Gita Sentimentale

[241]

Un tempo i popoli che abitarono i monti e le valli dei Sette Comuni, cioè i romani, i reti, i tigurini, gli alemanni, i franchi, i goti, i cimbri, gli unni e gli altri, lavoravano a seppellire nel suolo lance e fibule, monete e medaglie, idoli e pentole a onore e gloria degli archeologi, degli storici e dei filologi di là da venire; ora invece i moderni abitanti degli altipiani, adoperando il legno degli abeti che verdeggiano severamente attorno alle loro capanne, fanno scatole, fabbricano cappelli di paglia, seguendo per tradizione le norme recate di Levante nel secolo passato da un tal Nicoletto del Sasso, e parlano la lingua cimbra. L'industria delle scatole procede benissimo, quella dei cappelli di paglia così così; ma quella del parlar cimbro va di molto male. Purtroppo questo linguaggio nel quale le consonanti sembrano starnuti e le vocali sbadigli, va trascinando la sua lenta agonia per le bocche sdentate dei vecchi e fra non molto sparirà da queste terre.

Tutto passa quaggiù! Tutto cade, come cadono le nostre illusioni, simili alle foglie che, divelle alle rame degli alberi dai primi venti autunnali, vanno a finire nei fango! Cadono; ma coloro che ci vengono appresso nel cammino faticoso della vita, trovandole in terra le raccolgono, le ripuliscono, e se le ripongono [242] gelosamente nel cuore, riperdendole magari poco dopo per farle ritrovare agli altri che li seguiranno. Il vecchio è sempre nuovo. Ma quanto è più triste pensare che il nuovo è sempre vecchio!

Questi ed altri malinconici pensieri mi venivano in capo mentre, precedendo una numerosa comitiva di alpinisti, in compagnia di alcuni amici taciti e pensierosi, traversavo, nel silenzio di una notte serena, l'altipiano di Asiago per andare a Valstagna. Ma appena il sole fiammeggiante uscì dai monti facendo brillare i prati molli di rugiada, e appena gli uccelli principiarono a cantare noi smettemmo di pensare e incominciammo tutti a discorrere.

Un solo, dopo di avere bisbigliata qualche parola continuò a tacere: un giovinetto biondo il quale di tanto in tanto, arrampicandosi sui rialzi che fiancheggiavano la strada andava raccogliendo margherite.

Il caro ragazzo era di una città del Trentino: recatosi a Vicenza per assistere alle feste in onore degli alpinisti, ora tornava a casa seguendo il nostro itinerario. Ci era venuto sempre appresso, e ovunque aveva visto una bandiera tricolore, s'era fermato col cuore palpitante; in qualsiasi luogo aveva udito suonare l'inno reale, aveva pianto di tenerezza.

— Vuoi un edelweiss? — gli chiesi un giorno offrendogliene uno.

Egli mi guardò crucciato, e poi abbracciandomi affettuosamente: — Senti — mi disse; — fammi il piacere di non chiamare mai più questi bei fiori con quel brutto nome!

— E come vuoi ch'io li chiami?

— Chiamali «stelle delle Alpi» — mi rispose, e, vedendomi sorridere, con accento soavissimo soggiunse: — Chiamali così, fammi il piacere, ti prego!

[243]

Una sera, ricordo, ci eravamo fermati in un paese a ristorarci. Al momento di partire il trentino mancava all'appello. Andammo in parecchi, battendo sentieri diversi per rintracciarlo, ed io, dopo di avere inutilmente urlato più volte il suo nome, stavo per tornarmene indietro, quando mi venne agli orecchi il suono flebile di un violino che miagolava l'inno di Garibaldi. Pensai subito che il giovinetto dovesse essere innanzi a quello strumento: infatti, com'ebbi superata una rupe, lo trovai davanti a quattro figure grottesche di suonatori: quattro contadini che noi avevamo scacciato poco prima ed egli aveva seguiti per far loro suonare i nostri inni patriottici.

Mi fermai commosso; poi me gli avvicinai e gli dissi: — Vieni! Si parte! Andiamo!

Eh! ciò! Che furia! — mi rispose; e dopo di avere pagati i suonatori, i quali, riposti gli strumenti nelle borse di panno, se ne andarono per un sentiero che si perdeva in un bosco di abeti, mi seguì esclamando: — Ti capissi che gh'averò da star chissà mai quanto tempo senza sentirla più 'sta musica benedeta!

* * *

Il sole era già alto quando, dopo un malagevole cammino, arrivammo innanzi ad una caverna scavata dalle acque di un fiume che va a gittarsi nel Brenta. La grotta viene chiamata il Buso, e si crede, non senza ragione, che in certe notti vi si diano convegno l'orco, le streghe e i sanguanelli: nani piccolissimi e saltellanti, per lo più vestiti di fiamme, i quali godono moltissimo quando possono scompigliare [244] le chiome dei bimbi o annodare inestricabilmente le code e le criniere dei cavalli. Poco lungi dalla caverna ride un candido santuario fabbricato in onore della Vergine da un eremita di Agordo. Ci fermammo pochi istanti accanto alla chiesetta, poi, mentre un'aquila roteava sul cielo, ripigliammo la via. A un certo punto uno di noi fermandosi esclamò ridendo: — Sembriamo contrabbandieri! — Nessuno gli rispose; ma a me quella esclamazione fece tornare in mente una malga che pochi dì innanzi avevo visitato sul Pian della Fugazza: una malga, ove cinque contrabbandieri accumulavano, coprendole di strame e di stracci, molte cassette di latta piene di spirito. Debbo dirlo? Quei cinque contadini idioti in mezzo a tanto spirito, mi fecero tanta nausea che mi rammaricai di non essere una guardia doganale. Ma già, se fossi stato una guardia doganale, forse non avrei fatto niente di meglio di quello che faceva quel finanziere che incontrai poco dopo: il quale, fischiando il quartetto del Rigoletto, se ne andava a spasso, con la daga sul fianco, col fucile ad armacollo e con un romanzo sbrendolato di Paul de Kock che gli usciva allegramente dallo sparato della tunica sbottonata.

* * *

Davanti alle prime casette di Valstagna trovammo due stendardi di mussolina bianca, rossa e verde, legati in cima a due antenne, e un calzolaio in maniche di camicia, il quale, abbandonati sul deschetto unto due paia di stivali da rattoppare, andava incollando sulla porta di una vecchia osteria il suo giovanile [245] entusiasmo o, per meglio dire, alcune strisce di carta rossa sulle quali chi sapeva di lettere poteva forse anche leggere: «W. gli Alpinisti». Due asinelli biondi, attaccati ad una carretta piena di casse, di bauli, di valige e di fagotti, presenziavano muti e seri il lavoro del calzolaio. Intorno alla carretta dormivano in terra molte donne e moltissimi bambini: erano emigranti che abbandonavano i loro paesi per andare a lavorare in quelli d'America. Il crosciare delle acque del Brenta conciliava il sonno di quella povera gente, e il sole, battendo in cima alla porta della bettola, illuminava senza risparmio un antico leone di marmo, il quale aprendo le ali e mostrando il Vangelo su cui c'era scritto: «Vino e Cucina» pareva che dicesse, ruggendo a voce bassa: — Oh! guardate un po' anche a me la sorte a qual duro ufficio mi ha serbato! Oh! guardate un po'!

Mi allontanai commosso, e seguitando una strada in riva al fiume, poco dopo, entro una trattoria modestamente intitolata Il Mondo ritrovai i miei compagni in una stanza piena di sole, di oleografie patriottiche e di mosche.

Eravamo tutti già da un pezzo là dentro a mangiare quando insieme al suono di un organino che balbettava il miserere del Trovatore entrò nella stanza un vecchio senza un braccio.

Uno di noi, osservando come il poveretto sotto la giacca rattoppata lasciasse vedere una camicia rossa, gli domandò: — Sei stato con Garibaldi?

— Sì — rispose il vecchio.

— Allora guarda là, guarda là! — ripigliò il nostro compagno accennandogli una delle oleografie appese al muro, nella quale era volgarmente effigiata una battaglia garibaldina. Il mutilato si avvicinò lentamente [246] alla oleografia e rimase immobile con la testa alta a guardarla. Mi accostai anch'io ad osservarla e avendo visto fra le figure dei combattenti quella di un frate, mi volsi al vecchio e gliela indicai.

— Oh — egli mi rispose subito, sorridendo — in Sicilia con noi ce n'erano parecchi. Poi, dopo un istante di silenzio seguitò: — Ne ricordo uno piccolo, nero, agile come una scimmia. Quando aveva caricato il fucile s'inginocchiava e recitava una preghiera: poi si alzava e bum! Un borbonico cadeva in terra. Tirava benissimo. Una volta gli chiesi perchè recitasse quelle orazioni prima di sparare, ed egli mi rispose: — Raccomando l'anima di quello che ammazzo.

Mentre il garibaldino parlava, sempre guardando l'oleografia, dalla porta spalancata venivano più che mai strazianti i gemiti dell'organino; poi s'udì una girandola di stonature e il suono cessò. Allora egli s'aggiustò sulla spalla la manica vuota della giacca, cavò fuori dalla camicia un piattino di stagno, e girò per la stanza a mendicare qualche soldo.

Quando mi tornò accanto non appena mi vide mettere la mano in tasca per trarne una moneta, ritirò prontamente il piattino e accennandomi con lo sguardo la pipa che avevo accesa allora mi disse a voce bassa: — Mi regali piuttosto da fumare.

— Ma il fumo non esclude l'arrosto — gli risposi; e gli diedi un po' di tabacco e pochi soldi.

Più tardi, seguendo la strada in riva al Brenta per andare a Fonzaso, rividi ancora una volta il vecchio che aiutato da un ragazzo trascinava un piccolo carretto sul quale era legato l'organino.

Egli mi riconobbe da lungi. Fermò il carrettino, corse al manubrio e riprese a suonare il miserere [247] del Trovatore. Lo salutai sventolando il cappello; lo risalutai ancora; poi entrammo tutti in un sentiero nell'ombra verde e trasparente di un bosco di querce e lo perdetti di vista.

* * *

Fra Valstagna e Fonzaso stanno i forti militari di Fastro e del Tombione: nell'attraversarli facendo stridere i chiodi aguzzi delle scarpe su le lastre di ferro dei ponti levatoi, guardando le torri, dalle cui finestre s'affacciavano, sbadigliando i cannoni, io non potei fare a meno di ripensare a quei tempi beati quando dugento fanti cum sui schioppetti over archibusi, riparati in una meschina ridotta bastavano a fermare un esercito. E i dugento fanti cum sui schioppetti mi accompagnarono fino alle porte di Fonzaso.

Oltrepassato il paese, sotto un gruppo di case, su la sponda del fiume Cismone, vidi da lontano una folla di contadini ferma attorno ad una carrozza su cui una figura ritta gesticolava energicamente. Credendo che fosse un ciarlatano il quale vendesse i suoi medicamenti specifici affrettai il passo. La figura ritta sulla carrozza era invece una povera pazza che veniva condotta via dal paese per esser forse rinchiusa in un manicomio. La poveretta, giovine e bella, urlava parole strambe, e agitando nell'aria le mani aperte, rideva, mentre copiose lacrime le colavano per le guance infiammate. I più vicini per chetarla, accarezzandola le sussurravano parole affettuose, con la gola stretta dal pianto; i più lontani ridevano.

[248]

La demente appena mi vide, protese verso di me le braccia, e, accennandomi a quelli che la circondavano, prese ad urlare: — Enrico! Enrico! Enrico! — Allora un uomo alto, pallido e barbuto si fece innanzi e diede al vetturino una valigia che questi si pose subito fra i piedi; abbracciò una vecchiarella vestita di nero che piangeva dirottamente; e ingrossando la voce, comandò alla mentecatta di sedersi. La disgraziata si rannicchiò in fondo alla carrozza tremando; l'uomo le sedette accanto, il vetturino schioccò la frusta, il cerchio dei curiosi s'aprì e la vettura sollevando nuvoli di polvere si allontanò rapidamente sulla via bianca arroventata dal sole.

Raggiunsi i miei compagni avendo negli orecchi le grida della pazza; e nella mente un tumulto di pensieri tristissimi. Sui lati della strada di tratto in tratto sulle rocce grigie fra folti cespugli d'erbacce giallastre appariva qualche croce di legno; in fondo alla valle di quando in quando un vecchio ponte vestito di erica e di piante salvatiche cavalcava il fiume veloce e sulle vette dei monti, coperti di oscure foreste di abeti, si scorgevano le rovine di grandi castelli popolate spesso di corvi neri e crocidanti e sempre di paurose leggende.

Mentre passavamo sotto uno di cotesti castelli il giovinetto trentino mi si accostò per dirmi con voce commossa che eravamo poco lontani dal confine. Non so più quali cose io gli dissi per consolarlo, ma ricordo che egli, seguitando a camminarmi accanto, sospirando, si tolse dal cappello le margherite, e le ripose a una a una, insieme con qualche lacrima, entro le pagine di un taccuino.

Dopo un poco mi afferrò per un braccio e forzandomi a restar fermo: — Varda! — mi disse, additandomi [249] una casinetta bianca — Varda! La xe l'ultima casetta italiana.

Ci fermammo qualche istante a guardar la casetta che dall'alto di un poggio verde sembrava salutasse il fiume Cismone che arrivava fresco fresco dall'Austria e seguitammo la via.

* * *

Al Pontetto è il confine.

Uscendo dall'Italia, a destra sta la casa della imperial regia dogana; a sinistra quella dei nostri doganieri. Un'osteria è vicina alla casa italiana, e una stamberga di legno, sulle cui tavole imbiancate di recente si legge scritto col carbone: Otel zur Kaiser Krone, si appoggia alle mura della imperial regia dogana austriaca. Appena entriamo in un portico basso, ove sono allineate parecchie carrozze e legati molti muli e cavalli, un doganiere biondo e roseo, tutto vestito di nero, visita solennemente i nostri sacchi volgendosi di tanto in tanto a sorridere alla moglie del suo brigadiere, affacciata a guardare sulla porta della casetta austriaca.

— «Non contrabbando, signore?» — mi domandò l'imperial regio doganiere, dopo aver rovistato nel mio sacco, accennandomi alle tasche dalla parte del cuore e volgendosi ancora a sorridere alla donna.

— No. — gli risposi. E vedendo che la donna guardando il doganiere movea le labbra a un sorriso, pensando che egli forse non avrebbe potuto rispondere, come io risposi a lui, se il suo brigadiere indicandogli le tasche dalla parte del cuore gli avesse chiesto: «Non contrabbando?» mi allontanai.

[250]

Eravamo in Austria. Eppure non pareva. Intorno a noi gli alberi sorgevano lieti e verdi come quelli delle nostre terre; il Cismone spumeggiava fra i sassi, giù in fondo alla valle, così come lo avevamo visto spumeggiare poco prima nelle gole dei nostri monti; gli uomini ci salutavano, dicendo: «buon viaggio!»; le donne al pari delle nostre donne conducevano i buoi all'abbeveratoio; i cani abbaiavano scodinzolando attorno ai casolari, nè più nè meno dei cani delle nostre campagne: qua e là negli orti in riva al fiume le zucche fiorivano rigogliose simili in tutto alle zucche italiane, e gli asini ragliavano sonoramente col muso all'aria come gli asini dei nostri paesi.

— Allegro, tu! Allegro! — dissi allora al giovinetto trentino, picchiandogli sulla spalla, mentre scendevamo nella valle di Primiero, ma egli mi guardò con gli occhietti azzurri, e piegando il capo sospirò: — La xe un altra aria! La xe un'altra aria! — E in così dire due lagrime gli scendevano per le gote.

Seguitammo tutti a camminare in silenzio, e poco prima del cadere del sole arrivammo a Fiera.

La piccola città la trovammo appiattata fra il verde dei campi di canape e fra le piantagioni di tabacco in riva al Cismone, sotto alle cime della Pala di S. Martino, del Cimon della Pala, della Fradusta, della Rosetta e del Sasso Maggiore. Essa nel mille e trecento ebbe un glorioso succedersi di giorni lietissimi quando in un monte che le sorge accanto vennero scoperte alcune vene di argento. Allora una moltitudine di uomini, di donne, di vecchi e di fanciulli invase la valle silenziosa ove abitava il monte milionario. Oh! che giornata deve essere stata quella per lui che fin allora aveva vissuto selvaggio e solingo, quando un bel mattino risvegliatosi al primo apparir della [251] luce e levato il capo dal roseo origliere di nubi udì da mille bocche cantar le sue lodi e sentì intorno a sè un festoso e continuo picchiare di mazze e di martelli. Certo che, se le avesse avute, il povero monte si sarebbe fregate le mani per l'allegrezza. Ma ohimè vennero anche per lui i giorni dolorosi della miseria, poichè tutta quella gente che gli era intorno vivendo alle sue spalle col suo argento, appena gli ebbe vuotate le tasche e gli ebbe tolto fin l'ultimo picciolo se ne andò altrove, senza neppur voltarsi a salutarlo, lasciandolo solo come un cane! Poveraccio! Il giorno che andai a fargli visita quando, dopo di essermi aperta con fatica una via fra selvette spinose di cardi e di piante cineree sotto i cui fiori gialli e violacei guizzavano i ramarri, io mi trovai dinanzi a una delle sue buche di dove tanta gente aveva tratto fuori tanta ricchezza, fui preso da una pietà così profonda che se non fossi stato vinto dal timore di offendere la sua dignitosa miseria gli avrei dato cinque lire.

Ma ora Fiera s'è data pace della fine delle sue miniere, le quali, come dice efficacemente un nobile scrittore, «appartengono alla storia», la quale non sa che farsene!, e vive modestamente, con quel poco che le è rimasto, in riva al Cismone, dove a chi ha la fortuna di andarla a vedere essa mostra subito quel che possiede: una chiesa gotica con un alto campanile a fianco, un teatro, un imperial regio capitanato distrettuale, un ufficio di posta e telegrafo, un negozio di generi di privativa, una bottega dove si vendono pipe tirolesi, si fabbricano dolciumi e si imbalsamano uccelli, un palazzone nero ove una volta si rinchiudevano le streghe, le donne possedute dal demonio, e, se si potevano acchiappare senza [252] bruciarsi le dita, anche i sanguanelli; e nessun monumento a nessun grande uomo.

Tutte queste belle cose, meno l'ultima, s'intende, chi vuol vederle le trova subito, senza camminar molto, in tre vie che si distinguono coi nomi di contrada lunga, contrada di sopra e contrada di sotto, e in una piazza che non solo si chiama modestamente piazza di sotto; ma verso le cinque pomeridiane viene anche adoperata come sferisterio. Allora che vi andai, difatti, vi trovai sei giovinotti che vi stavano a giocare una partita alla palla. Avevo appena incominciato a seguire le sorti della partita quando un giuocatore mal destro mandò una palla sur una finestra del regio imperial capitanato distrettuale e un vetro andò in frantumi. Caspita! pensai subito, ora viene il regio imperial capitano distrettuale e ci impicca tutti; ma non avevo finito di pensarlo che invece del regio imperial capitano distrettuale venne un gendarme grasso e rubicondo con la canna di una lunga pipa di porcellana fra le labbra. Egli aprì adagio adagio la finestra, guardò il vetro rotto, sorrise e buttò a basso la palla che era rimasta sul davanzale, e dietro alla palla un'occhiata che pareva volesse dire: — Eh, cari miei, altre palle ci vogliono per farmi perdere la pazienza! — Poi sorrise di nuovo, richiuse adagio adagio la finestra e se ne andò.

I sei giovinotti ripresero, ridendo, il loro giuoco e un omino storpio accoccolato sopra una sedia seguitò a gridare con voce stridula i punti della partita.

[253]

* * *

Un delizioso giardinetto allieta il maggior albergo di Fiera. Dopo di aver desinato in gaia compagnia vi scesi, mentre un chiarore opalino che andava a poco a poco spargendosi nel cielo annunciava il sorgere della luna. Per vederla uscire dalle cime dei monti io m'era appena seduto sotto una pianta di rose, i cui rami spinosi abbracciavano il tronco di un larice, quando un canto doloroso ruppe il silenzio del piccolo giardino. I singulti dell'Ich grolle nicht di Schumann venivano da una finestra dell'albergo, si fermavano per qualche istante sulle rose e si perdevano nell'aria impregnata di acuti aromi resinosi. Appena il canto si tacque mi parve di sentire una voce che sussurrasse: — Enrico! Enrico!... — e un fiore mi cadde sul cappello. Balzai in piedi; alzai la testa e udii subito il cigolio di una finestra che si richiudeva in fretta.

Raccolsi il fiore e, ripensando alla pazza di Fonzaso, mi avviai lentamente verso la mia stanza.

Nel corridoio vi trovai una donna con un bambino sulle ginocchia, che dondolandosi sur una sedia, canterellava con un filo di voce:

Quanno che la mi' mamma me cunava

Cantava 'na canzona de Turchia.

Le fasse co' le quale me fassava

Era' tessute de malinconia.

Quanno che la mi' mamma me cunava

Cantava 'na canzona de Turchia!

Mi trattenni un poco ad ascoltare la cantilena, forse recata anch'essa dall'Oriente con le norme per la fabbricazione dei cappelli di paglia da Nicoletto [254] del Sasso, e ne fermai, come meglio potei, sur un pezzo di carta, le parole; poi entrai nella mia cameretta ed apersi la finestra.

L'ultimo quarto della luna inargentava le acque del Cismone, che correvano scrosciando. Anche loro cantavano la ninna nanna ai larici ed agli abeti che sotto il cielo stellato s'addormentavano, sulle ginocchia della notte, nell'ombra tacita e densa delle umide sponde scoscese.

[255]

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