Viola

Ero solo.

Nel salone, immenso come tutti quelli dei palazzi antichi ed illuminato da tre lumiere di Murano vecchio, cento fiammelle di gas, al posto delle candele, aprivano le grandi ali di farfalle riempiendo tutto l'ambiente di un chiarore bianco e crudo. Le spalle delle signore e le camicie degli uomini avevano un riverbero marmoreo, una tinta unita e fredda, che respingeva gli sguardi. Il salone era rosso, i mobili dorati. Un odore sottile, che le sottane delle signore agitavano come un vento, pareva alzarsi dai fiori del tappeto, che lo scalpiccio di tutti quei piedi non poteva avvizzire. Benchè animatissima, la festa non era che al principio; molte bellezze nubili vi sfolgoravano, ma si notava ancora l'assenza di due o tre glorie del matrimonio, solite ad arrivare sempre le ultime, o per un calcolo sapiente di civetteria, o per quell'orgoglio dei sovrani di non apparire tra la folla, se non quando questa prova finalmente il bisogno di un capo, e di andarsene quando comincia a perderne la coscienza. Il valtzer, precipitando in una ripresa piena di scoppi, aggirava tutta quella massa silenziosa di ballerini, che abbracciati senza guardarsi nemmeno, si parlavano forse con una quantità di piccole strette. E solo, sopra un divano dominato da una mensola carica di fiori ed avvolto quasi fra il panneggiamento di una tenda damascata, la quale sdraiava sul tappeto una magnifica frangia tutta ad ovoli e a fiocchi, io guardavo.

Donna Augusta lasciò il proprio ballerino ad un'altra signora, e venne a cadere quasi stancamente sul mio divano. Era vestita di nero, nuda le spalle, con uno strascico leggiero come una nuvola e lungo come quello di una cometa. Alcuni grappoli di bacche rosse, colti come lì per lì ad una siepe, le disegnavano le pieghe dell'abito, stirandolo alle ginocchia e rialzandolo ai fianchi per formare la caduta della coda, dalla quale spuntava la trina di una sottana, diafana e bianca come un merletto di galaverna; mentre un grossissimo corallo brillantato le faceva sulla nuca da capocchia all'anellone delle treccie nere, e un'altra collana di coralli della più bella tinta sanguigna, un rosario di sangue, le ravvivavano il candore del seno, umido in quel momento come il marmo di una chiesa. Ella s'abbandonò sulla spalliera, percuotendosi il mento colle piume nere del ventaglio, sospeso alla cintura per una minima catenella d'oro. I monili delle sue braccia, formati da tante pallottole di corallo infilate in un cordoncino di seta, si urtarono con un suono sordo di gragnuola; e il brillante, che incappellava il perno del ventaglio, le gettò nell'ombra della mano un balenio labile ed acuto.

- Pensate forse all'ode di Byron sul ballo, voi, che non ballate come lui? - mi si rivolse improvvisamente con uno dei suoi moti più vivaci, che parevano sempre seguitare un discorso.

- No.

- Siete funebre: davvero che il vostro abito nero, come dice Musset, pare un abito da lutto.

- In questo caso le bacche del vostro potrebbero essere goccie di sangue. Avete ucciso qualcuno con una parola o con un sorriso?

- Ah! - esclamò - passarono quei tempi. La tragedia è stata espulsa contemporaneamente dal teatro e dalla vita; la commedia trionfa dapertutto. Le passioni oggi sono ridicole, i capricci appena tollerati, purchè brevi. Voi altri uomini non amate più, cercate di scegliere: noi...

- Di preferire.

- Se fosse possibile, benchè sia quasi sempre troppo faticoso.

E si gettò addietro in una posa, che diede una mollezza di più alla sua lassitudine. Poi girò l'occhio sulla folla, e, cogliendo a volo l'attitudine goffa di un ballerino, me l'accennò con un sorriso. Era allegra; le spalle, alzandosele ancora nelle ultime violenze del respiro, le facevano aprire la bocca e mostrare due file di denti, bianchi come quelli di un cagnuolo. Ad un tratto mi si appressò, e piantandomi negli occhi i suoi occhi verde-mare, pieni di ombre e di guizzi:

- Se indovino me lo confesserete? datemi la vostra parola. Voi cercate un romanzo.

- Piccolo.

- Una novella allora.

- Ma che lo fosse davvero.

Ella alzò le spalle alla freddura.

- L'avete trovata?

- Sapete bene che cercando non accade mai.

- Lo so - rispose con un'inflessione quasi grave nella voce. Quindi: - Lieta o malinconica?

- Mi è indifferente.

- E il titolo l'avete?

- Sì.

- Quale?

- La Viola.

- Mio Dio, è un po' fuori di stagione: mutiamo fiore.

- Impossibile, perchè è un istrumento.

- Ma se non conoscete la musica!

- E quindi me ne occupo per non essere un'eccezione.

- Come la volete lunga?

- Quanto un capriccio.

- Bella?

- Altrettanto.

- Allora vi contentate di poco: i capricci non sono belli che prima e dopo.

- A rovescio delle commedie, che non divertono se non negl'intervalli: la solita differenza fra l'arte e la vita.

- Quanti personaggi?

- Pochi, uno per corda basterà.

Ella sorrise.

- Sapete che mi divertite!

Io m'inchinai al complimento, ed ella proseguì:

- Ditemi almeno che cosa ne farete?

- La metterò fra altre tre, Violino, Violoncello e Contrabbasso, dentro un libro.

- Che naturalmente chiamerete Quartetto.

E si distrasse ancora.

- Voi, che ve ne occupate come romanziere - mi si rivolse gravemente dopo qualche minuto - avete ancora trovato un amore vero, di quelli, che uccidono per forza propria, e non per una circostanza drammatica ed esterna? Nel nostro secolo si ama poco, nella nostra classe non si ama più. Guardate questa folla; le signore sono slavate, gli uomini volgari. Se, ripetendo il celebre scherzo di Locke, applicassimo il fonografo a questo salone, e potessimo leggere domattina le conversazioni di questa notte, forse capiremmo anche meglio il perchè di questa osservazione, diventata quasi impossibile a forza di essere comune, che nella nostra classe non si ama più.

- Di chi la colpa?

- D'entrambi; di noi signore, che non sappiamo più ispirare; di voi altri signori, che non sapete più sentire. La nostra bellezza, che era delicata, si è fatta fievole; la nostra anima leggiera divenne futile. L'estrema volubilità della moda ci assorbe tutto il tempo, giacchè usciamo di casa due o tre volte al giorno, e dobbiamo improvvisare almeno sei abiti per stagione. Quindi la nostra vanità è senza requie, ed oramai senza soddisfazione. Vedete: oggi non vi è quasi più differenza di classe; la moglie dell'affittaiuolo veste come la moglie del principe che affitta; sono state educate nel medesimo convento, si servono della medesima sarta e delle stesse beneficenze. Le carrozze cominciano ad essere senza stemma, come le carte da visita, come le livree senza galloni, i guardaportoni senza mazza. I saloni per riempirsi hanno dovuto spalancare porte ed usci alla folla promiscua dei teatri; quindi nessuno vi dominò più. Le grandi dame ricusarono di sgrossare gl'invitati ben ricevuti e mal graditi, e trovarono più superbo il deriderli segretamente, subendoli in pubblico; le piccole signore vi continuarono le intimità del collegio, i borghesi vi raccolsero i rimasugli delle antiche buone maniere, e se ne decorarono; i popolani arricchiti, più rozzi e più forti, vi perdettero la loro forza originale ed il loro danaro acquisito. Le loro figlie sposarono i nobili decaduti o derubati; i loro figli si abbeverarono di umiliazioni, ed impararono a scrivere firmando le cambiali di coloro, che sulla onorabilità già offuscata del proprio nome li introducevano nelle case patrizie, dorate dall'oro antico ridorate dall'oro moderno. Una volta il salone era come una scuola superiore di buon gusto, l'anticamera dell'accademia per i letterati, o del parlamento per i politici: gli artisti vi arrivavano trionfando, il danaro redento da una prodigalità sontuosa e benefica. Oggi non è più nulla: vi si parla poco, vi si ama punto. Guardate: in tutti i saloni si giuoca; ma non ai giuochi d'azzardo, dove le maniere si formerebbero ancora nella necessità di mentire la propria forza o la propria fortuna, sibbene a bezigue o a picchetto. La bigotteria legittimista o mazziniana ha tolto lo spirito di una volta alla galanteria, la sincerità alla frivolezza: non si confessano più gli amanti, ma si palesano; lo scandalo, che spesso era la rivelazione di una bella originalità, e quindi accolto col sorriso, oggi è implacabilmente scacciato: e nel secolo, dove il matrimonio fu proclamato un contratto, e i principi del sangue in esilio sposano le figlie dei biscazzieri, non si permette più ad una signora di darsi per nulla, ad un uomo di offrirsi per intero.

E un sorriso di leggiera ironia chiuse questa maschia invettiva. Donna Augusta si raccolse un momento, quindi seguitò senza darmi tempo di rispondere:

- Che cosa venite a fare nella nostra società? Voi non avete le qualità necessarie per descriverla: non vedete come tutto vi è senza fisonomia, faccie e discorsi, azioni e sentimenti? Non vi è più nè una bella donna, nè un gran gentiluomo. Ieri un duca ricusava di battersi con un deputato, adducendo per pretesto la religione, come se il duello, invenzione cristiana, non fosse sempre stato un privilegio dell'aristocrazia. A questa festa non si è osato d'invitare la marchesa ***, perchè fuggita dal marito, e i giornali ne hanno parlato. Guardate in tutta questa folla; non vi è nè un poeta, nè un artista, nè un filosofo, nè un uomo di stato. Individui senza nome proprio, nè di famiglia, sono ammessi e fanno la legge; perchè oggi col suffragio universale la legge è il numero; l'aristocrazia non osa più essere se stessa, la borghesia, che ha conquistato il pensiero e il denaro, non è ancora arrivata a preferire quello a questo; invidia i nobili, che ha sconfitto e li scimmieggia; ne questua le parentele, ne mendica gl'inviti. Se domani la plebe facesse una rivoluzione, i banchieri del nostro secolo non saprebbero morire come i baroni del secolo passato; la religione non ha più nè un apostolo, nè un pensatore; la politica un riformatore od un tiranno. Non sorridete: bisogna bene che anche noi donne impariamo a fare un discorso, adesso che si sta discutendo la nostra capacità elettorale in parlamento. Sapete perchè l'aristocrazia non ama e non lavora, la borghesia lavora e non ama, la plebe ama e lavora? Perchè l'aristocrazia è morta, la borghesia è moribonda, la plebe è giovane, ed ha ancora davanti a sè un avvenire.

- Siete anche voi del partito di Schopenhauer come le signore tedesche: l'amore è il veicolo della vita?

- Forse meglio, la vita stessa: chi non vive non può amare, perchè non ha nulla da trasmettere.

- Così votereste per la repubblica.

- Giammai, è una forma antiquata. Tutte le repubbliche, che hanno vissuto, furono oligarchiche, le moderne non vivranno. In America, osservate, è appena l'amministrazione di un'immensa colonia; in Francia, un interregno; in Isvizzera, una parrocchia. Roma ha conquistato il mondo, Venezia raccolse la tradizione di Roma: Victor Hugo con tutta la enormità del proprio ingegno non ha potuto nemmeno rendere commovente l'agonia della seconda repubblica francese: Gambetta colle sue spalle da Ercole non sosterrà la terza. Solo la Comune ha saputo morire come Sardanapalo; e, quando si muore così, si rinasce.

- Forse.

- Perchè in basso, al disotto di noi, che viviamo di tradizione e di etichetta, di lusso e di incredulità, la plebe crea ad ogni attimo il proprio presente, lavora per tutti e crede in se stessa. Come non crederebbe nel moto essa, che è il vapore? Talvolta, sola in carrozza, mi diverto a confrontare le figure che incontro. Quale differenza fra coloro, che ordinano, e coloro, che ubbidiscono! Noi signore, colla personcina esile e la pelle bianca per difetto di sangue, non avremo mai figli capaci di lottare coi discendenti delle popolane dalle carni bronzine e le spalle poderose. I nostri figli non montano nemmeno più a cavallo, non tirano di scherma. Evitano l'università, perchè vi troverebbero negati i loro privilegi, mentre i borghesi vi studiano tutte le scienze per dominare fra il popolo. Ma neppur essi vinceranno. Noi avevamo un principio ed eravamo un tipo: accampati sulle rovine dell'impero romano, dovevamo mantenere la disciplina nei barbari vittoriosi, e ripigliare la civiltà dai vinti: e l'abbiamo fatto. Quando l'aristocrazia sentì scemare la propria efficacia nel popolo, si condensò e produsse la monarchia: noi abbiamo durato qualche cosa come una dozzina di secoli, il mondo moderno è l'opera nostra. Ma la borghesia nata nell'ottantanove è un assurdo. Noi avevamo diviso il mondo in due classi, ufficiali e soldati: essi vi hanno aggiunto quella dei fornitori, e vorrebbero che il loro denaro valesse come il sudore dei soldati e il sangue dei generali. Perchè terzo stato? Perchè non il quarto, il quinto, tutti gli altri, sino a tornare nell'antica divisione, da un canto i lavoratori delle braccia, dall'altro quelli della testa? Se noi fummo qualche volta la rapina, essi sono il furto; se noi fummo la violenza, essi sono la frode; se noi fummo la distruzione, essi sono la fame. Ma noi almeno eravamo belli. Paragonate, voi artista, i nostri palazzi colle loro case, le nostre chiese coi loro teatri, il nostro onore colla loro probità. Voi sapete che il genio non può mentire, perchè la menzogna è un'infermità. Ebbene, confrontate le nostre letterature: per i nostri ritratti occorrevano dei Dante e degli Shakespeare, mentre per loro oggi bastano dei Flaubert e dei Zola. La superiorità dell'artista non è solo nell'ingegno, ma nel modello: la scultura greca è più bella della nostra, perchè i Greci erano più belli di noi come popolo.

Ma in quel momento cominciava una quadriglia, e il ballerino venne ad inchinarsi davanti a Donna Augusta. Era un bel giovane biondo, dalla fisonomia signorile e macilenta. Donna Augusta me lo mostrò con un'occhiata, quasi a commento delle proprie osservazioni, e levandosi con grazia inimitabile mi gettò in un sorriso la promessa di ritornare. Rimasi solo, ancora nel turbine di quella sua conversazione. Non era strana, perchè conoscevo Donna Augusta da due anni, e le avevo già scoperto sotto l'apparente frivolezza della vita un colto ed originale talento di pensatore. Come si facesse a legger tanto, e ad aver tanto imparato, era un mistero: ma ella era al corrente di tutto, dell'ultima moda e dell'ultimo libro. Fra gl'inglesi preferiva Carlyle, fra i tedeschi Stirne. Però nei circoli eleganti nessuno lo sospettava nemmeno: ricordavano ancora la sua celebre avventura, un romanzo a mille variazioni, con un illustre defunto, al quale era mancato il tempo per diventare un grand'uomo, un deputato morto alla sua prima campagna come Hoche; ma i più la credevano una delle solite signore, che hanno imparato le lingue estere dalla governante, e sanno suonare passabilmente il pianoforte. D'altronde un piccolo difetto confermava il pubblico in questo giudizio. Donna Augusta rideva sempre. Era un sorriso nervoso, che le increspava la piccola bocca ad ogni minuto, dinanzi a tutti: un sorriso, che era forse una timidezza sopra tutta quell'audacia, un impaccio invincibile nella sua insuperabile disinvoltura.

In quel momento Donna Augusta ballava la quadriglia con tutta la foga di una giovinetta e la voluttà educata di una gran signora. Il ballerino, porgendole la mano, le diceva sempre qualche motto, al quale ella rispondeva con un sorriso, torcendosi lo strascico intorno agli stivalini, alzandosi sopra la sua onda nera colla grazia di un'ondina e gli atteggiamenti labili di una visione. Quindi, incrociandosi colle amiche, alitava una parola nel loro cicalio profumato, o coglieva a volo tutte le risorse di una posa, distribuendo i favori di un gesto, accettando gli omaggi di uno sguardo. Il suo abito nero fra tutti quei cilestri e quei rosa era di un effetto quasi eccessivo, di un risalto, che le attirava involontariamente tutte le occhiate e il peso di tutte le osservazioni. Poi mi distrassi, e le sue ultime parole mi risuonarono ancora all'orecchio nella loro stravagante verità. Era forse la prima volta in un salone, che una signora osasse non solo pensarle, ma dirle. Infatti quella festa, colla sua allegria di veglione e la sua famigliarità di club, era brutta: le signore parevano tanti figurini di moda, gli uomini tanti camerieri. Il salone enorme colla volta dipinta dagli Zuccari, i cornicioni frastagliati, i mobili dorati, le porte scolpite, faceva pensare ad un'altra gente, ad altri costumi, quando le dame erano in guardinfante, ed i cavalieri in cappa. Pochi ufficiali facevano tintinnire le rotelle degli speroni, poche gemme rutilavano fra quella confusione di colori. Gli uomini vestiti di nero formavano una cintura funebre intorno al gran quadrato della quadriglia, come intorno ad un catafalco: le signore stecchite, come tanti manichini entro le loro corazze di seta, non agitavano che la testa, un viso di bambola, cogli occhi lucidi, la bocca rosea, le spalle acute, il seno pallido. E movendosi con una compostezza automatica formavano certe figurazioni incomprensibili, aggruppandosi e sciogliendosi mutamente, in un ballo senza musica e senza danza, l'ultima goffaggine del sussiego, l'ultima creazione dell'impotenza.

Donna Augusta mi passò vicino.

- Ceneremo assieme: fate preparare.

Ubbidii.

Quando la quadriglia fu terminata, un cameriere ci aveva già disposto dinanzi un tavolino nero, grande quanto un bacile, con due piatti.

- Portatemi dunque dell'acqua - ella ordinò. - Ancora un sintomo; io sono astemia, il vino è troppo forte per noi.

- Ecco che negherete pure il vino dell'aristocrazia.

- Sicuro! - insistè con uno scoppio del suo sorriso.

- Ad un'aristocrazia, che ha avuto una parte così brillante nella nostra rivoluzione!

- Ricasoli ha inventato il Chianti.

- Siamo giusti: contiamo, sono molti: Cavour, Manzoni, Niccolini, Leopardi, Mamiani, Cibrario, Sclopis, Manin, D'Azeglio, Lamarmora, Pallavicini, Capponi, Dandolo.

- Questi sono i nobili: potreste contarne altri, ma sarebbero ancora individui. Anzitutto la nostra non fu una rivoluzione: una rivoluzione è un'idea nella storia della umanità, la nostra fu un fatto. Per parlare di aristocrazia, l'Italia ne aveva tre: una a Torino, una a Napoli, una a Roma. Quella di Torino si è battuta per il re, come se si trattasse di una conquista, e non era che una egemonia; quella di Napoli lo ha abbandonato nella sconfitta, come ha fatto quasi sempre per tutti i propri re; quella di Roma, la più grande, che avrebbe potuto essere un'oligarchia, perchè in ogni famiglia vi è ancora una tradizione di regno, non ha capito nulla, e non si è mossa. Nessuno dei nobili, che mi avete citato, rappresenta la propria classe, come da Chateaubriand a Montalambert in Francia gli scrittori aristocratici rappresentano la propria. Solitari nello studio, volontari nella rivoluzione, come la chiamate voi. L'aristocrazia è morta, osservatevi intorno.

- Questo è il suo funerale - dissi ripreso dalla mia idea.

- I perduti non ne hanno: essa è rimasta addietro nella storia, come un reggimento di veterani in una grande marcia sforzata. Almeno avesse avuto una Beresina!

- Le occorreva un Napoleone.

- Ogni avvenimento si proporziona i propri uomini. L'aristocrazia non ha avuto un generale, perchè non era un esercito; un uomo politico, perchè non era una classe; un oratore, perchè non era un sentimento. Se l'aristocrazia non fosse stata morta, avrebbe dovuto capitanare il moto della penisola, essa, che avanti di ogni altro poteva avere il senso dell'unità. Prima che Mazzini predicasse la fratellanza fra le provincie italiane e la insegnasse nelle congiure, un marchese di Napoli e un barone di Torino erano già fratelli, perchè erano uguali. Il privilegio serviva loro di unità. Bisognava che l'aristocrazia italiana dopo il primo regno italico avesse aperto gli occhi, e, presentendo i nuovi tempi, vi si fosse acconciata, acconciandoseli. In nessuna nazione del mondo la nobiltà è numerosa e storicamente importante come in Italia: ogni città di provincia conta ancora la propria dinastia. Tutto era possibile ad una classe, che avrebbe avuto per sè le campagne, e non avrebbe avuto contro nessuna altra forza di ricchezza, perchè la gente industriale non era ancora organizzata. La borghesia rivoluzionaria, una avanguardia di scienziati e di poeti, affamata di libertà, febbricitante di entusiasmo, ma in fondo ammalata di vanità come tutti gli eroi, si sarebbe battuta furiosamente sotto la nostra bandiera, perchè non avremmo avuto che ad aprire le nostre fila, e a decorare coi nostri titoli i suoi più illustri capitani per mantenerle la disciplina, e toglierle ogni voglia di ribellione. Allora non vi sarebbero stati che due soli interessi in azione: quello del popolo, che è il benessere materiale: quello dell'aristocrazia, che è il benessere intellettuale. Invece si unì coi preti, e credette di impedire la rivoluzione disprezzandola: doppio errore, che produsse due deformità: il clericalismo, che si batte oltre i confini della religione; il legittimismo, che si batte entro la piccola cerchia monarchica per difendere nel re i propri minimi privilegi di cortigiano. Ah! è sempre stato il mio sogno.

- Il vostro sogno di gloria e di amore.

- Noi avremmo oggi un senato più numeroso della camera, pieno di grandi nomi e di uomini superiori; amministreremmo tutto il paese, e non vi sarebbero ladri nell'amministrazione; serviremmo nell'esercito, e i nostri contadini si batterebbero come leoni col loro signore alla testa. Avremmo un re, che sarebbe nostro pari, come un presidente repubblicano è pari con tutti i cittadini; tutte le glorie e tutte le grandezze, anche il papato, che avremmo subordinato alla patria, come fece sempre Venezia. Ma Venezia era un'oligarchia, e l'oligarchia è la nobiltà nel patriziato. Invece abbiamo degli ufficiali, che si arruolano per trenta scudi al mese; dei deputati, che speculano sul loro mandato; dei consigli comunali, che sono camorre; dei saloni, i nostri saloni, che paiono sale d'ospedale, dove si raccolgono tutte le anemie del corpo e le tisi dell'anima. Confessate, voi, che non avete la goffaggine di essere uno dei soliti liberali, che era un bel sogno!

- Bello come l'impossibile, che è la grande tentazione dei tiranni e delle donne. E voi adesso, invece di essere qui, sareste a Roma, nel vostro palazzo che sarebbe una reggia, più regina della moglie del re, perchè l'impero della donna è di inspirazione e di influenza, e bisogna essere unicamente donna per averlo. Madame Recamier ebbe un impero ben più vasto di madama Staël. Come le principesse del rinascimento avreste la vostra corona di poeti e di scienziati, di politici e di capitani; sareste un idolo ed un oracolo; gentile come Lucrezia Borgia e terribile come Caterina Medici, riverita come Vittoria Colonna e amata come Imperia. Il vostro salone sarebbe un olimpo, il pantheon di tutte le grandezze, il tempio di tutte le glorie. Avreste le spade di Vittorio e di Garibaldi nella stessa panoplia, le bandiere della Cernaia e di Montevideo, di Goito e di Calatafimi nello stesso trofeo. Nel vostro circolo avrebbero discusso Curci e Gioberti, Cavour e Mazzini, e verrebbero adesso a stringersi la mano papa Pecci e re Umberto, mentre Morelli vi cercherebbe una testa di madonna, Boito penserebbe al suo Nerone, Carducci ad un'ode pagana, e Vera, il grande hegeliano, mostrerebbe ad Ardigò, il nuovo positivista, il trionfo del proprio sistema sul vostro, la necessità dei contrari e la loro fusione.

Ma ella non mi ascoltava nemmeno. Si era abbandonata nuovamente sul divano, la faccia immobile in un pensiero. La eletta e delicata vigoria del suo corpo si esprimeva in quell'attitudine con una potenza, che faceva ricordare il sublime ritratto di Agrippina; ma il suo viso più corretto nelle linee si dilatava alla fronte per una più vasta vita cerebrale. I suoi occhi, grandi e tagliati a mandorla, avevano una profondità dolcemente appannata, come a certe ore del mattino l'aria vela tremolando la cavità di una forra. Le sue spalle erano larghe e il suo seno ampio, benchè la cintura le serrasse troppo la vita, divenuta eccessivamente sottile sotto la pressione continua della moda. A che pensava in quel momento donna Augusta? Le dicerie sulla sua relazione con quell'illustre defunto, che l'Italia ha già dimenticato, e che passò attraverso il Parlamento come una cometa fra una folla di astri minori, mi ritornarono allora nella memoria. Quelle idee, frammenti di un antico mondo, colle quali uno spirito audace aveva forse sognato di ricostruirne un altro, e che ella gettava alla rinfusa contro la società moderna, come un grande artista si divertirebbe amaramente a scagliare negli ornati gessosi dei nostri edificii i rottami di un antico cornicione in terra cotta, mi parvero come le reminiscenze di un amore sconosciuto fra due grandi anime, le strofe mutilate di un poema rimasto inedito in un secolo, che non sente più l'epopea. Ella me ne aveva discorso altre volte, ma come per incidente, vibrando il bagliore di un'osservazione nel crepuscolo brumoso delle solite conversazioni. In quel momento ella aveva forse abbandonato la festa, e vagava come uno spirito, che non ha ancora potuto morire, per un cimitero silenzioso. La sua fronte troppo vasta per una donna, e che ella, malgrado le esigenze della moda, mostrava sempre nella sua orgogliosa nudità, aveva l'arditezza di una cupola gettata sopra un tempio; mentre il suo candore, che aveva resistito a tutto, pareva come la casta ragione del suo orgoglio.

Gli invitati sparpagliati per l'immenso salone, a gruppi, presso un divano, intorno a una poltrona; le signore sedute, gli uomini quasi tutti in piedi rumoreggiavano fra un tintinnio di piatti e di bicchieri, di posate e di risa; intanto che i camerieri, superbamente gallonati, passavano e ripassavano fra di loro come tanti dignitarii in mezzo ad un popolo. Per un momento, colle signore nascoste da tante cinture di uomini e che non mostravano se non una macchia stuonata dell'abito, il salone mi parve come una enorme tavolozza, sulla quale aspettassero dei mucchi giganteschi di colori. Sebbene il vento circolasse liberamente dalle finestre aperte, l'aria troppo satura di profumi s'aggravava sul respiro, e le cento fiammelle a gas vibravano un calore accecante di meriggio. L'animazione della festa era al colmo, i fiori cominciavano ad avvizzire, la musica taceva, i discorsi si alzavano stormendo con un suono secco di pioppi. Lo scoppio di una bottiglia di champagne tuonò.

Donna Augusta mi guardò. Mi affrettai ad alzarmi, e, inchinandomele senza dir altro, le offersi il braccio. Ella mi guardò ancora, e si levò. Traversammo quasi inosservati il salone: nell'anticamera le avvolsi intorno al petto uno scialle chinese, miracolo di un'industria, che vanta forse trenta secoli di studii e di progressi; ella mi lasciò fare, se ne accomodò i capi sulle braccia, stringendoselo con una sola ondulazione su tutta la persona. Si assicurò in una mano il mazzo dei gelsomini, il ventaglio nell'altra, quindi rivolgendomi il capo respirò potentemente l'aria più fresca dell'anticamera.

- Grazie - mi disse poi, infilandomi da se stessa il braccio per discendere lo scalone.

Io non risposi.

Il servitore gallonato, che aspettava all'ultimo pianerottolo, ci riconobbe e corse a chiamare la carrozza. Era scoperta: non dovemmo attendere neanche un minuto. Ella vi salì colla leggerezza di un levriero e per risparmiarmene il giro si sdraiò a sinistra: montai. Ella ordinò al cameriere, che chiudeva lo sportello:

- Al lago.

La notte era tiepida, la luna sorgeva allora. Traversammo la città senza dire una parola. I cavalli, due superbi trottatori, battevano sonoramente l'unghia sul ciottolato, trasportandoci colla rapidità di una visione: ma appena fuori delle mura il vento della campagna ci richiamò colla sua dolce sensazione. Ella cangiò posa, scambiò meco un'occhiata, e seguitò a tacere. Io aspettavo. Il nostro silenzio, leggero come il venticello, aveva la medesima mitezza della campagna e la stessa soavità del crepuscolo lunare. Ella pensava sempre. La tappezzeria bruna della carrozza e l'abito nero davano alla sua testa come una sembianza di statua, alla quale i riflessi dorati dello scialle chinese parevano tessere un'aureola evanescente. La campagna era bruna e profonda. L'ombre frastagliate degli alberi cominciavano a ricamare la strada aperta dal solco raggiante dei fanali: i domestici in serpa stavano immobili. Il suo mazzo di gelsomini avvizzito dal bollore della festa esalava un odore più acuto ed insieme delicato, che mi distrasse. Era l'aroma del suo pensiero femminile, o il preludio di ciò, che forse mi avrebbe detto fra poco? Infatti si raddrizzò leggermente sul cuscino, mosse la testa, e con quell'accento trasognato, che in lei sembrava uscire da un lungo soliloquio, mi domandò:

- Ci pensate ancora?

Non compresi.

- Allora ecco la vostra novella.

Involontariamente mi sfuggì un atto troppo vivo di curiosità, ella lo represse con un sorriso, e chinò il capo colla civetteria dei grandi oratori, che preparano una improvvisazione. Il trotto dei cavalli, cadenzato e poderoso come un rullo, avvolgeva la carrozza e dava il prestigio di una confidenza a quanto ella stava per narrarmi. La luna tardava a sorgere: ella incominciò nell'ombra a bassa voce:

- Vi ricordate la prima volta, che vi presentai alla duchessa di Campiano? fu ad una festa di ballo nelle sale dell'ambasciatore di Germania: quella sera la duchessa era anche più bella del solito, era vestita di bianco, stellata di diamanti. Mi pare che poco dopo veniste a dirmi molto bene della duchessa come donna e come dama; ma non mi sovvengo che me ne abbiate più parlato. Voi partiste, ella morì dopo tre mesi. Nessuna meglio di lei incarnava il tipo tanto studiato e così poco capito della gran dama moderna: ne aveva tutte le qualità e tutti i difetti, i caratteri tradizionali e le espressioni contemporanee. Nata in una delle famiglie più nobili e più ricche di provincia, era cresciuta a Firenze in mezzo agli splendori delle ricchezze, alle sontuosità dell'eleganza. La conobbi maritata, ed ignoro la sua infanzia; ma so che, essendo figlia unica, non fu posta in convento, e che sua madre in gioventù non era stata meno bella, nè meno elegante. Il suo fisico ve lo rammentate senza dubbio, il suo morale non lo avete certamente nè indovinato, nè studiato. Ella aveva ventitre anni, due bambine, sei milioni di dote, un marito. Educata in un ambiente aristocratico al disopra del mondo, come il suo palazzo antico era al disopra di tutte le case circostanti, ella non ne sapeva nulla; sembrava istruita ed era ignorante, non aveva letto nessun libro forte, nè riflettuto ad alcun problema umano: non sapeva la storia di nessun popolo e di nessuna idea. Dolce nel carattere come tutti quelli, che non incontrarono mai difficoltà; nervosa fino alle lagrime e all'entusiasmo, non aveva mai provato una qualsivoglia profonda emozione di pietà o di ribrezzo, di odio o di amore. Però aveva un'affabilità irresistibile ed una insolenza incantevole, le maniere morbide e i sentimenti duri: credeva nella religione senza sentirla, accettava i giudizi della propria classe al momento che imperavamo, come ne aveva appreso i modi, e li avrebbe forse istintivamente cercati per la delicatezza innata del suo organismo. Superba fino ad infrangere le leggi dell'etichetta per affermarsi più vivacemente, ma umile e tremante davanti ad ogni pregiudizio; colla freschezza di tutti i bisogni e la decrepitudine di tutte le idee; di una storditaggine, che andava fino alla poesia, e di una osservanza, che oltrepassava la meticolosità; mettendosi naturalmente al centro di tutto senz'altra attrazione che quella delle rose, il colore e il profumo; adorando le feste e i ricevimenti, nutrendosi di occhiate e di sorrisi, non concependo nulla al disopra di se stessa, e non curando quanto poteva essere al disotto; sapendo di essere bella e ricca, nobile e giovane, di possedere tutto e di potere esigere il resto, di essere un'arbitra in casa ed una sovrana fuori; era felice. Il suo egoismo, che aveva la profondità dell'inconscio e la ingenuità dell'esperienza, essendo una grazia, poteva parere un diritto: la sua bellezza aveva una gracilità, che la rendeva più poetica, e dalla quale il mondo interpetrava facilmente la delicatezza dell'anima. Del resto l'avete veduta. Ma quello, che tutti sentivano e nessuno formulava, era la sua coscienza di gran dama, di unicamente dama: vergine senza lirica, sposa senza passione, madre senza fanatismo. Le sue bambine non erano per lei che due gioielli, i più carini, fors'anche i più preziosi, ma solamente una decorazione; suo marito nient'altro che il suo stesso nome e la sua posizione sociale. La vita vera per lei si componeva del palazzo e della villa, del salone e della carrozza, di tutte quelle compiacenze minime e quotidiane, che attirano i privilegi della ricchezza e dell'aristocrazia, dalla servilità dei domestici alle deferenze dei signori più cospicui, delle persone più illustri. La sua vanità, sempre tesa come quella di una cantante, le faceva subordinare tutta la propria esistenza all'approvazione del pubblico, che affettava di non curare; ma il pubblico era per lei di due sorta: quello della piazza, al quale faceva la corte, perchè lo temeva; quello dei saloni, che le faceva la corte, perchè la desiderava. Come le sue eleganze sorpassando la moda non arrivavano mai all'arte, il suo gusto, raffinato senza cultura e senza elevatezza, avrebbe preferito un sopramobile ad un quadro, uno scialle ad un arazzo. Il carattere dominante della sua eleganza e l'ultimo verbo della sua coscienza era la distinzione; questa parola tutta moderna, che vale da sola un dizionario, e contiene tutte le nostre malattie e le nostre superiorità, i nostri sentimenti secreti e le nostre preferenze confessate. Che cosa è davvero questa distinzione, la quale si applica indifferentemente al colore di una stoffa e alla punta di una scarpa, al portamento di una donna e alle forme di un cavallo? Nè Baiardo, nè Vittoria Colonna, che mi avete citato, sarebbero oggi distinti per gente di salone: forse Olimpia Pamphili, se si occupasse meno di politica; ma Paolina Borghese col suo bel corpo di marmo e la sua bell'anima di ferro, no certamente. La bellezza distinta deve essere gracile o almeno angolosa, ma senza idealità nella delicatezza, nè vigore nella angolosità; il profilo di Napoleone primo parrebbe troppo arcigno, la testa della principessa di Lamballe troppo vaporosa. L'affermazione, comune oggi, che le statue greche vestite sarebbero brutte, esprime tutto il contenuto della distinzione moderna; la quale non vuole più il nudo e non sente più il forte, preferisce la decorazione alla semplicità, la mortificazione della fisonomia alla sua calma olimpica o alla sua maestà eroica. I gentiluomini emigrati a Coblenza, che trovavano ridicolo Charette, il quale si batteva e vinceva per loro. La duchessa di Campiano, che accusava Garibaldi di non avere un aspetto signorile, non osando più rinfacciargli la umiltà della nascita! Così ogni vera originalità viene condannata, poichè attesta una superiorità; mentre la distinzione non è che una supremazia collettiva come un marchio effimero di grandi decaduti fra la folla dei sorgenti. Quando i Greci non ebbero più nè potenza, nè libertà, nè arte, nè filosofia, rimasero il secreto della eleganza; sbertarono i Romani, loro padroni, col nome di barbari, e i Romani risposero chiamandoli greculi. Forse allora fu inventata la distinzione, come una rivincita dei vinti contro i vincitori, l'ultimo orgoglio di una razza moribonda, l'estremo vanto di una impotenza, nella quale sopravvivevano i ricordi e svanivano i residui di un'êra immortale. Oggi noi siamo greculi fra il popolo, che ritorna romano. Castellani nel medio evo, potentotti all'alba del rinascimento, principi al suo meriggio, signori al suo tramonto, perimmo nella rivoluzione francese. Fino all'ultimo, quando cessammo a poco a poco di essere noi la civiltà, la proteggemmo; e l'arte e la scienza, l'industria ed il commercio, tutto fu nostra clientela. Adesso una immedicabile incapacità ci condanna al più ignobile dei parassitismi, siamo senza testa e senza cuore, senza funzione nello stato e senza carattere nella nazione. Il disprezzo del denaro, che era stata la nostra ultima virtù, è perito colla nostra ricchezza; accattiamo gli impieghi e vendiamo i blasoni: sopprimete la monarchia, che ci dà ancora qualche onorificenza nei balli di corte, e saremo senza prestigio. Solo l'aristocrazia inglese, sorta l'ultima, quando la nostra, la più antica, cominciava a decadere, ha ancora una qualche coscienza di se stessa; ma la rivalità di opulenza coi grandi industriali la costringe alle stesse avare cupidigie, alle ferocie della grande cultura contro i poveri contadini; e mentre i mercanti uccidono gli operai nelle fabbriche, i lordi disertano la Scozia e l'Irlanda. Però la nobiltà inglese ha un orgoglio, e noi non abbiamo che una vanità. Essa crede alla propria superiorità naturale, e quindi empie le proprie fila di tutti gli aristocratici del caso, nati nelle soffitte e che giganteggiano fra la plebe; giacchè l'aristocrazia o è un fatto naturale o è nulla: noi invece ci siamo chiusi nella sua forma storica, e vi ci siamo incadaveriti, rinnegando il principio, che l'aveva creata, e faceva la sua forza. Quando il cristianesimo bambino si contrappose alla filosofia greca, Tertulliano gli salvò la vita nel terribile confronto con una sola parola: tutto ciò che vi era in essa d'immortale era un prodromo del cristianesimo: l'aristocrazia doveva ad ogni generazione ripetere il motto di Tertulliano alla plebe, e strappandole ad uno ad uno i suoi grandi, dire loro: voi mi appartenete. Invece la nostra vanità li ha respinti; mentre essi erano belli, noi volemmo essere distinti; mentre essi erano forti, noi ci vantammo di essere eleganti; mentre essi lavoravano, noi dichiarammo umiliante ogni lavoro. Essi inventarono il vapore, e noi perdemmo il coraggio di domare un puledro; svilupparono le scienze, e noi abbandonammo le scuole; mantennero l'arte, e noi abbassammo gli artisti al livello degli artigiani. Andammo ancora a teatro, ma unicamente per far pompa di una indifferenza insultante, arrivando infallibilmente dopo il primo atto e partendo al penultimo: leggemmo i loro libri, ma senza spremerne il significato, come si odorano i fiori in certi momenti di distrazione, o li accettammo come un omaggio dovuto alla nostra regalità, un passatempo prodigato alla nostra noia. E per l'illusione logica di tutti coloro che sopravvivendo a se stessi si credono i soli a vivere, battezzammo la nostra congregazione col nome di alta società, il nostro mondo coll'aggettivo di grande. Poi costretti all'appariscenza del lusso, non avendo più alcuna apparenza di grandezza, fummo più condiscendenti verso il danaro che verso l'ingegno; non dimandammo la fedina criminale all'usura, e chiedemmo al genio il suo blasone. Le signore presero per propri i colori della tisi, non ispirarono più passioni e non ne sentirono; bandirono dalla vita l'idillio ed il dramma per lasciarvi una commedia senza spirito, una satira senza profondità. Per essere veramente dame cessarono di essere donne: ebbero una religione senza pietà, una fede senza luce; furono senza patria, perchè non avevano più famiglia; senza poesia, perchè erano senza vita. Ah! me ne dimenticavo quasi, la duchessa di Campiano era così.

E donna Augusta si raccolse un istante.

- Quando conobbi la duchessa di Campiano la sua bellezza era in fiore, e la sua celebrità cittadina nel massimo frastuono. La sua vita, vuota di sentimenti e di azioni, era occupata febbrilmente dalle visite e dai balli, da tutte le necessità mondane delle sue innumerevoli relazioni e dei suoi trionfi. Colla casa piena delle più abili cameriere, non pensava mai che alle eleganze della toletta, alle soddisfazioni delle più minuscole vanità. La duchessa di Campiano non aveva salone. Dava due o tre grandi balli nell'inverno, qualche mattinata, qualche rarissima serata, se qualcuno o qualche cosa gliene fornivano il pretesto, perchè non sentiva nè il raccoglimento della famiglia, nè l'intimità di una corte. Le occorreva la folla sempre e dappertutto. I suoi trionfi di decorazione avevano d'uopo di una luce da palcoscenico, del fracasso di una grande orchestra, dell'applauso di una platea; e quindi le conveniva mutare spesso di pubblico per non stancarne la sensibilità di spettatore e permettere a se stessa il bis di qualche abito o di qualche piccolo motto. Come una prima donna nella retroscena di un teatro fra la folla degli inservienti e degli istrioni senza nome, la duchessa di Campiano era sempre sola nel suo palazzo e fuori, camminando circonfusa di una superbia indefinibile, passando come una visione che non scaldava i cuori e non ottenebrava le menti; leggiera ma inconsistente, profumata ma insipida, insensibile ma non sentita. Tutti la vantavano, e nessuno l'ammirava. Aveva dello spirito, e i suoi motti non restavano; era bella, e non aveva ancora destata una passione.

Ma ella non se ne accorgeva. La necessità di questa prova, che è una tentazione degli spiriti elevati, ella non la sospettava nemmeno; la unanimità dei complimenti le attestava la propria eccellenza, le temerità di qualche uomo, che come baleni da una nuvola troppo carica di elettrico le scattavano attorno, le provavano la sua onnipotenza di donna. Non avendo mai riflettuto, non aveva mai dubitato: invece di osservare, guardava; invece di cercare, accoglieva. Ella era dappertutto; non avrebbe permesso ad un ballo di essere citata senza avervi fatta una apparizione; ai bagni, non si sarebbe lasciata passare un'onda al di sotto senza sollevarvisi. Come una regina, aveva nominato le proprie dame di corte, quattro o cinque signore, alle quali gettava gli avanzi dei propri trionfi, e che la decantavano dovunque per dichiarare la propria intimità con lei e col suo genere di vita. Una sola volta disse meco di volersi comporre un salone, ma le difficoltà ne la spaventarono; e non vi sarebbe riuscita. La povera duchessa avrebbe dovuto far ballare tutte le sere per divertirsi e per far divertire. Ella non lo voleva, e il duca non glielo avrebbe permesso malgrado la sua grande condiscendenza. Essi vivevano quasi separati in un commercio molto amabile ed insieme molto freddo. Il loro matrimonio, determinato da mille ragioni di interessi, non aveva avuto naturalmente che il significato di una associazione, nella quale la galanteria era potuta arrivare sino alle conseguenze dell'amore. Del resto il duca era un gentiluomo molto distinto, che sapeva dirigere un ballo come guidare un tiro a quattro, e avrebbe disimpegnato nobilmente qualunque carica a corte. Non aveva voluto essere deputato; ma, appena l'età glielo permettesse, sarebbe senatore. Che cosa egli medesimo facesse e di che vivesse, era un mistero: era non so cosa in municipio, qualche cos'altro in molte banche, presidente di una società operaia o simile, per quella solita contraddizione del popolo, che odia i signori, e non sa far niente, se non sono almeno in apparenza alla sua testa; ed ecco un sintomo della legittimità dell'aristocrazia. Ma il duca lasciava la massima libertà alla duchessa. La conobbi e mi piacque: ella mi preferì per un certo tempo, perchè con tutte le smanie secrete di sovranità, aveva un bisogno ancora più secreto di essere dominata e di obbedire. Come a tutti i satelliti le occorreva un astro, intorno al quale gravitare; e prima che entrassi nella sua intimità, era quasi a discrezione di una cameriera. La duchessa, che parlava moltissimo come tutte le signore senza spirito, mi raccontò presto tutta la sua vita e le sue idee, con la ingenuità di chi non può nemmeno sospettare di aver torto, perchè non vede il contrario. Non era nè felice nè infelice, ma era contenta senza volerlo ammettere, per quella condiscendenza volgare verso il dolore, che è in tutti i discorsi sulla vita. Forse qualche volta si annoiava, ma era una lassitudine dei nervi, più che una stanchezza dello spirito, una disoccupazione della testa, piuttosto che un vuoto nel cuore. Siccome si afferma che il cervello di noi altre donne è più piccolo di quello degli uomini, avrei voluto vedere quello della duchessa, perchè fra il cervello di noi signore e quello delle altre donne ci deve essere altrettanta differenza. Benchè facciate il romanziere, non saprete mai misurare il cervellino di una dama, e farne la nomenclatura delle idee. Un uomo solo, il più gran genio del nostro secolo, Balzac, ci ha ritratte con una verità insuperabile ed insultante, impassibile ed immortale. Voi, mio caro Di Banzole, perderete dieci volte la vita prima di apprendere a decomporre la più semplice delle nostre fisonomie, a risolvere la più facile delle nostre contraddizioni. Forse il piccolo è più difficile del grande, forse il microscopio ha più secreti del telescopio. Nemmeno le grandi donne vi riescono: guardate la Stäel, George Sand, Giorgio Eliot, Elisabetta Browning, e paragonatele a Balzac. Le loro analisi femminili sono le più monche e le più false della letteratura moderna: o romanticismo tragico della prima maniera, o romanticismo casalingo della seconda; analisi vera mai. Quante volte Balzac deve aver sorriso dall'alto della sua immensa opera di titano, osservando le grandi scrittrici del nostro secolo salire sulle montagnuole dei giardini per imitarlo, e credere così di riuscirvi. Non si giudica se non ciò che si è oltrepassato; non si ritrae se non quello che ci è sottoposto: noi donne non possiamo comprenderci, e gli uomini non lo possono del pari, se non alzandosi al disopra del rapporto, che li unisce con noi. Dante, Shakespeare, Goethe, Balzac... Anche voi altri siete in pochi. Ma se i primi tre sorpresero i generi e le specie, il quarto fece ancora meglio, e sorprese le famiglie e gli individui. Oggi si vorrebbe fare di più, e Zola studia le malattie; ma ciò è molto meno, perchè le eccezioni sono più facili della regola, ed hanno fatalmente minore estensione e minore profondità. E voi, Di Banzole, dove tendete col vostro povero lirismo filosofico, che non riscalda e non rischiara, che ha tutti i difetti della lirica e della filosofia, quando vogliono diventare drammatica? Voi, che siete sempre al di là del vero, e al disotto del bello: povero romanziere di una nazione, che non ne ha avuto che uno, e non ne ha più; che credete alla necessità di scrivere, mentre potreste fare come me, che racconto solamente...

- Raccontate dunque.

- È vero. Quasi rimpetto al palazzo della duchessa di Campiano, all'angolo di una casetta antica colle bifore, appoggiato ad un pilastro di granito rosso, stava sempre un povero zoppo. I suoi cenci pieni di colori e di buchi avrebbero entusiasmato un pittore, la sua testa fatto fantasticare più di un poeta. Una gran barba, che cominciava a brizzolarsi anzi tempo, gli saliva fino agli occhi, e gli scendeva sul petto. I capelli gli uscivano a ciuffi dalle orecchie, e quando si traeva il berrettone per tenderlo col gesto umile del mendicante, gli si vedevano incollati sulla fronte, come a certe figure delle stampe antiche. Era zoppo da una gamba, pallido e sofferente. L'enormità del suo piede infermo, tutto fasciato di stracci, spiegava forse l'espressione macilenta del suo viso, e la malinconia del suo sguardo. Aveva gli occhi neri, oblunghi, di un taglio squisito e di una profondità mistica. S'appoggiava su due gruccie; una lunga, imbottita, che gli sorreggeva l'ascella; l'altra piccola, a bastone, sulla quale la sua mano si era deformata nella lunga e faticosa pressione. Da qualunque finestra del palazzo Campiano vi affacciaste, eravate sicuro di trovarlo accanto al suo pilastro, la fronte china, le spalle curve. Quando pioveva, si riparava sotto l'arco della porta più vicina, e vi restava invariabilmente sino all'ora di notte. Quindi se ne andava a passo lento, e mi ricordo di aver sentito più di una volta dall'appartamento della duchessa la percossa cadenzata delle sue stampelle, che nella notte rimbalzava sino ai vetri delle nostre finestre. La mattina tardi, mai prima delle nove, ricompariva al suo posto. Non chiedeva l'elemosina che alla gente ben vestita, ma la dimandava col gesto: si spiccava appena dal pilastro, allungando uno dei bastoni, si protendeva, abbassava la testa, alzava gli occhi con una attitudine da martire. Il suo berrettone, scuro e senza fiocco, era di quelli, che usano i carrettieri nella campagna romana. Ma non ringraziava altrimenti che battendo gli occhi e non invocava mai il nome di Dio. Forse la distinzione delle sue maniere, Donna Augusta ebbe un sorriso, e la sua poca importunità gli valevano la tolleranza delle guardie, e un ricolto quotidiano abbastanza abbondante. Però egli non mutava mai vestito; solamente nell'inverno si ravvoltolava in un mantello vecchio, a doppio bavero, con un grosso fermaglio a catenella di ottone, e si metteva due guanti a maglia senza dita. Il pallore di quel po' di faccia scoperta gli si faceva livido, e l'occhio gli si velava di una lagrima diacciata. Ma nemmeno allora, sotto il peso di quella nuova miseria, apriva la bocca, o faceva un gesto di più. Per una di quelle solite contraddizioni, che sono quasi sempre un'insolente ironia, si chiamava Prospero; e i monelli, che qualche volta avevano cercato inutilmente irritarlo, lo avevano battezzato Prosperaccio. A pochi passi, svoltando, v'era la chiesetta di santa Barnaba, nella quale la duchessa andava quasi sempre la domenica a messa. La messa era alle undici e mezzo. Appena ella usciva a piedi del portone, Prospero, che spiava chissà da quanto tempo, si raddrizzava alla meglio, tirava indietro il piede ammalato, e si cavava il berrettone come i devoti all'avvicinarsi del viatico. La duchessa ne sorrideva nel suo interno, e gli dava invariabilmente mezza lira. Ma neanche a lei Prospero aveva mai detto grazie colla voce. Se fra giorno la duchessa usciva a piedi, sola, e passava dall'altro canto della strada, Prospero non le andava incontro ad importunarla; restava addossato al proprio pilastro, dritto nella posa più composta, e si cavava il berrettone senza curarsi che la duchessa lo vedesse o no, e gli rispondesse con uno dei suoi invisibili cenni del capo. Se la duchessa gli passava vicino in compagnia di qualche amica, Prospero si traeva rispettosamente il berrettone, ma non lo allungava. La duchessa colpita da questa discrezione piena di buon gusto lo aveva elevato a suo primo povero, e ne aveva parlato colle signore. Qualcuna era passata apposta di lì per conoscere Prospero, gli aveva fatto l'elemosina, ricevendo lo stesso ringraziamento muto, e riportandone la stessa buona impressione. Ma a poco a poco Prospero era entrato nel palazzo di Campiano. Non che vi avesse mai posto il piede, ma aveva attirato l'attenzione dei domestici, sempre pronti a sorvegliare le preferenze dei padroni; e la sua sorte se ne era ancora avvantaggiata. Le cameriere gli davano qualche soldo, gli sguatteri qualche avanzo. Egli accettava tutto cogli stessi buoni modi, ma non parlava che con una vecchia guardarobiera, la quale, passandogli innanzi, si fermava sempre a dirgli qualche cosa. Non so qual genere di amicizia fosse la loro, ma ella se ne vantava cogli altri servitori, e aveva potuto parlarne anche colla duchessa, che aveva sorriso. Prospero, raccontava la vecchia, le dimandava sempre nuove della salute della signora duchessa, parlava di lei come di una santa, e le augurava tutte le felicità; una volta aveva persino chiesto se era contenta al mondo, e se andava bene in famiglia.

- Figuratevi, tutti l'adorano.

- Lo credo bene - aveva risposto Prospero; poi aveva strizzato gli occhi soggiungendo: - e col signor duca?!

- Ma si adorano: non vi è mai stato marito e moglie che si amino di più.

La duchessa sorrideva sempre di questo racconto, che l'altra le ripeteva ad ogni caso, con intenzione maligna, mentre invece chissà cosa aveva raccontato a Prospero sulle relazioni intime della duchessa col duca.

Infatti la loro freddezza non poteva essere un secreto nel palazzo. Il duca allora aveva una ballerina celebre, che gli costava più di uno scandalo. E poco a poco io stessa mi ero interessata a quel povero zoppo. Qualche frase della duchessa, la miseria pittoresca degli abiti di lui, l'espressione quasi mistica della sua faccia, il suo contegno, la immobilità della sua vita, lì, all'angolo di quella casa, mentre tutta Firenze gli si agitava incessantemente intorno, me lo richiamavano tratto tratto alla mente con una di quelle insistenze inesplicabili, le quali ci producono la sensazione indefinibile di qualche cosa, che stia per aggiungersi alla nostra vita, di un altro filo, che entri nella nostra trama. Ma quando gli passavamo innanzi colla duchessa, siccome gli guardavo nella faccia, egli evitava costantemente, e con una specie di paura, il mio sguardo. La duchessa invece arrivava qualche volta perfino a sorridergli. Una domenica di primavera, che ritornavamo da una visita, la duchessa aveva un mazzo di viole bianche ad un bottone del cappotto: quella mattina ella era di una gaiezza eccessiva: appena vide Prospero si cercò in tasca il portamonete, ma non trovandoselo, si sbottonò il cappotto:

- Poveraccio! - esclamò col suo riso inimitabile - dammelo tu, Augusta.

Gli eravamo già davanti. Prospero, che si era tratto rispettosamente il berrettone vedendoci spuntare all'angolo della strada, si curvava già per il suo inchino, quando la duchessa nel riabbottonarsi il cappotto perdette una viola. Malgrado la difficoltà di quell'attitudine e della gruccia, colla quale si sorreggeva, Prospero si precipitò per raccoglierla con tale violenza, che gli strappò un urlo sommesso di dolore; si rialzò pallido come uno spettro, e mentre stavo per aprire il mio portabiglietti, ci disse con accento cavernoso:

- Se la mi permette, tengo questa.

La preghiera andava alla duchessa, ma era rivolta a me. Lo sentii, e sentii che Prospero mi temeva. La duchessa soffocò una risata al complimento, lo ringraziò con un moto di testa come avrebbe risposto in un salone alla galanteria di un principe del sangue, e passammo oltre. Ne scherzò meco lungo tutta la strada, poscia non ne parlammo più. Poco dopo io partii per Ostenda. Quando ritornai, qualche cosa era accaduto fra il duca e la duchessa. Una sera d'estate, che uscendo dal Niccolini si erano fermati a prendere un sorbetto al Bottegone, una ragazza ed un vecchio vennero a piantarsi davanti al loro tavolino. Il vecchio suonava la viola, la ragazza cantava accompagnandosi sulla chitarra. Quella ragazza, l'ho poi vista molte volte, era di una rara bellezza, sebbene già avvizzita. Si diceva spagnuola, e vestiva il costume andaluso come lo acconciano in teatro, ma forse non era che siciliana. I capelli di un nero senza nome, pieni di ondulazione e di lampi, le incorniciavano con civetteria di ritratto il volto livido ed ovale. Aveva una fronte molto alta, con due sopracciglie troppo sottili, ma di una grande purezza di disegno, sopra due occhi, dei quali era impossibile immaginare gli eguali. Erano così profondi, che di primo tempo non se ne sentiva la grandezza: avevano le palpebre quasi lunghe come la frangia della gonnella, e una luce che teneva dell'abbarbaglio. Il naso leggermente ricurvo colle narici palpitanti le dava un profilo da uccello di rapina, mentre le labbra, rientrando, le lasciavano trasparire la bianchezza stridula dei denti di porcellana. Era di mezza statura, le spalle piuttosto curve, i fianchi arcuati, le braccia lunghe; ma il busto, a colori sotto la baschina nera, le rialzava il seno con una temerità, che aveva quasi della violenza, e dava al difetto delle sue spalle e dei fianchi tutta la provocazione, che possono contenere questi due deliziosi difetti. Infatti il suo collo era curvo come le sue spalle; pareva tutta un po' curva, col seno troppo alto come le donne, che sapendone profittare, vi mettono col piccante di una sincerità la tentazione di tutte le interpetrazioni. Quindi camminava quasi sempre a testa china, appoggiandosi naturalmente la chitarra sul grembo turgido come il seno. Spesso pure si guardava i piedini, i più piccoli che io abbia visto, calzati invariabilmente di una scarpetta scollata, di pelle bronzina, sopra le calze di una tinta molto pallida. Ma quando guardava era un'impressione di luce come il muoversi di uno specchio, dentro al quale mille lingue di fiamme vampeggiassero e svanissero. Però la sua voce stridula sarebbe stata insopportabile senza la stravaganza di quel costume, e la poesia della sua figura. A Firenze le avevano messo nome la Gitana, ed era l'avvenimento di tutti i caffè. Una folla di ragazzi e di donne la seguivano di uno in altro più per vederla che per udirla. Ella cantava una romanza spagnuola, o togliendo di mano al vecchio, un insipido figurante, la viola, vi suonava alla meglio un fandango. Quando aveva finito si traeva di tasca un piattino bianco, e andava disinvoltamente in giro, destreggiandosi tra le frasi e le occhiate. La prima sera il duca e la duchessa si erano fermati ad udirla quasi con piacere; ma, tornandosi a casa la sera dopo, allo svoltare di una strada avevano trovato la Gitana. Il duca, pretestando di essere aspettato altrove, aveva lasciato la duchessa al portone, ed ella si era naturalmente immaginato che ritornasse sulle orme della Gitana. Infatti era stato così. La duchessa, che non poteva essere gelosa, non si sarebbe occupata di questa nuova avventura, se il duca non si fosse imprudentemente mostrato la notte in ogni caffè di Firenze dietro la Gitana, come un novellino. Le amiche della duchessa si affrettarono quindi a pungerla con nuove malignità; e, malgrado che ella ne ridesse con una gaiezza fino ad un certo punto sincera, la sua indifferenza non giunse a togliere ogni alimento alla loro cattiveria. O il duca impazzisse davvero, o qualche cosa di funesto dovesse cadere sulla famiglia Campiano, il suo carattere si era fatto piuttosto chiuso, perdendo così col bell'umore la sua sola grazia. Un'altra sera, al Bottegone, che la marchesa Erminia d'Armillara era colla duchessa e col duca, la Gitana venne a postarsi davanti al loro tavolino. Io ero a pochi passi col povero Rattazzi. La Gitana aveva rinnovellato il proprio abito, conservandone ed arricchendone il costume. La baschina nera ricamata in oro sfolgorava, il busto aveva un balenio d'iride, le calze erano di seta, e un magnifico fornimento di corallo rosa le ornava la testa ed il collo, i polsi e gli orecchi. M'ingannai o mi parve che ella mettesse una speciale intenzione nel prescegliere il tavolino della duchessa, la quale naturalmente finse di non accorgersene.

Quella sera i tavolini erano più affollati, la gente gremiva il marciapiede: sarà stata circa un'ora; non passava più alcuno per la strada. Tutta quella gente che si era fermata al caffè veniva da teatro. La Gitana cantò una romanza napoletana, come un complimento, che ella spagnuola facesse all'Italia, e che la goffaggine del suo accento straniero rendeva più grazioso. La canzone aveva il colore e la nudità del mezzogiorno. Il pubblico, in quell'ora per la maggior parte di giovanotti eleganti, l'accolse con una simpatia clamorosa: e quindi s'intesero dei bisbigli, che scoppiarono al finale in un motteggio di applausi. Ma tutta quella folla aveva penetrata la oltraggiosa intenzione della Gitana; la presenza della duchessa atteggiava quasi drammaticamente la volgarità della scena. Il duca, che non poteva non provare quella tensione, profittando del cicalio della duchessa colla marchesa D'Armillara, per una delle sue morbose vanità di scandalo, si mise francamente a guardare la Gitana. La quale cantò la romanza più malamente del solito. Si volle il bis, la replicò, la dovette replicare ancora, e andò in giro. La duchessa, che non perdevo d'occhio, ebbe un'occhiata sublime di indifferenza quando la Gitana le si presentò col piattello: mi sembrò che l'altra trasalisse, ma certo trasalì la folla, che passò istantaneamente dalla parte della duchessa. La Gitana proseguì la questua sotto il nuovo peso di tutti gli sguardi e la percossa di tutte le parole, e si fermò davanti a noi. Il povero Rattazzi la guardò attraverso i suoi occhiali usi a scrutare dappertutto, la prese, la gittò dentro uno dei suoi motti, profondi e freddi come un pozzo. In quel momento alla luce di un fanale scorsi Prospero appoggiato all'angolo del Duomo, che seguiva collo sguardo la Gitana. Non so perchè fremetti. Poi la Gitana prese dal vecchio la viola e suonò la nuova canzone di Piedigrotta con una posa più corretta di artista: salutò, partì, gran parte del pubblico fece altrettanto. Allora me ne andai io pure senza parlare alla duchessa. L'indomani ricevetti un suo biglietto pressante; risposi che non avrei potuto sull'atto, e che a sera sarei passata al suo palazzo. Mi aspettava: era agitata, una collera fredda le balenava dagli occhi. Senza darmi nemmeno il tempo di interrogarla, mi raccontò come il duca volesse invitare la Gitana per la loro ultima serata d'addio agli amici, prima di partire per Sesto Fiorentino. La duchessa aveva sulle prime creduto ad uno scherzo di cattivo genere, ma egli si era fatto serio, mettendosi a spiegarle tutte le ragioni in favore della propria proposta. Certo la Gitana era tutt'altro che una buona cantante, ma essendo spagnuola, col costume spagnuolo, suonando dei balli di Spagna, offrendo così l'occasione di improvvisarne qualcuno colle nacchere, diventava più che possibile in una serata di amici, che l'avrebbero presa come un anticipo sui divertimenti della campagna. E il duca tornava sullo scherzo con quella persuasione dei propositi deliberati, che fanno sentire sotto la gaiezza dell'accento l'irritazione di uno sforzo. La duchessa offesa più nel suo orgoglio di dama, che nella sua dignità di donna, si era opposta con risolutezza sprezzante, senza degnarsi neppure di cercare se sotto quella sconvenienza si nascondesse una abbiezione. La discussione, lunga e difficile per se stessa, si era finalmente conchiusa in un alterco; ma siccome il duca non poteva addurre altre spiegazioni a questo capriccio che la propria volontà, la duchessa aveva allora dovuto provarne la percossa come donna. La sua testa ne aveva rintronato, immaginandosi subito che quello fosse un proposito della Gitana per mettersi meglio in voga, una condizione infame che gli avesse messo ai propri favori. Qualunque altra donna al posto della duchessa avrebbe trovato nello sdegno o nel dolore della propria coscienza la forza di umiliare o di convincere quell'uomo: sarebbe stata solenne nel silenzio, e eloquente nelle parole; avrebbe avuto di quelle frasi che tolgono il respiro, di quelle osservazioni che dissolvono ogni pertinacia. Ella non trovò nulla. Non contrappose che la propria vanità di dama, non invocò che le convenienze dell'etichetta: poi gittandosi nell'ironia, senza osare di strappargli il secreto, volle flagellarlo col ridicolo di ricevere condizioni chissà da chi e a che prezzo, mentre tutta Firenze ne rideva. Il duca, che non mancava al tutto di spirito, l'aveva rimbeccata; i sarcasmi erano arrivati fino alle insolenze, le insolenze quasi alle minaccie. Ella già impaurita aveva allora dichiarato che ritirerebbe gl'inviti: egli l'aveva guardata freddamente negli occhi, e l'aveva sfidata a questo coraggio. Quello sguardo l'aveva atterrata. Il duca se n'era andato intanto che ella scoppiava a piangere; e in quel momento, raccontandomelo, le lagrime le tornavano nuovamente agli occhi. Sulle prime aveva pensato di dare la serata, e di mancarvi con un pretesto qualunque; ma poi aveva riflettuto che la sua assenza renderebbe anche più viva l'ingiuriosa presenza della Gitana nel suo salone. Era pallida, cogli occhi gonfi, la testina arruffata e spiritata. La inanità della sua natura si rivelava tutta in quel frangente, guadagnandovi quasi una grazia di bambino. Le idee più strane, i divisamenti più inconcepibili le si affaccendavano nel discorso; poi ne smarriva il filo, e si abbandonava a lagnanze di un comico irritante. L'ascoltai pazientemente. Però siccome non le rispondevo, alla fine s'inciprignì anche meco. Le amiche l'abbandonavano. Invece non volevo che vedere a qual partito si appiglierebbe; ma non ne trovando, conchiuse quasi sbadatamente di avermi mandato a chiamare perchè le dissuadessi il marito. Allora le feci notare la sconvenienza di invocare un estraneo in questo loro pericoloso dissenso; se non che mi interruppe, e passandosi la mano sulla fronte con un gesto carino, inesprimibile di superbia, disse: parliamo d'altro. Quindi si mise per altri argomenti senza però diventar più calma. Eravamo nel suo salotto favorito, una scatola di raso, un astuccio delicato per una preziosa pupattola. Malgrado il turbamento di quella giornata, ella aveva trovato il tempo per una toletta dolcissima, di un buon gusto minuzioso, che finiva di togliere alla sua figura ogni supposizione di forza, per lasciarla come dentro un vapore bianco, un'aria profumata. Nessuno dei suoi lineamenti esprimeva un pensiero, nessuna delle sue contrazioni tradiva una passione. Allora la richiamai al primo discorso, promettendole di fare ogni possibile per distogliere il duca dal suo tristo capriccio, se le circostanze me ne porgessero il destro. Ella mi enumerò quindi tutte le necessità dei riguardi mondani, il rispetto del nome, del salone, degli invitati, e conchiuse:

- Infine anch'io sono donna.

Quando uscii dal palazzo rividi Prospero non più appoggiato al suo pilastro, ma dirimpetto al portone. Erano le dieci. L'osservai meravigliata di quella sua ora insolita, e mi parve che egli pure mi esaminasse; ma i miei cavalli partirono rapidamente, e lo perdei. L'indomani mi fu impossibile vedere il duca; assunsi qualche informazione, e seppi che tutte le sere andava dalla Gitana, la quale abitava il pianterreno di una casipola a S. Spirito. Recandomi quindi dalla duchessa, per strada, vidi la guardarobiera stretta in colloquio con Prospero al solito pilastro. Credetti che si trattasse di una confidenza, perchè parlavano in fretta, a bassa voce, Prospero cogli occhi fissi al suolo, come chi stia per prendere una risoluzione, l'altra con gesti concitati, guardandosi spesso intorno. Quando mi scorse, sussultò, ne diede l'avviso a Prospero, che levò repentinamente la testa, scambiarono ancora una parola, e si separarono. Ma la vecchia forse temendo che la interrogassi, invece di entrare a palazzo, tirò oltre. La duchessa non era in casa. Ripassando dinanzi a Prospero mi sembrò che fosse più pallido e sofferente, si trasse rispettosamente il berrettone, ma non me lo tese. Io stessa ero nervosa: nella sera Rattazzi venne a vedermi, e mi distrasse. Eravamo alla vigilia dell'ultima spedizione di Garibaldi a Roma, vi basti questo. Rattazzi mi espose il proprio piano, nel quale il pubblico non doveva capir nulla, come infatti avvenne, e che doveva attirargli, sulla sua piccola testa di grand'uomo, la esecrazione temporanea di tutto il paese. In quel momento Rattazzi era persino bello: i suoi occhi bruni ed acuti come la punta di un succhiello avevano attraverso gli occhiali un dardeggiamento assiduo ed insopportabile; le sue frasi scattavano, la sua ossuta figura di scheletro pareva slogarsi a certi gesti terribili ed imprevisti. Il duca e la duchessa colla miserabilità dei loro dissidii mi passarono quindi di mente; ma all'indomani la Gazzetta d'Italia annunziava che la Gitana era stata uccisa nella notte, tornandosi a casa, per un viottolo presso S. Spirito, da un accattone zoppo, che si chiamava Prospero. Compresi subito che doveva essere lui. Il giornale raccontava tutti i particolari della tragedia. Pareva che da qualche notte lo zoppo pedinasse instancabilmente la Gitana; e più d'una volta, fermandola per chiederle l'elemosina, avesse tentato di parlarle: ella gli aveva badato poco o punto, finchè l'ultima sera aormandola sempre a poca distanza, Prospero l'aveva raggiunta per quel viottolo deserto. Era oltre mezzanotte, non passava anima viva. Prospero si era levato il berrettone colla sinistra, tenendolo umilmente; ma la Gitana, importunata, gli si era rivolta di mal garbo, e il vecchio suonatore lo aveva minacciato. In quello stesso punto Prospero si era allungato improvvisamente vibrandole una orribile coltellata nel seno: la Gitana era caduta gittando un urlo straziante, il vecchio si era slanciato; ma, vedendo l'altro col coltello fumante, aveva pensato meglio di darsela a gambe, mentre Prospero, che, perduto l'equilibrio, si reggeva a stento sul bastone, traboccava egli pure sul corpo insanguinato della Gitana. La strada era deserta, il vecchio suonatore scomparso cacciando stridi da spiritato. Che cosa si fossero detti quei due in quel momento nessuno lo sapeva; ma quando sopravvennero le guardie, e fu prontamente, la Gitana era morta. Due seconde coltellate, una alla gola e l'altra al cuore l'avevano quasi dissanguata; Prospero, che le aveva lasciato il coltello nell'ultima ferita, tentava di rialzarsi sulla gruccia. Alle interrogazioni violente delle guardie, e a tutte le irruenze dell'altro vecchio, che vedendolo disarmato voleva finirlo, non aveva risposto una sola parola; solamente aveva osservato che ammanettandolo non avrebbe potuto camminare; e si era lasciato condurre al primo corpo di guardia. I questurini avevano raccolto la chitarra rotta ed insanguinata; il coltellaccio omicida era terribile, un'arma da beccaio perfezionata da un assassino. Vi ho ripetuto tutti questi particolari perchè mi si sono fissati uno ad uno nella mente. Ma quale era la causa di un simile delitto? La Gazzetta, che vi consacrava un lungo articolo colla compiacenza propria dei giornali per i delitti misteriosi, moltiplicava le congetture più drammatiche, finendo per attaccarsi all'ultima, che Prospero fosse disperatamente innamorato della Gitana. Intanto prometteva per l'indomani altri dati sulla vittima, che pareva una signora napoletana, costretta da una passione infelice a quel povero e tristo mestiere. Tutta Firenze non parlò che del trucissimo caso, e del lungo articolo della Gazzetta; la curiosità cittadina fu eccitata, gli altri giornali intervennero, e allora le ipotesi e le spiegazioni si urtarono. Ognuno conosceva qualche lembo del secreto, qualche circostanza decisiva; fu un pettegolezzo assordante e feroce. Quel dopo pranzo la duchessa era venuta a trovarmi e non aveva dissimulato la propria allegria. Mi assicurò che Prospero era proprio lui, e che era innamorato della Gitana. Siccome lo aveva letto nella Gazzetta, lo aveva già creduto. Avrebbe desiderato parlarmi del duca, ma voleva essere interrogata, e non lo feci. Allora l'inconscia brutalità del suo egoismo, che in quella tragedia, forse degna di un grande poeta, non vedeva se non il trionfo legittimo di un'etichetta, mi irritava contro di lei. Domenica sera la sua ultima serata non avrebbe una stonatura! Ma fossi troppo aggrondata, o ella sentisse confusamente in me la cattiva impressione dei suoi discorsi, e ne temesse qualche scoppio, mi fece ancora un complimento, e se ne andò. Seppi che la sera di quel giorno il duca partì per Sesto Fiorentino. L'avventura ben altrimenti sanguinosa di Mentana mi fece presto scordare di Prospero; quando, molti mesi dopo leggendo nella stessa Gazzetta il resoconto del discorso di Rattazzi, quel capolavoro che durò tre giorni e che io andavo religiosamente ad ascoltare dalla tribuna diplomatica, mi cadde sott'occhio l'annunzio della causa di Prospero. Era per l'indomani. Difendeva un avvocato di nome ignoto come accade sempre per i poveri; un giovane, che adesso è una piccola celebrità ed un piccolo talento. L'indomani Rattazzi non parlerebbe. Decisi quindi che sarei andata alle Assise. La sera m'incontrai da Gino Capponi colla duchessa, la quale aveva pure letto l'annunzio, e si sentiva la medesima voglia: concertammo di esservi insieme. Era una magnifica giornata. Andando a prendere la duchessa nella mia carrozza, rividi il pilastro abbandonato di Prospero, e tutti i particolari e le congetture della catastrofe mi si affollarono torbidamente nell'anima.

Un mistero così profondo, che nessuno l'aveva ancora penetrato e che non si scoprirebbe nemmeno al processo, stava forse in fondo a quella tragedia di strada. Perchè Prospero aveva ucciso la Gitana? La supposizione che fosse innamorato mi pareva, non so perchè, assurda: ma ero altrettanto sicura che Prospero l'aveva uccisa per conto proprio, e per una ragione non vile. In quel momento la sua fisonomia mistica e indolorita di martire, condannato a vivere del proprio martirio, mi riappariva al pilastro, e mi commoveva. La duchessa, vestita con un'audacia piena di colori, abbottonandosi in quell'istante un lunghissimo guanto, mi si rivolse, e col suo accento leggero:

- Ti ricordi, Augusta - proruppe - la mattina della viola?

Quando entrammo alle Assise la folla ingombrava i pressi e lo scalone: era un viavai, un romorio confuso e crescente. I ricordi si risvegliavano, la causa minacciava di farsi grossa. Potemmo a stento aprirci il passo, e coi biglietti d'invito essere introdotte nella tribuna. La sala era così gremita che le teste vi formavano un ciottolato; le signore abbondavano, alcuni avvocati illustri erano nei posti distinti e nelle tribune. Guardai Prospero. Nè la sua faccia, nè i suoi abiti erano cangiati. Stava seduto sulla ignobile panchina, la gruccia distesa lungo la gamba, e l'altro bastone fra i piedi: non pareva nè turbato, nè avvilito. Col berrettone a fianco e la testa nuda conservava il solito contegno rispettoso; solamente quella depressione dei capelli, che gli cadevano sulla fronte, lasciandogli quasi calva la nuca, gli dava un'aria anche più mistica. Il suo giovane avvocato in toga era più pallido e più nervoso di lui. Naturalmente egli dubitava di se stesso, mentre l'altro era sicuro della propria condanna. L'arrivo della duchessa, una delle glorie mondane di Firenze, produsse un movimento nella folla: le teste si agitarono e si volsero; quindi corse un bisbiglio insensibile, che ella colse a volo come un profumo. Il suo volto sfavillò. In quel momento Prospero si torse verso di noi e vide la duchessa, che innanzi a me coll'abito vivacissimo attirava tutti gli sguardi. Una vampa di rossore gli bruciò istantaneamente sulla faccia, poi si fe' pallido, e rimase su lei coll'occhio sbarrato. La duchessa, che guardava giù nel pubblico col canocchiale, non aveva ancora osservato il reo. Il cancelliere seguitava a leggere l'atto d'accusa, mentre sul tavolo, dinanzi al presidente, il coltellaccio omicida gettava qualche bianco riverbero, che finì per attrarre gli occhi della duchessa. Ella me lo indicò con un gesto di orrore, riportando istintivamente lo sguardo sull'accusato. Quando il presidente, un vecchio in capelli bianchi, cominciò l'interrogatorio, si fece nel pubblico un silenzio di statua: Prospero tentò di sollevarsi sulle gruccie, il presidente lo invitò con parole gentili a rimaner seduto, ma egli volle alzarsi egualmente, e si atteggiò come al pilastro. La sua figura di mendicante impietosiva, il suo piede enorme entro quel fagotto di stracci sembrava rendere impossibile tutto il racconto dell'accusa. Nessun lineamento della sua fisonomia, nessuna attitudine del suo corpo tradiva lo sforzo di un'ipocrisia, o una qualunque tendenza sanguinaria. Un fremito di pietà e di simpatia corse nel pubblico. Prospero disse nettamente, con voce cavernosa di malato, il proprio nome, e quando il presidente gli domandò se ammetteva di aver ucciso la Gitana, alzò gli occhi verso di noi, e rispose:

- Sì.

- E la ragione?

Prospero abbassò la testa, come allorchè ringraziava dell'elemosina, e non disse altro, solamente fece un gesto di stanchezza. Il presidente se ne avvide, e gli ripetè l'invito di sedere, che questa volta egli accettò. Quindi non aperse più bocca. Invano il presidente mise tutto in opera, esortazioni, consigli, minacce, spiegandogli come quel mutismo potesse nuocere alla giustizia, e a lui stesso nell'animo dei giurati. Prospero sembrava ascoltarlo attentamente, ripeteva ogni tanto quel cenno, che poteva parere ad un tempo di ringraziamento e di scusa, ma non parlava, non si muoveva. Tutti gli occhi della gente erano conversi in lui, tutti i pensieri, e tutte le volontà di quella massa gli pesavano addosso. Furono cinque minuti drammatici e febbrili. Prospero vinse. Il suo avvocato, il Pubblico Ministero stesso lo esortarono con parole, nelle quali vibrava una persuasione sincera, una benevolenza quasi eccessiva: ma egli ripetè ad entrambi il suo cenno umile, quasi di rammarico, e non parlò. Il pubblico affaticato da quella tensione ruppe in un chiacchierio fragoroso, mentre il presidente dava la parola all'accusa. Il magistrato fu limpido e tagliente; riassunse con sobrietà di grande oratore il fatto, urtando nel mistero di quel mutismo senza curarsi neanche di sfondarlo con un'ipotesi e concluse per l'assassinio premeditato senza circostanze attenuanti. Prospero fu impassibile. Toccava all'avvocato. La sua estrema pallidezza e il suo volto convulso attrassero persino l'attenzione dell'accusato. L'esordio fu rettorico ed infelice; ripetè senza profitto per l'accusato il racconto dell'accusa, andando innanzi sulle frasi, affettando un talento di romanziere, che analizza dipingendo e trova nell'analisi l'argomento della difesa. Poichè non si scorgeva un movente al delitto, dunque mancava. Prospero era pazzo.

A questo punto Prospero intervenne, e gridò risolutamente:

- No.

- La ragione dunque? - ripetè il presidente.

Prospero non gli si volse nemmeno, ebbe un gesto d'indifferenza, e si cacciò la mano in seno ricadendo nel silenzio di prima; mentre tutta la folla guardava verso l'oratore, cui l'interruzione aveva arrestato bruscamente a mezzo di un periodo. L'avvocato stentava a rimettersi.

In quel momento, io che guardavo Prospero, lo vidi trarsi di seno la mano, e spiare verso di noi: la duchessa osservava con un mezzo sorriso l'impaccio dell'avvocato; Prospero teneva in mano il cadavere di quella viola, che ella aveva perduto un anno prima, e della quale allora non si ricordava più.

Prospero abbassò lentamente la testa, come se la piegasse sul patibolo.

La duchessa non aveva veduto, io sola avevo compreso.

E donna Augusta tacque.

- La viola? - proseguì.

- La viola! - ella replicò con atto nervoso - non vi basta questo per la vostra novella? La viola gliela vidi cader di mano; ma la duchessa non lo ha mai saputo, perchè se glielo avessi detto ne avrebbe insuperbito, e non lo meritava.

La notte era tiepida, il lago ancora lontano.

- Ritorniamo - disse donna Augusta e ne diede l'ordine al cocchiere.

Quel racconto l'aveva così agitata, che me la sentivo fremere vicino. La luna alta sopra la carrozza dava alla sua faccia come il pallore di una lunga emozione, che da quel racconto prolungandosi attraverso altri ricordi si perdesse in un tetro presentimento. Ma la curiosità mi rimorse, e senza badare alla sua meditazione:

- Prospero fu condannato?

- Ah! - ella proruppe con un impeto quasi sdegnoso - siete dunque un romanziere da epilogo, il quale accompagna tutti i suoi personaggi fuori del dramma, sino alla tomba, per convincere bene il lettore che si tratta di un fatto vero e che egli non vi ha colpa, se sciaguratamente il fatto fosse brutto. Ma, mio povero Di Banzole - proseguì con ironia sibilante e sferzandomi il volto cogli sguardi - non avete dunque ancora compreso con tutto il vostro lirismo filosofico che il dramma avviene negli individui, ma non è l'opera speciale di nessuno di loro; che essi vi entrano senza capirlo, vi periscono senza saperlo, ne escono senza accorgersene: che in fine vi hanno la parte della grandine nella tempesta? Che cosa ne è dei suoi grani? Poichè avete tanto bisogno di saperlo, il loro diacciuolo ridiventa acqua, l'acqua vapore, il vapore diacciuolo, quindi grandine e daccapo la tempesta. Che cosa è il dramma? Voi dovreste saperlo più di me, giacchè ne scrivete; ma nessuno lo ha ancora ben definito: scoppia nella vita degli individui come in quella dei popoli, qualche volta dura un'ora, qualche volta un'êra. La storia di Roma non è un dramma? Il cristianesimo non è un dramma, come il Giulio Cesare di Shakespeare, nel quale il protagonista muore al primo atto? Dove trovate una tragedia in cinque atti più bella della vita di Napoleone? Il primo atto in Italia, il secondo in Egitto, il terzo a Mosca, il quarto a Waterloo, il quinto a Sant'Elena. Nella vita dell'umanità ogni popolo è forse un personaggio: ebbene, voi, che v'interessate ai drammi, avete ancora indovinato la trama di questo, riconosciuto quali siano i primi attori? Quante comparse mute, o delle quali nessuno ricorda più adesso le poche parole! Il dramma è molto ricco, poichè muta spesso di scena: il primo atto è stato tutto in Asia, il secondo in Europa, il terzo è cominciato col secolo in America. Dove sarà il quarto? Chi eseguirà il quinto? A chi è destinato questo spettacolo enorme, del quale l'illuminazione costa tanti soli, e nel quale il mutamento di una scena significa quasi sempre l'eccidio di una razza? Il dramma individuale è ben piccolo paragonato al dramma storico, alla tragedia umanitaria; ma tutto è forse riassunto nel dramma individuale. Non sono le gocce, che fanno il mare, i vapori, le nuvole, quindi la grandine e i diacciuoli, dei quali volevate sapere il destino come quello di Prospero? Prospero è perito nell'urto di due estremità. L'ultimo della plebe amava la prima dell'aristocrazia: nella impossibilità di congiungersi, quegli, che si moveva, si sarebbe rotto infallibilmente; ecco il dramma e la catastrofe. Il dramma non riposa sopra un'opposizione di due individui, che non possono nè separarsi nè unirsi, e, della quale la risoluzione avviene nel terzo termine, che è la loro razza? Non vi ricordate più che tutto è triplo, la trimurti indiana, che passa trinità cristiana; il triangolo, che diventa l'emblema di Dio e il cappello del prete; i tre momenti dell'idea brahminica ed hegeliana, le tre grazie e le tre virtù; il parlamento, che è triplo, senato, camera e corona; la famiglia, che è tripla, padre, madre e bambino, o marito, moglie ed amante...

E rise gaiamente. Ma poco dopo arrivavamo in città: il suo palazzo apparì.

- Salite? - mi domandò quando l'ebbi aiutata a discendere.

- Vi ricordate la canzone della Gitana?

- No.

- Allora, buona notte.

Ella sorrise amichevolmente e mi tese la mano. Gliela strinsi, m'inchinai, e mi avviavo già per l'atrio, quando ella mi richiamò con un grido:

- Di Banzole!

Tornai indietro: ella era già in cima al primo pianerottolo.

- Perdono: quella viola bianca, ora me ne rammento, era zoppa.

E disparve con un ultimo sorriso d'ironia.

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