Un Congresso Alpino

(1887)

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Due anni addietro, allor che fui sul punto di lasciar Roma per recarmi a visitare i mercati di Bombay, le rovine dell'antica Delhi e il sacro Gange, nelle cui acque si specchiano i templi della santa Benares, le parole di commiato che mi sentii ripetere a sazietà da quanti si interessavano al mio viaggio furono queste: — Preparati bene la tua valigia delle Indie, e di laggiù scrivici: non far l'indiano! — Nell'estate dell'anno scorso mentre stavo per andarmene in Ispagna non mi riusciva di incontrare un amico senza che egli non mi offrisse un vermouth per poi potermi dire: — Bevi ora, perchè quando sarai in riva al Manzanare non beverai più. Lo spagnuolo non beve! — E quando infine qualche giorno fa partii da Roma per pigliar parte alle gite del decimonono congresso del Club Alpino Italiano, le parole che mi perseguitarono non soltanto lungo le vie dell'Urbe, ma anche durante il viaggio furono le seguenti: — Se vai al congresso alpino, divertiti; ma non ascendere il Monte di Pietà! — E le suddette parole mi molestarono tanto che, per non sentirmele più ripetere, feci ovunque ogni sforzo per dissimulare la mia qualità d'alpinista, e appena il treno arrivò a Vicenza, e un signore con una coccarda azzurra all'occhiello mi venne [228] incontro a dimandare se io era del Club Alpino io senza rispondergli, fuggii fuori della stazione e salii nell'omnibus dell'albergo dei Due Mori ove il signor Tito Libetta aveva già pigliato posto con la sua valigia, sul cui dorso il nome e cognome di lui si leggevano ricamati in seta rossa non che in bellissima calligrafia.

Mentre l'omnibus attraversava una vastissima piazza ombrata da splendidi filari d'ippocastani, il signor Tito mi fece sapere che veniva a Vicenza per farvi delle ricerche storiche, e non appena il carrozzone entrò nella porta della città, ove una torre medioevale illuminata dal sole rosseggiava sul cielo azzurro mi confidò che la storia di Vicenza era una storia molto interessante.

Non temete che io vi ripeta tutto quello che egli mi disse, mentre l'omnibus sobbalzava sulle pietre delle vie vicentine imbandierate. Sarebbe anche inutile, perchè la storia antica di una nostra città moderna è sempre la medesima storia; e chiunque, sol ch'ei lo voglia, se la può cucinare da sè. Ne volete la ricetta? Eccola. «Si pigliano degli aborigeni, dei pelasgi, degli etruschi, dei greci e dei romani con qualche Giulio Cesare, dei galli e, se se ne trovano, dei cartaginesi con due o tre pezzetti di Annibale, figlio di Amilcare Barca, e si mescolano insieme. Quando sono bene uniti ci si mette sopra un po' di Costantino con un pizzico di «quanto mal fu matre», e si fanno cuocere a fuoco lento. Poi, appena incominciano a rosolarsi, si insaporiscono con una salsa di goti, visigoti, ostrogoti, vandali, unni, longobardi e franchi con uno spicchio di Carlo Magno, con una cucchiaiata di Leone terzo e con un pochino di Pipino (volendo, secondo i gusti, vi si possono aggiungere anche dei [229] guelfi e ghibellini con qualche filetto di Barbarossa), si levano dal fuoco, si lasciano raffreddare, e al momento opportuno si serve in tavola».

* * *

Prima di visitare la città mi recai alla sede della sezione vicentina del Club Alpino dove trovai moltissimi alpinisti di tutti i monti e di tutte le pianure della penisola, che ritiravano le tessere per prender parte alle gite indicate nel programma del congresso. Della sezione romana vidi pel primo il nostro segretario Abbate, poi il pittore Zoppi, il roseo e biondo Bonfiglietti, Memmo Ricci, l'ingegnere Minerbi e l'amico Dino Spadini, valente alpinista e incomparabile costruttore di bisticci, di freddure e di altre simili scimunitaggini. All'uscire m'imbattei con Guido Fusinato, che, arrivato allor allora da Torino, veniva anch'egli a ritirare le sue tessere. Non ci eravamo più visti fin da quando avevamo lasciato la Spagna, e dopo esserci abbracciati rievocammo con calda parola i ricordi di Madrid, di Toledo e di Barcellona. L'amico Spadini osservò subito che non valeva la pena di starci tanto a commuovere, perchè tra il viaggio di Spagna e questo di Vicenza non v'era per noi altra differenza se non un semplice e meschino «i». Difatti — ci disse — in Ispagna eravate sui colli iberici, qui invece siete su quelli berici.

* * *

In piazza dei Signori sorge la mirabile basilica: il vecchio palazzo della Ragione, che il Palladio restaurò, aggiungendovi le logge esterne. Come tutte le opere del sommo architetto, la grande fabbrica va famosa [230] per la semplice eleganza delle linee e per la grandiosa correttezza delle proporzioni. Ora, nella maggior sala dell'edificio nobilissimo, v'è un'esposizione di piccole industrie, ordinata a cura della sezione vicentina del Club Alpino Italiano.

Visitai la piazza dei Signori, in compagnia dello Spadini mentre l'ultimo raggio del sole dorava la cima della torre maggiore, che sorge a fianco della basilica, i cui marmi son pittorescamente coloriti dal tempo, il quale, dopo il Tiziano, è il più grande coloritore che io mi conosca. In fondo alla piazza un grande palco per l'estrazione di una tombola sorgeva sulla folla nera, fra due colonne antiche, sopra una delle quali sta fieramente posato il Leone di S. Marco, e su l'altra sta mite e ignudo il Redentore, che guardando il suo vicino sembra dirgli: — Tu hai le ali; ma io come faccio se voglio scendere? — Dai balconi si affacciavano gruppi pittoreschi di donne, e di tempo in tempo s'udiva fra il brusìo della folla la voce stentorea di un banditore che annunciava i numeri che un signore vestito di nero estraeva da un'urna di vetro. Mentre ero lì lo sguardo m'andava insistentemente sulla altissima torre, ove una lapide ricorda i nomi dei vicentini che caddero difendendo le loro terre dalle soldatesche austriache. Fu appunto sulla sua cima che nel 1848 venne inalzata la bandiera bianca per annunciare agli assedianti che la città, flagellata dalle artiglierie, straziata dalla fame e da mille tormenti era costretta a chieder tregua; ma al vederla il popolo ruggì di rabbia, e, tumultuando, urlò che si abbattesse. Allora s'udirono echeggiare alcuni colpi di moschetto. Gli eroi non soffrendo tanta umiliazione, colpivano con le ultime cartucce rimaste nelle loro giberne il segno della resa.

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Uno squillo di tromba mi fece tornare alla realtà del momento presente. Un rimescolio avveniva fra la folla, in mezzo alla quale un uomo agitando il cappello ed aprendosi a stento un varco andava a riscuotere il premio della tombola.

Quando il fortunato vincitore, accompagnato da una tempesta di fischi, riuscì a salire sul palco, e la vasta piazza cominciò a spopolarsi, io e lo Spadini riuscimmo ad avvicinarci al monumento del Palladio, che sorge accanto alla basilica. Il feroce freddurista, appena vide che intorno alla statua c'erano molte venditrici di ortaglie, dopo di avermi indicato i mucchi di pomodori, di zucche, di melloni e di angurie, disposti in bell'ordine, come un ricco tappeto multicolore, ai piedi del monumento non si lasciò scappare l'occasione di farmi osservare come tutti quegli ortaggi fossero giustamente al posto loro, perchè il grande architetto avendo passata la vita a lavorare sulle piante lo si poteva considerare come un insigne botanico.

La freddura atroce mi agghiacciò lo stomaco: e poichè qualche fiammella di gas incominciava già a illuminare, oltre alle colonne e agli archi degli edifici palladiani, anche il mio appetito, mi rifugiai in una trattoria in piazza del Duomo ove ebbi il piacere di trovare un Vittorio Emanuele di marmo, il quale per tutto il tempo del mio desinare si degnò di rimanere davanti a me, reggendo con la destra il suo elmo piumato, in atto di reverente saluto.

Dopo pranzo andai alla Società del Casino nelle cui sale, affollate di congressisti, vidi il sindaco di Vicenza Giovanni Zanella, fratello del poeta della «Conchiglia fossile»; il presidente del Club Alpino Lioy; Almerigo da Schio presidente della sezione [232] vicentina; il segretario della medesima Alessandro Cita... E non cito più altri nomi perchè altrimenti non la finirei più.

Nelle belle sale del Casino rimasi fino a ora tarda, ammirandole, e bevendo birra; poi, dopo di aver presentato i miei ossequii al simpatico presidente dell'associazione, l'avvocato Gasparella, uscii.

Mentre m'avviavo verso l'albergo dei Due Mori con l'amico Spadini il quale non la finiva più di manifestarmi la sorpresa da lui provata dianzi nell'avere rimarcato che l'avvocato Gasparella non aveva gli occhiali, perchè secondo lui tutti gli avvocati debbono esser sempre «con su lenti», a un tratto da una finestra aperta, in una via silenziosa, venne il suono di un pianoforte. Stavo per fermarmi ad ascoltare quando il mio amico, afferratomi per un braccio, mi trascinò via dicendomi: — Vedi, io amo tutti gli strumenti, compresi quelli notarili, ma, abituato come sono a vivere sui monti, non posso soffrire il piano, massime quando è forte. Vieni! — Dovetti rassegnarmi a seguirlo e a sentire ancora altre scemenze: difatti, appena arrivammo davanti alla porta dell'albergo, egli intanto che i chiodi delle sue scarpe, urtando sulle pietre, mandavano scintille, dopo di avermi fatto osservare quale e quanta importanza avessero nella vita del vero alpinista le freddure e la poesia, mi disse — vedi: io fra tutti i poeti preferisco il Monti. E tu?

— Anch'io — gli risposi —; ma quando il cielo non è Foscolo!

E lo lasciai con le sue lepidezze. La mezzanotte era di già passata e alle sei dovevamo trovarci tutti in piazza Castello per andare a visitare i colli berici. Lo lasciai, dunque. Ma l'avevo appena lasciato che [233] egli mi richiamò subito per raccomandarmi di non guardar mai i due mori che reggevano l'insegna della locanda perchè tanto l'uno quanto l'altro erano tutti e due «con turbanti».

* * *

Dopo qualche ora di sonno mi recai al convegno e vi trovai pochi congressisti che aspettavano gli altri. Aspettai anch'io, fino a che la piazza si venne popolando di una infinita varietà di tipi, fra i quali ne osservai uno, che mi fece fare gravi riflessioni sull'alpinismo e sulle dolorose conseguenze che può arrecare a chi ne abusa. Egli aveva il capo a metà nascosto da un elmo coloniale allietato da un mazzetto di edelweiss; indossava una giacca verde all'ussera con alamari neri e un paio di brache di velluto marrone, e aveva gli stinchi foderati da un paio di gambali di cuoio giallo; e camminava a gran passi, facendo risuonare i chiodi delle scarpe sulle pietre della via, e palleggiando un lungo bastone di faggio, con la punta ferrata e con la sommità ornata da un corno di camoscio, sul quale si leggevano scritti in italiano, in francese e in tedesco i nomi delle montagne sulle cui vette egli certamente non era mai stato.

Lo Spadini, che fin allora ci aveva rallegrati ed abbrutiti con le sue freddure, appena lo vide, gli andò incontro, lo salutò, se lo prese a braccetto e rimase a parlare con lui; poi atteggiando comicamente il volto a una inconsolabile mestizia venne a dirci che quell'infelice gli aveva confessato di essersi dato all'alpinismo per dispiaceri domestici. E illustrando [234] le parole bislacche con gesti ridicoli seguitò: — Egli mi ha detto che la sua vita era un Gran Paradiso, quando per sua disgrazia, innamoratosi di una giovanetta: di una Iungfrau, come direbbero in Svizzera, la sposò. Da allora la esistenza di lui divenne un ghiacciaio della Tribolazione: insomma il disgraziato ha le prove di essere un Cervino... — E mentre noi lo urlavamo concluse: — Ora non gli resta altro di meglio da fare che legarsi un Gran Sasso al Colle del Gigante e di andarsi a buttare nel Bacchiglione.

* * *

Quando Dio volle ci mettemmo in cammino, e seguendo un lungo porticato ove i venditori di immagini sacre, di rosarii e di scapolari avevano alzato le loro baracche, arrivammo alla Madonna del Monte, a fianco della quale in memoria delle battaglie ivi combattute nel 1848 sorge un monumento scolpito dal Tantardini. Poco lontano da esso ve n'è un altro inalzato nel 1860 dall'Austria ai suoi soldati che caddero come dice l'epigrafe: pro Austriae incolumitate.

Dopo una visita al Santuario ove ammirammo il famoso quadro del Veronese, La cena di San Gregorio Magno, ci avviammo verso la villa Pasini, uno splendido edificio del settecento, un pezzo di paradiso fra l'azzurro del cielo, i colori smaglianti dei fiori e il verde intenso degli alberi secolari. Colà, il padrone di casa Eleonoro Pasini ci offrì una colazione, dopo la quale tornammo a Vicenza, recando con noi un ricordo incancellabile dell'affettuosa accoglienza prodigataci dal gentiluomo vicentino.

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Nel pomeriggio mi recai al teatro Olimpico per assistere al decimonono congresso degli alpinisti italiani. Il grandioso teatro, che il Palladio incominciò a costruire per deliberazione degli accademici olimpici, e lo Scamozzi, sui disegni del grande architetto, trasse a fine, lo trovai affollato di alpinisti, di signore e di statue. Parlava ai convenuti con dotta parola Almerigo da Schio. Trovandomi disgraziatamente molto lontano dall'egregio oratore, purtroppo del suo lungo discorso non posso riferirvi, ahimè!, che queste parole che ritrovo segnate in una pagina del mio album: — «...difatti, o signori, il mecaschisto... eccoci dunque arrivati al periodo pliocenico... perchè, o signori, non si può... l'origine di tali conglomerati è di tale natura... le dolomiti non sono che... e troviamo il calcare schistoso... lo gneis... le rocce metamorfiche... nel periodo giurassico... il trias... il gres... i lepidodendri... le licopoditi... le aracauriti... le rocce mesozoiche... i sedimenti». — Coi sedimenti l'orazione convincente ed efficace dell'insigne geologo ebbe termine e un fragoroso applauso risuonò nella sala vastissima.

Ma il momento della più alta commozione fu quando il presidente e il vicepresidente del Club Alpino tridentino furono invitati da Paolo Lioy a voler salire al suo fianco per dividere con lui la presidenza del congresso. Il barone Emanuele Malfatti e il professor Giovanni Marinelli s'avvicinarono al Lioy, e come questi li ebbe vicini, esclamò: — Ora il Club Alpino Italiano è completo!

Un uragano di evviva e d'auguri scoppiò nella vasta sala a quelle parole e seguitò per lungo tempo fra la commozione unanime.

Quando la calma ritornò fra gli adunati, seguirono [236] le relazioni, le discussioni, le proposte e le letture, e appena il congresso ebbe fine s'usci e s'andò tutti al teatro Eretenio, ove ci attendeva un banchetto: il banchetto sociale. In platea e sul palcoscenico erano state imbandite le tavole, ed era veramente uno spettacolo lietissimo il vedere tanta gente mangiare e bere allegramente mentre dall'alto dei palchetti affollati di signore piovevano fiori e sorrisi. A metà del pranzo coi fiori e coi sorrisi piovvero anche i discorsi.

I discorsi! C'è molta gente che li odia; io li amo. L'unica cosa che distingue qualche volta l'uomo dalla bestia non è la parola? Immaginate che un cignale domestico potesse dire: — Io sono un porco — e dovrete convenire con me che quel cignale domestico non sarebbe più un porco; ma sarebbe un uomo. — Si! I discorsi, massime quelli che dopo di averli scritti e mandati a memoria si improvvisano fra l'arrosto e l'insalata, a me piacciono molto. Quelli poi che udii pronunciare al teatro Eretenio debbo dirvi che mi piacquero moltissimo. Parlarono Lioy, Grober, Malfatti, Brentari, Marinelli, Budden, Almerigo da Schio e per ultimo il caro Magnaghi, sollevando intorno a lui la più schietti allegria.

Dopo il banchetto molti si recarono a udir l'Africana al Politeama comunale e moltissimi altri si sparsero per le vie illuminate dalla luna per ammirare i superbi edifici del Palladio, dello Scamozzi e dell'Arnaldi.

* * *

Eravamo una diecina e si passeggiava pel Corso Umberto, una via stretta e irregolare, ma ricca di [237] palagi maravigliosi, quando uno di noi si fermò dinanzi a una bottega di tabaccaio. Stava per entrarvi, ma lo Spadini, che ne faceva una ad ogni pie' sospinto, sbarrandogli la via prese a dirgli: — Per l'amor di Dio! Férmati! Non mettere in pericolo la tua fama di alpinista!

— E perchè? — gli chiese il nostro amico.

Per tutta risposta l'implacabile freddurista gli indicò con la punta del suo bastone l'insegna della bottega, ove sotto uno stemma si leggevano queste maleauguranti parole:

SALI E TABBACCHI.

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