, la ragione schiacciata nel cervello da un gran dolore improvviso. Tutti i muscoli gli battevano.

- Oh! - mormorò con gesto disperato, tentando di slacciarsi la cravatta per poter singhiozzare; ma non vi riuscì.

Allora barcollando, metà ebbro e metà svenuto, andò tastoni verso il letto, e vi cadde. Ansimava, gli battevano i fianchi, gli sibilava il respiro. Tutto l'impeto di quella convulsione gli si addensava in una necessità di pianto, che gli gonfiava il petto, martellandogli il cranio. Furono pochi minuti di uno sforzo e di uno spasimo supremo. Era caduto bocconi sul letto colle braccia distese sul cuscino, le gambe floscie, che gli tremavano.

Ad un tratto gli mancarono, e cascò pesantemente per terra. Non gridò nemmeno, ma poco dopo s'intese un rantolo.

Non aveva potuto piangere...

Se andate al manicomio di Bologna l'illustre professore Roncati vi mostrerà un pazzo interessante. È un bel giovane biondo, coi capelli lunghi, la fisonomia nobile e triste. Il professore, che aveva avuto l'idea di un'orchestra, voleva farne di lui il direttore; ma Giorgio si scusò, spiegandogli a lungo l'impossibilità di ottenere qualche cosa di buono con simili elementi.

- Ma ho tutti gl'istrumenti - insisteva il professore.

- La musica è un accordo di pensieri prima che d'istrumenti. I pazzi non si accorderanno mai.

- E tu sei pazzo? - gli aveva chiesto ridendo.

- Non lo so: gli altri sono senza testa, io invece sono senza cuore.

Ecco la sua pazzia; dice che non lo ha più, e non si ricorda dove lo abbia perduto. Ma se gli fate osservare che gli batte sotto la terza costola sinistra, egli vi guarda con due grandi occhi, fa un pallido sorriso, e ripete invariabilmente:

- Batte, ma non suona.

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